2024-08-01
L’Iran non lo teme, Bibi non lo ascolta. Con Biden gli Usa non contano nulla
Grazie alle miopi politiche del leader dem, gli ayatollah hanno rialzato la testa e seminano caos in tutto il Medio Oriente. Anche gli appelli di Washington per un cessate il fuoco a Gaza sono restati lettera morta.L’uccisione di Ismail Haniyeh a Teheran certifica ulteriormente come Joe Biden abbia ormai perso influenza sullo scacchiere mediorientale. Durante un incontro a Washington la settimana scorsa, il presidente americano aveva effettuato significative pressioni, affinché Benjamin Netanyahu accettasse un accordo con Hamas per il cessate il fuoco e si astenesse quindi dal proseguire con la linea dura. Non è inoltre un mistero che la Casa Bianca sia da alcuni mesi preoccupata per un possibile coinvolgimento diretto dell’Iran nel conflitto. Ordinando il raid contro Haniyeh, Netanyahu ha invece ribadito la necessità israeliana di agire per ripristinare la deterrenza, in barba ai desiderata di Biden. «Non ho ceduto a quelle voci allora e non vi cedo neanche adesso», ha aggiunto ieri sera il premier israeliano, riferendosi alle pressioni internazionali (e quindi soprattutto americane) che lo esortano a concludere la guerra. Guarda caso, l’amministrazione Biden ha reagito freddamente all’uccisione del leader di Hamas. Il segretario di Stato americano, Tony Blinken, si è infatti affrettato ad affermare che Washington «non era a conoscenza né è stata coinvolta» nel raid, definendo inoltre «imperativo» un accordo per il cessate il fuoco.D’altronde, che i rapporti tra Biden e Netanyahu fossero tesi, non è un mistero. Innanzitutto, il premier israeliano non ha mai digerito la linea soft, tenuta dall’attuale Casa Bianca, nei confronti di Teheran: nel 2021, Biden tolse gli Huthi dalla lista delle organizzazioni terroristiche e avviò un processo negoziale per cercare di ripristinare il controverso accordo sul nucleare iraniano. Senza dimenticare che l’attuale amministrazione americana ha sbloccato vari asset, precedentemente congelati, del regime khomeinista. Non a caso, nel suo ultimo discorso al Congresso statunitense, Netanyahu ha criticato Teheran, assestando un’implicita stoccata all’inquilino della Casa Bianca. Senza poi trascurare che, al termine del suo viaggio negli Usa, il premier israeliano si è recato in Florida, per incontrare Donald Trump: un autentico schiaffo a Biden e a Kamala Harris ad appena tre mesi dalle presidenziali. Netanyahu punta infatti tutto su una vittoria del candidato repubblicano a novembre: se tornasse alla Casa Bianca, Trump rispolvererebbe la logica degli accordi di Abramo, ripristinando la politica della «massima pressione» sull’Iran. Infine, sulle recenti mosse del premier israeliano ha probabilmente influito anche un’ulteriore considerazione: il fatto, cioè, che Biden sia ormai un’anatra zoppa, essendosi ritirato dalla corsa elettorale per la riconferma. Un elemento, questo, che mina ulteriormente la credibilità internazionale dell’attuale amministrazione americana.Non a caso, la Turchia si sta facendo sempre più baldanzosa. Ieri, ha condannato quello che ha definito «il vergognoso assassinio» di Haniyeh, mentre poco prima aveva lasciato intendere di essere disposta a invadere il territorio israeliano. Il nodo non è di poco conto, anche perché parliamo di un Paese che è membro della Nato. Biden era entrato in carica promettendo una postura severa nei confronti di Ankara: una linea che ha poi abbandonato, scegliendo un approccio più morbido. Cina e Russia, dal canto loro, hanno condannato l’uccisione di Haniyeh con il chiaro intento di capitalizzare, in funzione antiamericana, l’irritazione espressa da Teheran e Doha per quanto accaduto. Insomma, il Medio Oriente è in subbuglio e Biden non riesce più a toccare palla. Non è in grado né di svolgere un ruolo di mediazione né di ripristinare la capacità di deterrenza da parte di Washington. Non a caso, il presidente americano non è mai riuscito a creare le condizioni concrete affinché Israele potesse sentirsi con le spalle abbastanza coperte, da accettare un accordo per il cessate il fuoco. Se Biden avesse ripristinato per tempo la «massima pressione» su Teheran, avrebbe indebolito indirettamente Hamas ed Hezbollah, che sono storicamente finanziate dagli ayatollah: una situazione che avrebbe convinto Netanyahu ad allentare la pressione militare su Gaza e sul confine con il Libano. Invece, l’appeasement del presidente americano (e il suo essersi trasformato in un’anatra zoppa) ha reso il network regionale iraniano più incline a osare.E attenzione: il dossier mediorientale si avvia ad avere delle profonde ripercussioni sulla campagna elettorale statunitense. La Cnn ha riferito che, secondo l’intelligence di Washington, «l’Iran sta utilizzando attività sotto copertura sui social media e operazioni di influenza correlate nel tentativo di indebolire la candidatura dell’ex presidente Trump». Si tratta di una rivelazione a cui non è difficile credere: come abbiamo visto, gli ayatollah hanno tutto l’interesse a evitare un ritorno al potere del candidato repubblicano. La Harris, di contro, è vicepresidente di un’amministrazione che, al di là delle condanne a parole delle violazioni dei diritti umani, nel concreto non è mai stata realmente severa verso Teheran. Non solo. Nel 2020, oltre a criticare Trump per l’uccisione del generale Qasem Soleimani, la diretta interessata disse di essere favorevole al ripristino dell’accordo sul nucleare iraniano e ottenne per questo anche gli elogi del Niac: potente gruppo di pressione a favore di quella controversa intesa. Non è del resto un mistero che sulla crisi mediorientale l’elettorato dem sia spaccato tra un’ala filoisraeliana e una filopalestinese. Per questa ragione, sul tema la Harris ha sempre adottato un approccio cerchiobottista. Martedì, ha detto che Israele ha il diritto di difendersi da Hezbollah, mentre la settimana scorsa aveva asserito di non voler tacere davanti alle sofferenze di Gaza, evitando inoltre di partecipare al discorso di Netanyahu al Congresso. Nel settembre 2021, infine, fece finta di niente, quando una studentessa accusò Israele, davanti a lei, di «genocidio etnico». Una posizione evasiva, quella della Harris, che, anziché mettere d’accordo le varie anime del Partito democratico, rischia in realtà di scontentarle tutte.
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