- L’industria spinge i prodotti ultra-processati e con l’apertura ai nuovi mercati i pericoli crescono. Lollobrigida: «Vigileremo».
- Il patto con Brasile, Argentina e altri ci porterà in dote 180.000 tonnellate di saccarosio.
Lo speciale contiene due articoli.
Nel 1956 arrivava sugli schermi «L’invasione degli ultra-corpi», un film che parla di «copie» extraterrestri che si sostituiscono agli umani, di cui sono in tutto e per tutto simili. Ecco, per definire i cibi «ultra-processati» potremmo sfruttare questa metafora: cibi «alieni», trattati e modificati, ma che comunque non rassomigliano in nulla alla loro controparte naturale pur avendo la presunzione di sostituirli. Il tema è tornato ora di attualità dopo che Nature e il segretario alla Salute degli Stati Uniti, Robert Kennedy Jr. hanno lanciato un appello per una ridefinizione critica dell’intero argomento. I cibi ultra-processati sono prodotti alimentari e bevande che hanno subìto specifici tipi di trasformazione partendo da componenti naturali. Una nuova categoria di aziende (Big Food) è all’origine del fenomeno esploso dal 2000. Questi alimenti sono progettati per essere economicamente «convenienti», iper-palatabili e facili da preparare. Schematicamente i cibi vengono ripartiti in tre categorie. Il primo gruppo comprende alimenti minimamente trasformati e le cui proprietà nutrizionali di cibi originali non sono alterate. Il secondo gruppo comprende sostanze estratte come oli, grassi, farine, pasta, amidi e zuccheri. Questi ultimi componenti sono diventati le materia prima per il terzo gruppo, i cibi ultra-processati, ottenuti aggiungendo spesso quantità eccessive di zuccheri, grassi, conservanti, additivi chimici, aromi e coloranti. Nel gruppo troviamo pane, biscotti, gelati, dolciumi, cereali per la colazione, barrette di cereali, patatine fritte e snack salati, bevande zuccherate e analcoliche, pre-cotti a base di carne. Non hanno alcuna somiglianza reale con gli alimenti naturali, ma sono ingegnerizzati con l’esplicito intento di incrementarne l’attrattività, creano assuefazione e sono commercializzati in modo da apparire sani e «freschi». L’addizione di zuccheri è il pericolo: la Fao ha rilevato uno spropositato incremento nel consumo di zucchero (da 1 kg nel 1800 ai 60 kg/anno attuali per capita) e di oli vegetali polinsaturi (+450%). Questo trend ha interessato specialmente le nazioni del terzo mondo (pretendendo di sostituirsi al cibo naturale), con tassi che vanno dal 200 al 400%. Questi cambiamenti hanno stravolto i comportamenti alimentari, dato che gli junk foods sono realizzati per essere «comodi» e trasportabili, favorendo abitudini sbagliate, come «spizzicare», saltare i pasti principali, mangiare mentre si fanno altre cose come guardare la televisione, guidare l’auto o lavorare, e abituano all’idea di «mangiare da soli». Sono inoltre nocivi per la salute ed hanno contribuito alla straordinaria crescita delle malattie allergiche, metaboliche, tumorali e cardiovascolari. Il problema sta nell’eccessivo sbilanciamento di componenti - bassa concentrazione di proteine/vitamine e elevatissima quantità di zuccheri, sodio e grassi saturi - che è all’origine di multiple carenze nutrizionali e alterazioni biochimiche. L’attuale pandemia di obesità e diabete riconosce come causa principale proprio l’aumento degli ultra-processati. Modelli alimentari basati su questi prodotti sono difficilmente compatibili con la sopravvivenza e il benessere. L’industria è fin troppo consapevole di questo stato di cose e ha cercato di cambiare le carte in tavola adottando sotterfugi ingannevoli.
Sono stati introdotti i «premium», per riferirsi ad alimenti ultra-processati che, rispetto agli originali contengono meno grassi, o meno zucchero/sale. Alcune modifiche sono positive, ma i cambiamenti apportati sono irrilevanti: permane un quadro di grave squilibrio, vengono introdotti vitamine e minerali inutili o dannosi, mentre non riduce affatto il contenuto in zucchero (presente in media in concentrazioni 10 volte superiori a quelle dei cibi naturali).
L’introduzione di questi cibi risponde ad una precisa strategia dell’industria che mira a controllare il settore agroalimentare tramite una sorta di «circonvenzione» dei consumatori. Big Food è perfettamente consapevole dei pericoli insiti in questi alimenti, e lo dichiara senza vergogna, come ha fatto recentemente una nota multinazionale che ha ammesso come il 60% dei suoi prodotti per l’infanzia sia «insalubre». Nonostante l’evidenza scientifica, non ci sono però segnali che i produttori alimentari intendano ritirare questi prodotti dal mercato. Il disinteresse per queste questioni e per le nuove tecniche di lavorazione da parte della maggior parte di politici e mass-media rafforza questa congiura del silenzio.
Per questo bene ha fatto il ministro Lollobrigida a puntualizzare che nel caso venisse approvato l’accordo Mercosur - che aprirebbe i nostri mercati ad un fiume di prodotti alimentari trattati in difformità ai nostri regolamenti - vigilerebbe attentamente perché sulle nostre tavole non arrivino schifezze del genere. Una alimentazione adeguata e bilanciata è fondamentale per una vita longeva e in salute, come dimostrano sia i tanti studi sulle Blue Zones sia la durata media della vita degli italiani. Sembra paradossale dover affrontare questi temi nel nostro Paese, culla della dieta mediterranea, ma la vera battaglia è culturale: soprattutto i giovani sono esposti ad una pubblicità vergognosa, senza che nessuno si preoccupi di contrastare questa pericolosa deriva. Cominciamo a farlo da ora.
Mariano Bizzarri, Comitato scientifico Crea
Andrea Rocchi, Presidente Crea
Accordo amaro con il Sudamerica: l’Italia si gioca pure lo zucchero
Basta considerare che il Mercosur piace tanto a Lula da Silva, presidente «peronista» del Brasile, per sapere che per noi qualcosa va storto. Lo sa la filiera dello zucchero che ieri ha protestato sostenendo che l’accordo è amarissimo. E però la presidente della Commissione europea non dà tregua ai governi perché ratifichino l’accordo doganale con i paesi latino-americani (Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay con in più la Bolivia) che significa barattare zucchero, polli, bovini, cereali che loro ci mandano facendo dumping contro auto (soprattutto tedesche) e strumenti finanziari (soprattutto francesi) che avranno dazi agevolatissimi oltre oceano. Ursula von der Leyen all’unisono con Lula, dopo una telefonata definita da Bruxelles «ottima e abbondante», ha detto che entro l’anno il Mercosur sarà in vigore. Spiega la baronessa - spera con questa intesa di far dimenticare il flop delle trattative sui dazi con Donald Trump e di rabbonire Friedrich Merz che dalla Germania la sta impallinando – che è «un segno importante della nostra solida partnership e del nostro impegno per il multilateralismo». Lei rimane affezionata al Green deal perciò plaude a Lula e aggiunge: «L’Europa sostiene pienamente i preparativi del Brasile per la COP30, con la leadership del Brasile nei mercati del carbonio, dovremmo fare di Belém una vera pietra miliare per il pianeta». E già che siamo a parlare di carbonio si sappia che costituisce il 42% del saccarosio: lo zucchero appunto. Ieri attraverso una nota Coprob Italia Zuccheri ha fatto sapere che l’intesa con i sudamericani è un colpo mortale. «Il Mercosur», si legge, «rischia di mettere definitivamente in crisi l’ultima filiera dello zucchero rimasta in Italia». In un contesto di mercato continentale già altamente competitivo all’interno dell’Ue e mentre si negozia anche il rinnovo dell’accordo commerciale con l’Ucraina, che prevede l’importazione di 100.000 tonnellate di zucchero a dazio zero, l’introduzione di ulteriori 180.000 tonnellate dal Mercosur avrebbe effetti devastanti per la produzione nazionale.
«Non si tratta infatti soltanto della quantità dichiarata: a queste importazioni vanno aggiunte quelle presenti all’interno dei prodotti trasformati, che aggravano ulteriormente la saturazione del mercato europeo». A peggiorare la situazione per quel che riguarda l’Italia ci sono altri fattori: siamo il secondo Paese consumatore di zucchero per effetto anche della produzione dolciaria che va a impinguare l’export agroalimentare (sono 9,5 miliardi di fatturato estero per un comparto che per quasi un terzo è composto da aziende con meno di 10 dipendenti concentrate soprattutto al Sud), ma siamo tra gli ultimi per produzione di zucchero (non più del 15% del fabbisogno nazionale), ma soprattutto c’è il prezzo che continua a decadere causa dumping estero.
Tenendo conto che in Italia - grazie all’Europa che ci ha costretto ad abbandonare la produzione a vantaggio di Francia e Germania - ci sono solo due poli produttivi di Minerbio (Bologna) e Pontelongo (Padova) è immaginabile che la pressione di export dal Sud America si scaricherà in gran parte su di noi. Come sottolinea il presidente di Coprob, Luigi Maccaferri, «l’Italia non può permettersi di perdere una delle ultime filiere agroindustriali strategiche, né di dipendere completamente dalle importazioni di zucchero, prima europee e poi extraeuropee. Servono perciò regole di tutela forti, automatiche ed efficaci per difendere un settore parte integrante della nostra sicurezza alimentare e della nostra sovranità produttiva». Ma lo zucchero non è il solo settore a soffrire. Sostiene Antonio Forlini, presidente di Unaitalia l’associazione degli allevatori avicoli: «L’accordo Ue-Mercosur è un pericolo concreto e inaccettabile per la filiera avicola europea ancora una volta sacrificata a beneficio di altri settori tenendo conto anche degli impatti combinati di questo accordo con quelli dell’Ue con grandi Paesi produttori come Ucraina e Thailandia». La preoccupazione più forte è la disparità degli standard e dunque anche dei costi produttivi. Il settore avicolo per l’Italia, che è quasi autosufficiente, vale 7,5 miliardi (gli addetti sono oltre 64.000) di cui quasi uno dall’export.
Cominciamo con il ricordare alcuni concetti fondamentali. Il primo è stato formulato da Karl Popper: «La scienza non è un sistema di asserzioni certe, o stabilite una volta per tutte. La nostra scienza non può mai pretendere di aver raggiunto la verità, e neppure un sostituto della verità» Ciò significa che, anche nelle condizioni di massimo rigore, obiettività e onestà intellettuali, le scienze non producono «verità», ma solo «asserzioni» che «restano per sempre allo stato di tentativo» e modelli parziali e provvisori dei fenomeni. La scienza costruisce infatti interpretazioni per spiegare i fenomeni, fino a quando nuovi dati non intervengano per modificare la teoria precedente e impongano una lettura più attendibile. «Lo dice la scienza» è una barzelletta: la scienza fornisce strumenti utili per sapere come impostare convenientemente il problema e trovare una soluzione. La storia delle scoperte scientifiche insegna per questo che il dubbio sistematico costituisce l’antidoto essenziale contro le false certezze: ubi dubium, ivi libertas, ammonisce un detto latino. Ciò è specialmente vero in quest’epoca caratterizzata dalla crisi di riproducibilità, ovvero l’impossibilità di confermare risultati creduti scontati, un fenomeno grave che ha portato, nel solo 2023, a sconfessare più di 10.000 articoli scientifici. Per questo la scienza non può essere spacciata per un insieme di certezze dogmatiche su cui basare scelte economiche e politiche. La scienza nasce invece come palestra di libero pensiero, contro ogni assolutismo, ben consapevole di quanto difficile e complessa sia la ricerca di una verità. Ogni buon scienziato impara a sue spese che esiste la propria verità, esiste la verità dell’altro e poi esiste la Verità - con la V maiuscola - che è tutta un’altra cosa. Con il Covid le norme basilari che impongono alla ricerca scientifica onestà intellettuale, disinteresse, cauto scetticismo e disponibilità al confronto e alla condivisione dei dati sono state sistematicamente violate a beneficio di una vulgata motivata da precise esigenze politiche. In quel periodo la disseminazione delle «scoperte» - e la loro sensazionalistica comunicazione al grande pubblico - è stata indirizzata a magnificare risultati parziali, non di rado manipolando i dati o presentandoli al di fuori del contesto appropriato, dimenticando di sottolineare le incertezze e i lati oscuri che sono connessi a qualunque risultato. Un esempio preclaro è quello del ritiro di uno studio che smantellava la validità dell’idrossiclorochina come antivirale, e che è stato successivamente ritenuto fraudolento. Il dramma è che l’uso di quel farmaco è stato penalizzato, tutti ricordano (e citano ancora!) l’articolo che la condannava e nessuno -incredibilmente- sa che si trattava di una gigantesca manovra per impedire di trovare, subito, ottimi e semplici rimedi al Covid, come ha egregiamente ricordato Silvana De Mari sulle colonne de La Verità. Una vergogna che grida vendetta. Non è quindi paradossale che la pandemia abbia favorito la comparsa di cosiddetti «esperti», privi di credenziali vere e soprattutto incapaci di produrre risultati rilevanti. Per accertarsene basti vedere i valori di H-index dei tanti (troppi) che hanno affollato gli studi televisivi. I mass-media hanno contribuito potentemente a questa deriva, noncuranti che alcuni dei migliori epidemiologi e specialisti di politica sanitaria sono stati diffamati come incapaci e pericolosi da persone che si ritenevano idonee a soppesare le diverse opinioni scientifiche senza avere la benché minima competenza. In quei giorni le voci critiche sono state silenziate, ridicolizzate o semplicemente ignorate. Autorevoli esponenti del mondo scientifico -scienziati, professori, finanche premi Nobel- sono stati dileggiati, derisi o semplicemente trattati da folli. Si è negato un confronto pubblico tra i membri del Cts e un panel di esperti indipendenti. Parimenti, le audizioni al Senato di professori universitari sono passate al vaglio di Open -la nuova versione della Stasi di regime- in cui le credenziali dei novelli Torquemada rimangono avvolte nella nebbia più fitta. A molti medici, è andata anche peggio: sono stati «dissuasi» dal contestare o discutere le norme e i dati scientifici, sotto pena di ritorsioni che in molti casi hanno portato a sospensioni e radiazioni dall’albo, giustificando il tutto in nome dell’emergenza. È grave che ancor oggi si persegue attivamente l’indottrinamento, cercando di spacciare per scienza i «derivati» tecnologici, di applicazioni scientifiche affrettate, foriere di gravi conseguenze. Basti leggere i verbali della Commissione Covid. E pensare che Albert Einstein sosteneva che la scienza doveva essere presentata per quello che era, con luci e ombre, e non come occasione per vendere gadgets. È invece tipico della tecnoscienza negare i propri limiti e i propri fallimenti. Come mai, invece di preoccuparsi delle opinioni dei diversi scienziati, il ministro tarda tanto a considerare in tutta la sua gravità il problema degli effetti avversi al vaccino? Abbiamo oggi a disposizione una letteratura imponente, e i dati forniti addirittura dalla Pfizer evidenziano quanto grave sia il problema. Niente da dire sulla farmacovigilanza? Perché l’Aifa non pubblica i dati? Perché voci autorevoli non vengono ascoltate? Mi sia consentito di citare almeno un esperto che dovrebbe entrare di diritto nella commissione sui vaccini, il dottor Maurizio Federico che per anni è stato direttore della sezione vaccini dell’Istituto superiore di sanità. O forse non va bene neanche lui, dato che ha più volte documentato - con articoli scientifici e non nei talk-show - le inadeguatezze della tecnologia a mRNA. Noi non pretendiamo fornire una vulgata alternativa che abbia la pretesa di essere verità assoluta. Solleviamo dubbi, poniamo domande. E ci attendiamo che a queste si risponda con argomenti, non con insulti. Ho un suggerimento per il ministro Orazio Schillaci: perché non promuovere un convegno pubblico in cui tutti gli scienziati del settore abbiano (finalmente!) la possibilità di esprimersi e confrontarsi? Questo sì che farebbe bene alla scienza, e permetterebbe di mostrare a tutti che non è una disciplina noiosa di stampo sovietico in cui tutti applaudono ritualmente la vulgata propinata da mass-media e aziende farmaceutiche. Spero che al ministro sia chiaro che la politica sanitaria e le strategie scientifiche non possono (e non devono) essere decise da questi signori. Come recita l’articolo 33 della Costituzione, «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». E speriamo che tali restino, nonostante i Burioni di turno. Un’ultima annotazione: la medicina è una tecnica, come già insegnava Platone, basata sulle scienze. Occupa un ruolo eticamente unico: la tecnica è il mezzo tramite il quale l’ars curandi adempie la propria funzione, dove l’uomo è il fine ultimo. Per questo una relazione terapeutica non può prescindere dalla cooperazione del paziente. Il medico cura insieme al paziente, non contro di lui. Non imponendogli obblighi che contraddicono democrazia e scienza allo stesso tempo.
di Mariano Bizzarri, Dipartimento di Medicina Sperimentale, Gruppo di Biologia dei Sistemi, Università La Sapienza, Roma. Responsabile del laboratorio di Biomedicina spaziale. Responsabile del Comitato scientifico del Programma spaziale - Presidenza
del consiglio dei ministri
Gavi the Vaccine Alliance è un partenariato sanitario globale pubblico-privato con l’obiettivo di aumentare l’accesso alle vaccinazioni nei Paesi poveri, in collaborazione con i governi, Oms, Unicef e Banca mondiale, le grandi compagnie farmaceutiche e -beninteso - la Fondazione Bill & Melinda Gates. Gavi ha lo status di osservatore presso l’Assemblea mondiale della sanità e contribuisce in modo sostanziale a finanziare anche l’Oms. Il vero dominus di Gavi è per l’appunto Bill Gates che, dopo l’Inghilterra, è il secondo contributor con circa 1.550 milioni di dollari. Apparentemente una società dedita al bene pubblico senza secondi fini. Questa la vulgata, ripresa in modo acritico e stupido dal mainstream dominante. Eppure, basterebbe fare un minimo di ricerca per scoprire come le maggiori riviste scientifiche hanno, da tempo, sviluppato un’articolata analisi critica che qui possiamo riassumere per sommi capi.
Gavi è stata, infatti, accusata di aver conferito ai donatori privati uno straordinario potere nel decidere (unilateralmente) gli obiettivi di salute globale, per aver dato priorità a nuovi vaccini costosi, investendo meno denaro e sforzi nell’espansione della copertura con quelli già disponibili e maggiormente economici, per aver danneggiato i sistemi sanitari locali, per aver speso troppo in sussidi a (poche) grandi aziende farmaceutiche senza richiedere in contropartita la riduzione dei prezzi dei vaccini, e per i suoi (palesi) conflitti di interesse per ospitare i produttori di vaccini nel consiglio di amministrazione.
Recentemente Gavi è, però, assurta agli onori delle cronache a seguito della sospensione dei finanziamenti Usa (terzo contributor). La decisione ha scatenato un coro di prefiche disperate che facendo ricorso all’ormai trito repertorio di insulti, hanno condannato la scelta di Trump, i pericoli per la sanità, e l’attacco alla scienza. Nulla di più ipocrita. Infatti, se i finanziamenti sono stati sospesi è proprio perché Gavi si è rifiutata di sottoporre all’amministrazione Usa la documentazione scientifica relativa ai vaccini ed altre iniziative sostenute nel corso degli ultimi cinque anni. Siamo tutti in attesa di capire quali straordinari risultati abbia conseguito il programma di Bill Gates ma, a quanto pare, dovremo attendere (a lungo).
Qualche dubbio sulla reale bontà di questi programmi è, per la verità, emerso da tempo. Un caso di scuola è quello del vaccino anti-pneumococcico. Le aziende Glaxosmithkline (Gsk) e Pfizer hanno ricevuto da Gavi finanziamenti sostanziosi, nonostante le due multinazionali avessero applicato importanti «ricarichi». Particolare: lo stesso farmaco veniva prodotto a un costo inferiore di circa il 40% da piccole aziende indiane. Il duopolio - realizzato nei fatti grazie all’endorsement di Gavi - ha imposto prezzi inavvicinabili per i Paesi a medio reddito. Oggi, Gsk e Pfizer vendono annualmente a Gavi 30 milioni di dosi di vaccino anti-pneumococcico al prezzo di 2 sterline (l’alternativa prodotta dal Serum institute of India costava 1,3 £), ricevendo contemporaneamente dalla stessa Gavi un sussidio di 137 milioni di sterline.
Un’anomalia che, nonostante le richieste di enti governativi e scientifici, Gavi si è sempre rifiutata di spiegare. Ha gioco facile la rivista Nature, nel denunciare che il Piano d’azione globale per i vaccini (Gvap) ideato da Gates, piuttosto che promuovere nuovi vaccini, avrebbe dovuto concentrarsi su strategie per distribuire i vaccini già esistenti e meno costosi. Inoltre, l’effettiva utilità del progetto era comunque compromessa dalla mancanza di infrastrutture critiche nei Paesi più poveri (trasporti, catena del freddo, assenza di personale infermieristico). Per questo Gavi ha cominciato ad interessarsi per intervenire sulla governance globale dei sistemi sanitari, finanziando l’Health systems strengthening program (Hss).
La classica foglia di fico, utile a mascherare il vero obiettivo costituito dal rafforzamento delle campagne di immunizzazione. In questo modo, il parametro di valutazione delle campagne sanitarie.
Facciamo un esempio: la mortalità per morbillo è in Europa di circa 1 caso ogni milione di malati. In Africa la percentuale sale a circa il 15% dei bambini colpiti. Dove sta la differenza, dato che il virus in oggetto è sempre lo stesso? Nel fatto che la malnutrizione endemica stravolge il decorso e la prognosi della malattia. Sradicare il morbillo non può né deve basarsi solo sull’incremento del tasso vaccinale, perché fintantoché non risolveremo le necessità veramente basilari dei bambini, questi continueranno a morire per una miriade di cause che sono soltanto secondarie rispetto al problema essenziale: nutrirli in modo adeguato.
La preponderanza dei finanziamenti per malattie specifiche tramite soluzioni uniche - il vaccino - avviene a scapito di altre modalità di finanziamento che hanno maggiore impatto nel promuovere piani sanitari nazionali coerenti con le esigenze specifiche del Paese. Il programma viene presentato come «soluzione tecnica», rivestendolo della giusta retorica condita con argomenti basati sulla economicità e il salvataggio di vite umane. Temi difficili da contestare, ma che mancano di reale sostanza, rimuovo la complessità delle situazioni specifiche ed evitano di cimentarsi con le malattie «non trasmissibili» (cancro, diabete, patologie cardiovascolari) che costituiscono la vera sfida delle società moderne.
Nei fatti, l’adozione della strategia Gates ha finito per legittimare quelle stesse pratiche: finanziamenti privati, iniziative basate tutte sulle vaccinazioni e focalizzazione limitata a pochi parametri di efficacia, ovvero azioni che hanno contribuito a decimare i sistemi sanitari dei paesi poveri. Come rilevato dalla prestigiosa rivista Bmj, Gavi ha sempre sostenuto soluzioni tecniche semplicistiche, basate sull’adozione di «proiettili magici» (i vaccini), illudendo che si potesse così risolvere le disuguaglianze sanitarie globali. È scandaloso che i politici siano all’oscuro di questa realtà, ed ancor più vergognoso che quei colleghi che ben la conoscono tacciano. Gavi è solo un (efficiente) promotore di poche grandi aziende farmaceutiche. A cui si affiancano quelle promotrici della Intelligenza Artificiale che, secondo Gates, dovrebbero dedicarsi alle nazioni povere «per migliorare il benessere delle comunità a livello globale». Il progetto, è sempre Bmj che parla, «è destinato a proseguire la tendenza egemonica della Fondazione Gates in materia di salute globale. Domanda finale: perché l’Italia dovrebbe finanziare questa roba qua? Speriamo che qualcuno risponda.





