2024-04-28
Big pharma ci vuole «malati sani»
Tedros Adhanom Ghebreyesus (Ansa)
Mentre l’Oms rende sempre più confusa la nozione di salute, i conflitti d’interessi degli esperti spalancano un nuovo allarmante scenario: le medicine date a chi sta bene.La sindrome di «autoproduzione di birra» è una condizione rara per la quale l’organismo produce quantità appezzabili di etanolo (a causa della fermentazione intestinale di amidi). Non determina sintomi e l’unico vero inconveniente è che, alterando i parametri ematochimici, rischia di mettere nei guai i guidatori che vengono esaminati all’alcol-test. Vai a spiegare alla Stradale che non hai bevuto!L’esempio illustra bene il principio per il quale non basta avere uno o più parametri sballati per fare diagnosi o per definirsi malati. Anche perché questa è definizione tra le più controverse. Provate a chiedere a chiunque, a cominciare dai medici, cosa si intenda per salute e malattia. Difficilmente otterrete una risposta soddisfacente. Secondo l’Oms la salute è «lo stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non semplice assenza di malattia», formulazione successivamente (2011) sostituita da una più fantasiosa asserzione: «Salute è la capacità di adattamento e di auto gestirsi di fronte alle sfide sociali, fisiche ed emotive». In base a questi concetti c’è da chiedersi chi sarebbero i pochi a potersi considerare sani. Ma c’è dell’altro. Perché da quella definizione dipende quale medicina e quale uomo la nostra società tutela e promuove.Secondo l’interpretazione corrente la malattia ha una dimensione ontologica indipendente dal paziente, con malfunzionamento di apparati e contrassegnata da fluttuazioni «quantitative» di determinati parametri. La dimensione soggettiva e il vissuto dei pazienti sono irrilevanti rispetto a una concettualizzazione che riduce l’organismo a una macchina, regolata da logiche lineari. Nonostante l’enfasi posta dalla pubblicistica medica su questa impostazione, il modello è ben lungi dall’essere accettato a causa di inadeguatezze e contraddizioni. Una variazione del parametro quantitativo non è da sola sufficiente a definire una patologia. Lo stato di benessere può assumere contorni variabili mentre la malattia può essere definita dalla comparsa progressiva di disfunzionalità che ne riducono la capacità di resilienza. Il passaggio successivo è quello che evolve verso uno stato di caos e quindi alla morte in risposta a turbative anche minime.La definizione di malattia come entità autonoma si è però imposta perché coerente con una visione riduzionistica (e semplicistica) della Medicina, e soprattutto perché funzionale al mercato del farmaco. Nel corso degli ultimi 40 anni, la pervasività della grande industria farmacologica ha promosso una dilatazione patologica dei quadri nosologici, introducendo criteri discutibili e spesso ideologicamente falsati. Per citare gli esempi più noti, abbassando l’asticella dei valori di riferimento normali per il colesterolo ha determinato un incremento mostruoso nell’uso di statine: +360% in soli 5 anni. É evidente che più si ampliano i confini che definiscono una malattia, più si espande il bacino dei potenziali pazienti e il relativo mercato dei produttori di farmaci. Una piccola modifica da un giorno all’altro e voilà, milioni di individui «soggettivamente sani» vengono trasformati in persone «oggettivamente ammalate». Ne abbiamo avuto la riprova con il Covid, quando la sola positività al tampone, in perfetto benessere, permetteva di ascrivere l’ignaro cittadino alla classe dei «malati asintomatici». È inquietante che queste decisioni vengano promosse da «esperti» che hanno chiari conflitti di interesse: più dell’80% di quanti redigono le cosiddette «linee guida» ha chiari e consolidati legami con l’industria farmaceutica. È questo che alimenta il fenomeno del «disease mongering», che ha portato a gonfiare in modo inusitato le affezioni patologiche. È la realizzazione del sogno orgiastico di Big pharma, ben espresso dalla dichiarazione di Henry Gadsen, ceo della Merk, che 30 anni fa aveva dichiarato: «Il nostro sogno è produrre farmaci per le persone sane. Questo ci permetterebbe di vendere a chiunque». Il meccanismo è semplice e ben rodato anche in altri settori: definire un set di sintomi in cui molti possano riconoscersi e che aiutino a etichettare una nuova entità morbosa. Alimentare il bisogno e proporre una soluzione, spesso recuperando «vecchi» farmaci utilizzati in modalità off label. In questo modo si sfornano nuovi preparati che sono immessi sul mercato senza adeguata valutazione dei rischi e senza reale beneficio.C’è di più: si abitua la gente a ricercare una soluzione chimica per problemi che hanno ben altra causa e li si educa a considerare la salute non come la condizione di default ma come una merce da «acquisire» (o acquistare?) grazie a un monitoraggio diagnostico/terapeutico continuo e asfissiante.Il prezzo per la «lunga vita» è la privazione della libertà e l’assoggettamento alle regole del mercato. Cose ben note da più di trent’anni, quando Ivan Illich pubblicò Nemesi medica, ma che oggi rivestono una attualità particolare a fronte dell’accresciuto potere di Big pharma che, per tramite dei suoi lacchè, pretende addirittura riscrivere le politiche sanitarie dei governi. Abbiamo avuto un assaggio con vaccini e green pass. E ci è bastato.
Jose Mourinho (Getty Images)