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2022-02-23
Parte la battaglia delle sanzioni contro Putin
Vladimin Putin (Ansa)
La crisi ucraina si sta complicando. Dopo aver riconosciuto l’altro ieri le due repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, Vladimir Putin ha ordinato l’invio di truppe russe nel Donbass, adducendo come giustificazione quella di «mantenere la pace». In questo quadro, il consiglio della Federazione russa ha ufficialmente concesso ieri al capo del Cremlino di utilizzare le forze armate fuori dal Paese. La Duma ha inoltre approvato i trattati di amicizia con le due repubbliche: un passaggio che, secondo la Tass, potrebbe preludere all’installazione di basi militari russe nell’area in mano ai separatisti. Tutto questo, mentre - stando a Reuters - si sarebbero registrate sei esplosioni nella città di Donetsk. Sempre ieri, il ministero della Difesa di Kiev ha reso noto che due soldati ucraini sono rimasti uccisi lunedì nel corso di bombardamenti effettuati dai separatisti. Una rottura dei rapporti diplomatici con Mosca non è stata tra l’altro esclusa dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky.
La reazione occidentale alla mossa di Putin è stata, come prevedibile, significativamente critica. Al di là di un profluvio di condanne, ieri sono state comminate sanzioni da Londra e Washington, mentre Berlino ha sospeso la certificazione del gasdotto Nord Stream 2. Bruxelles ha inoltre attivato un’unità di risposta informatica, per assistere il governo di Kiev in caso di attacco cibernetico. «Ogni indicazione è che la Russia sta continuando a pianificare un attacco su vasta scala dell’Ucraina», ha detto ieri il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. «La Nato», ha aggiunto, «è decisa e unita nella sua determinazione a proteggere e a difendere tutti gli alleati […] Abbiamo oltre 100 jet in allerta e ci sono più di 120 navi alleate in mare dall’Alto Nord al Mediterraneo». Il consigliere della Casa Bianca, Jonathan Finer, ha inoltre definito come «un’invasione» l’invio di truppe russe nel Donbass.
Il capo del Cremlino, dal canto suo, ha negato di voler ricostituire l’impero russo, dichiarando che Mosca ha riconosciuto gli Stati sorti dopo il collasso dell’Urss. Tuttavia ha anche precisato: «Intendiamo lavorare in questo modo con tutti i nostri vicini, ma con l’Ucraina la situazione è diversa». «Questo perché, purtroppo, il territorio di questo Paese viene utilizzato da Paesi terzi per creare minacce contro la stessa Federazione russa», ha specificato. Putin ha quindi chiesto ieri che Kiev rinunci alle sue ambizioni di aderire alla Nato, mentre la Bielorussia ha reso noto che acquisterà hardware militare dalla Russia.
Per il momento la diplomazia resta appesa a un filo. Mosca ha fatto sapere che in teoria dovrebbe ancora tenersi l’incontro di domani a Ginevra tra il segretario di Stato americano, Tony Blinken, e l’omologo russo, Sergej Lavrov. È invece saltato il meeting di venerdì tra lo stesso Lavrov e il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian.
È chiaro che, pur avendo molto da guadagnare, Putin rischia dei contraccolpi dalla sua mossa. Va rilevato infatti che la Cina ieri ha mantenuto una posizione piuttosto ambigua sulla sua scelta di riconoscere le repubbliche separatiste, mentre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha definito quel riconoscimento come «inaccettabile». Quella di Putin del resto è una scommessa. Il leader del Cremlino punta infatti non solo a indebolire il soft power americano in Ucraina, ma anche a picconare sempre di più le stesse relazioni transatlantiche, approfittando di un presidente americano -Joe Biden- irresoluto, confuso e alla guida di un’amministrazione divisa al suo stesso interno. Un Biden che, dopo aver visto fallire la sua pavida strategia di deterrenza, ha tenuto ieri un discorso in cui ha annunciato sanzioni finanziarie, accusando Mosca di aver avviato un’invasione e rendendo di voler inviare truppe nei Paesi baltici, pur dicendo che la diplomazia «è ancora disponibile».
Putin spera che, facendo leva sul gas e sull’onda lunga della crisi ucraina, la Russia possa progressivamente separare l’Europa occidentale dagli Usa: una parziale riedizione, questa, della strategia che fu messa in campo tra gli anni ’60 e ’70 da Leonid Breznev nei confronti della Francia di de Gaulle e della Germania Ovest di Brandt. È chiaro che un simile obiettivo è sotterraneamente appoggiato anche dalla Cina, mentre la debolezza di Biden - ragiona ancora Putin- potrebbe spingere Erdogan (ben noto per la sua spregiudicatezza) ad ammorbidire la sua posizione sul dossier ucraino. Va quindi da sé che il successo della linea adottata dal presidente russo dipende dalla reazione concreta degli Stati europei: terranno fede alla fermezza delle loro dichiarazioni oppure alla fine, spinti soprattutto dalla questione energetica, si mostreranno accondiscendenti verso Mosca? È su questo punto che si gioca il destino della scommessa putiniana.
Gioco sporco di Berlino sui gasdotti
Dopo il discorso di Vladimir Putin di lunedì c’è allarme per la sicurezza energetica europea. Ieri il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato che, in seguito all’ingresso di truppe russe nel Donbass, il governo tedesco ha sospeso per il momento il processo di approvazione del gasdotto Nord Stream 2. Il mercato del gas ha reagito con una decisa salita dei prezzi: il contratto per l’estate al Ttf ha superato gli 80 €/MWh, stesso prezzo dell’inverno 22-23, con un aumento del 13% circa rispetto al giorno prima. A oggi, l’Italia ha gli stoccaggi ancora pieni per il 40%, la Germania per il 31%. Grazie al clima mite sia l’Italia che il Nord Europa dovrebbero arrivare alla primavera senza problemi. Ma per il 2022 la situazione degli approvvigionamenti resta critica. Il problema è riempire di nuovo gli stoccaggi per il prossimo inverno: chi fornirà quel gas? E a quale prezzo?
La decisione unilaterale della Germania di sospendere l’approvazione del Nord Stream 2 è una mossa strategica rilevante, perché evita che la questione possa rientrare nel pacchetto di sanzioni che gli Usa intendono imporre alla Russia. Se è la Germania che sospende preventivamente l’avvio del gasdotto, può essere la stessa Germania che decide di riattivarlo, senza chiedere il permesso a nessuno. Sorvoliamo sul fatto che una questione riguardante la sicurezza energetica di tutta l’Europa sia gestita come una questione interna tedesca, a riprova del fatto che «Europa» non è altro che un termine vuoto che viene utilizzato alla bisogna, soprattutto come manganello. Un eventuale stop del gasdotto ucraino renderebbe drammatica la situazione degli approvvigionamenti per l’Europa, segnatamente per l’Italia (ancora una volta vaso di coccio tra vasi di ferro). Proprio l’avvio del Nord Stream 2 diventerebbe vitale e a un certo punto si renderà necessario. Proprio come vuole Berlino. Questo farebbe della Germania il Paese di maggior approdo del gas russo in Europa. Gli Usa però hanno sempre preferito l’Ucraina come Paese di transito verso l’Europa, ritenendola più facilmente controllabile.
Il nodo geopolitico profondo, sotteso alla situazione ucraina, è questo: lo scontro velato tra Berlino, che persegue il suo disegno egemonico di germanizzazione dell’Europa, e Washington, da sempre impegnata ad arginare la Russia. Gli Usa puntano a disarticolare l’intesa russo-tedesca sul gas facendo leva sull’Ucraina, proprio mentre la Russia avanza rivendicazioni su quei territori. Va detto che neppure nei momenti peggiori della guerra fredda l’allora Unione Sovietica ha mai interrotto i flussi di gas verso l’Europa: non sarebbe stato razionale dato che l’Occidente in cambio forniva valuta pregiata e tecnologia. Per l’Italia le opzioni non sono molte. Il raddoppio della produzione nazionale, come indicato nel recente decreto Energia (non ancora pubblicato) è utile ma non risolutivo, poiché copre meno del 5% dei consumi e richiede almeno un anno o due per dare frutti. Di più si potrebbe ottenere ampliando i contratti di import con l’Algeria, considerato che il gasdotto esistente è sottoutilizzato e potrebbe aggiungere almeno 10 miliardi di metri cubi all’anno. Un raddoppio del Tap non è all’ordine del giorno e richiederebbe anni. Si potrebbe importare di più dalla Libia, ma occorrerebbe la volontà di risolvere con decisione le questioni legate alla sicurezza sul campo.
Nel caso estremo di interruzione totale dei flussi di gas in arrivo dalla Russia, per l’Italia l’unica soluzione a portata di mano, anche se dolorosa, è un’azione di riduzione volontaria della domanda. In estate, riduzione o azzeramento dei consumi industriali non indispensabili per risparmiare gas da iniettare in stoccaggio in vista dell’inverno, con diminuzione della produzione elettrica a gas e conseguenti riduzioni mirate dei consumi elettrici. Durante l’inverno, in aggiunta, riduzione del riscaldamento per uffici e abitazioni. Nessuno si augura questo scenario, ma un governo attento dovrebbe considerare tutte le possibilità. Tanto più ora che dal mondo del possibile siamo passati a quello del probabile.
Partiti divisi e cancellerie attendiste. Le zavorre del Draghi mediatore
Se davvero fosse confermato, nei prossimi giorni, l’incontro (non ancora fissato ma neppure smentito) tra Vladimir Putin e Mario Draghi, il premier italiano ci arriverebbe con quella che una celebre canzone di Paolo Conte chiamava «una valigia di perplessità».
Da un lato, il desiderio di non perdere la faccia davanti agli alleati occidentali; dall’altro, la arcinota dipendenza energetica dell’Italia dalla fornitura di gas russo; dall’altro ancora, una maggioranza politica in cui convivono spinte non solo distinte ma addirittura contrapposte.
Di qui, l’imbarazzo di Palazzo Chigi, che nelle scorse settimane ha ricevuto dal Cremlino cenni contrastanti: un segno di attenzione (l’invito a mediare reso noto dallo stesso Draghi), ma pure un paio di gesti non proprio amichevoli. Il più recente è stato l’altro ieri: da Mosca sono arrivate telefonate a Berlino e a Parigi prima del colpo di mano di Putin, ma nessuno ha sentito l’esigenza di chiamare Roma. Il colpo più pesante, invece, era arrivato tra dicembre e gennaio, quando Mosca, apparentemente senza motivo, aveva pesantemente tagliato l’approvvigionamento di gas per l’Italia, costringendo Draghi a una telefonata per ripristinare la situazione precedente. Un chiaro segnale politico: Putin conosce bene la debolezza italiana e di tanto in tanto la rimarca.
Il guaio - per Draghi - è che questa stessa debolezza è ben nota anche dall’altra parte dell’Atlantico. Ieri ha destato impressione la durezza dell’editoriale del Wall Street Journal (con tanto di foto di Draghi, tanto per far capire chi fosse il destinatario dell’avviso), che, sotto l’eloquente titolo «Crepe nella risoluzione occidentale sulla Russia», ha dedicato a Draghi un passaggio molto severo e ruvido: «L’Italia sta già tentennando». Poi la citazione delle parole pronunciate da Draghi stesso venerdì scorso, con la richiesta di escludere dalle sanzioni l’energia e la durissima chiosa del Wsj: «Questo tipo di resa preventiva è esattamente il motivo per cui Putin immagina che il prezzo di un’invasione sarà inferiore». E ancora, per rendere il messaggio ancora più esplicito: «Il leader italiano non vuole che la sua legacy come primo ministro di unità nazionale sia appannata da una crisi energetica, ma avallare l’imperialismo russo sarebbe una macchia ancora più grande». Avete letto bene: «resa preventiva» e «macchia», due espressioni pesantissime verso Draghi.
Il quale, ieri mattina, presumibilmente dopo aver letto il Wsj, ha cercato di indurire i suoi toni, quasi per tentare di togliersi di dosso un velo di ambiguità: «Voglio esprimere la mia più ferma condanna per la decisione del governo russo di riconoscere i due territori separatisti del Donbass. Si tratta di una inaccettabile violazione della sovranità democratica e dell’integrità territoriale» dell’Ucraina. E ancora: «Sono in costante contatto con gli alleati per trovare una soluzione pacifica ed evitare una guerra nel cuore dell’Europa. La via del dialogo resta essenziale, ma stiamo già definendo nell’ambito dell’Ue misure e sanzioni nei confronti della Russia».
Ma la realtà è che l’eventuale mandato politico con cui Draghi volerebbe a Mosca è indecifrabile: il Pd esprime totale sostegno alla linea di Joe Biden; Forza Italia è invece assai timida, alla luce degli storici rapporti tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin; la stessa Lega appare prudente; mentre i grillini, al di là delle posizioni che Luigi Di Maio, sedendo alla Farnesina, non può non prendere, hanno nel proprio Dna connotati tutt’altro che atlantisti. A livello europeo, c’è più nettezza contro Putin: ieri il gruppo del Ppe ha spiegato che l’Ucraina «non può vincere una guerra solo con le sanzioni europee. L’intera gamma del sostegno militare Nato e dei partner Ue dovrebbe essere sul tavolo».
Ecco perché, tra spinte così contrastanti, la posizione di Draghi in questa crisi appare non ancora a fuoco e complessivamente fragile. Come La Verità ha già scritto in questi giorni, è stretto il sentiero attraverso cui tenere insieme le esigenze Nato, quelle Ue e quelle italiane. A Draghi il compito di tentare.
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Situazione sempre più calda sul fronte ucraino: il presidente americano prende le contromisure, ma lascia ancora aperto uno spiraglio: «Diplomazia è sempre possibile». Vladimir Putin: «Non voglio ricostruire l’impero».Gioco sporco di Berlino sui gasdotti. La decisione della Germania di sospendere il Nord Stream 2 serve per prendere in controtempo gli Usa. Da noi, invece, le strategie per far fronte alla crisi latitano. Partiti divisi e cancellerie attendiste. Le zavorre del Draghi mediatore. Il premier vorrebbe trattare con il Cremlino, ma per ora non ha un mandato chiaro.Lo speciale comprende tre articoli. La crisi ucraina si sta complicando. Dopo aver riconosciuto l’altro ieri le due repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, Vladimir Putin ha ordinato l’invio di truppe russe nel Donbass, adducendo come giustificazione quella di «mantenere la pace». In questo quadro, il consiglio della Federazione russa ha ufficialmente concesso ieri al capo del Cremlino di utilizzare le forze armate fuori dal Paese. La Duma ha inoltre approvato i trattati di amicizia con le due repubbliche: un passaggio che, secondo la Tass, potrebbe preludere all’installazione di basi militari russe nell’area in mano ai separatisti. Tutto questo, mentre - stando a Reuters - si sarebbero registrate sei esplosioni nella città di Donetsk. Sempre ieri, il ministero della Difesa di Kiev ha reso noto che due soldati ucraini sono rimasti uccisi lunedì nel corso di bombardamenti effettuati dai separatisti. Una rottura dei rapporti diplomatici con Mosca non è stata tra l’altro esclusa dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. La reazione occidentale alla mossa di Putin è stata, come prevedibile, significativamente critica. Al di là di un profluvio di condanne, ieri sono state comminate sanzioni da Londra e Washington, mentre Berlino ha sospeso la certificazione del gasdotto Nord Stream 2. Bruxelles ha inoltre attivato un’unità di risposta informatica, per assistere il governo di Kiev in caso di attacco cibernetico. «Ogni indicazione è che la Russia sta continuando a pianificare un attacco su vasta scala dell’Ucraina», ha detto ieri il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. «La Nato», ha aggiunto, «è decisa e unita nella sua determinazione a proteggere e a difendere tutti gli alleati […] Abbiamo oltre 100 jet in allerta e ci sono più di 120 navi alleate in mare dall’Alto Nord al Mediterraneo». Il consigliere della Casa Bianca, Jonathan Finer, ha inoltre definito come «un’invasione» l’invio di truppe russe nel Donbass. Il capo del Cremlino, dal canto suo, ha negato di voler ricostituire l’impero russo, dichiarando che Mosca ha riconosciuto gli Stati sorti dopo il collasso dell’Urss. Tuttavia ha anche precisato: «Intendiamo lavorare in questo modo con tutti i nostri vicini, ma con l’Ucraina la situazione è diversa». «Questo perché, purtroppo, il territorio di questo Paese viene utilizzato da Paesi terzi per creare minacce contro la stessa Federazione russa», ha specificato. Putin ha quindi chiesto ieri che Kiev rinunci alle sue ambizioni di aderire alla Nato, mentre la Bielorussia ha reso noto che acquisterà hardware militare dalla Russia. Per il momento la diplomazia resta appesa a un filo. Mosca ha fatto sapere che in teoria dovrebbe ancora tenersi l’incontro di domani a Ginevra tra il segretario di Stato americano, Tony Blinken, e l’omologo russo, Sergej Lavrov. È invece saltato il meeting di venerdì tra lo stesso Lavrov e il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian. È chiaro che, pur avendo molto da guadagnare, Putin rischia dei contraccolpi dalla sua mossa. Va rilevato infatti che la Cina ieri ha mantenuto una posizione piuttosto ambigua sulla sua scelta di riconoscere le repubbliche separatiste, mentre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha definito quel riconoscimento come «inaccettabile». Quella di Putin del resto è una scommessa. Il leader del Cremlino punta infatti non solo a indebolire il soft power americano in Ucraina, ma anche a picconare sempre di più le stesse relazioni transatlantiche, approfittando di un presidente americano -Joe Biden- irresoluto, confuso e alla guida di un’amministrazione divisa al suo stesso interno. Un Biden che, dopo aver visto fallire la sua pavida strategia di deterrenza, ha tenuto ieri un discorso in cui ha annunciato sanzioni finanziarie, accusando Mosca di aver avviato un’invasione e rendendo di voler inviare truppe nei Paesi baltici, pur dicendo che la diplomazia «è ancora disponibile». Putin spera che, facendo leva sul gas e sull’onda lunga della crisi ucraina, la Russia possa progressivamente separare l’Europa occidentale dagli Usa: una parziale riedizione, questa, della strategia che fu messa in campo tra gli anni ’60 e ’70 da Leonid Breznev nei confronti della Francia di de Gaulle e della Germania Ovest di Brandt. È chiaro che un simile obiettivo è sotterraneamente appoggiato anche dalla Cina, mentre la debolezza di Biden - ragiona ancora Putin- potrebbe spingere Erdogan (ben noto per la sua spregiudicatezza) ad ammorbidire la sua posizione sul dossier ucraino. Va quindi da sé che il successo della linea adottata dal presidente russo dipende dalla reazione concreta degli Stati europei: terranno fede alla fermezza delle loro dichiarazioni oppure alla fine, spinti soprattutto dalla questione energetica, si mostreranno accondiscendenti verso Mosca? È su questo punto che si gioca il destino della scommessa putiniana. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/biden-linvasione-di-kiev-e-iniziata-e-manda-truppe-nei-paesi-del-baltico-2656770639.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="gioco-sporco-di-berlino-sui-gasdotti" data-post-id="2656770639" data-published-at="1645561154" data-use-pagination="False"> Gioco sporco di Berlino sui gasdotti Dopo il discorso di Vladimir Putin di lunedì c’è allarme per la sicurezza energetica europea. Ieri il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato che, in seguito all’ingresso di truppe russe nel Donbass, il governo tedesco ha sospeso per il momento il processo di approvazione del gasdotto Nord Stream 2. 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Sorvoliamo sul fatto che una questione riguardante la sicurezza energetica di tutta l’Europa sia gestita come una questione interna tedesca, a riprova del fatto che «Europa» non è altro che un termine vuoto che viene utilizzato alla bisogna, soprattutto come manganello. Un eventuale stop del gasdotto ucraino renderebbe drammatica la situazione degli approvvigionamenti per l’Europa, segnatamente per l’Italia (ancora una volta vaso di coccio tra vasi di ferro). Proprio l’avvio del Nord Stream 2 diventerebbe vitale e a un certo punto si renderà necessario. Proprio come vuole Berlino. Questo farebbe della Germania il Paese di maggior approdo del gas russo in Europa. Gli Usa però hanno sempre preferito l’Ucraina come Paese di transito verso l’Europa, ritenendola più facilmente controllabile. Il nodo geopolitico profondo, sotteso alla situazione ucraina, è questo: lo scontro velato tra Berlino, che persegue il suo disegno egemonico di germanizzazione dell’Europa, e Washington, da sempre impegnata ad arginare la Russia. Gli Usa puntano a disarticolare l’intesa russo-tedesca sul gas facendo leva sull’Ucraina, proprio mentre la Russia avanza rivendicazioni su quei territori. Va detto che neppure nei momenti peggiori della guerra fredda l’allora Unione Sovietica ha mai interrotto i flussi di gas verso l’Europa: non sarebbe stato razionale dato che l’Occidente in cambio forniva valuta pregiata e tecnologia. Per l’Italia le opzioni non sono molte. Il raddoppio della produzione nazionale, come indicato nel recente decreto Energia (non ancora pubblicato) è utile ma non risolutivo, poiché copre meno del 5% dei consumi e richiede almeno un anno o due per dare frutti. Di più si potrebbe ottenere ampliando i contratti di import con l’Algeria, considerato che il gasdotto esistente è sottoutilizzato e potrebbe aggiungere almeno 10 miliardi di metri cubi all’anno. Un raddoppio del Tap non è all’ordine del giorno e richiederebbe anni. Si potrebbe importare di più dalla Libia, ma occorrerebbe la volontà di risolvere con decisione le questioni legate alla sicurezza sul campo. Nel caso estremo di interruzione totale dei flussi di gas in arrivo dalla Russia, per l’Italia l’unica soluzione a portata di mano, anche se dolorosa, è un’azione di riduzione volontaria della domanda. In estate, riduzione o azzeramento dei consumi industriali non indispensabili per risparmiare gas da iniettare in stoccaggio in vista dell’inverno, con diminuzione della produzione elettrica a gas e conseguenti riduzioni mirate dei consumi elettrici. Durante l’inverno, in aggiunta, riduzione del riscaldamento per uffici e abitazioni. 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Da un lato, il desiderio di non perdere la faccia davanti agli alleati occidentali; dall’altro, la arcinota dipendenza energetica dell’Italia dalla fornitura di gas russo; dall’altro ancora, una maggioranza politica in cui convivono spinte non solo distinte ma addirittura contrapposte. Di qui, l’imbarazzo di Palazzo Chigi, che nelle scorse settimane ha ricevuto dal Cremlino cenni contrastanti: un segno di attenzione (l’invito a mediare reso noto dallo stesso Draghi), ma pure un paio di gesti non proprio amichevoli. Il più recente è stato l’altro ieri: da Mosca sono arrivate telefonate a Berlino e a Parigi prima del colpo di mano di Putin, ma nessuno ha sentito l’esigenza di chiamare Roma. Il colpo più pesante, invece, era arrivato tra dicembre e gennaio, quando Mosca, apparentemente senza motivo, aveva pesantemente tagliato l’approvvigionamento di gas per l’Italia, costringendo Draghi a una telefonata per ripristinare la situazione precedente. Un chiaro segnale politico: Putin conosce bene la debolezza italiana e di tanto in tanto la rimarca. Il guaio - per Draghi - è che questa stessa debolezza è ben nota anche dall’altra parte dell’Atlantico. Ieri ha destato impressione la durezza dell’editoriale del Wall Street Journal (con tanto di foto di Draghi, tanto per far capire chi fosse il destinatario dell’avviso), che, sotto l’eloquente titolo «Crepe nella risoluzione occidentale sulla Russia», ha dedicato a Draghi un passaggio molto severo e ruvido: «L’Italia sta già tentennando». Poi la citazione delle parole pronunciate da Draghi stesso venerdì scorso, con la richiesta di escludere dalle sanzioni l’energia e la durissima chiosa del Wsj: «Questo tipo di resa preventiva è esattamente il motivo per cui Putin immagina che il prezzo di un’invasione sarà inferiore». E ancora, per rendere il messaggio ancora più esplicito: «Il leader italiano non vuole che la sua legacy come primo ministro di unità nazionale sia appannata da una crisi energetica, ma avallare l’imperialismo russo sarebbe una macchia ancora più grande». Avete letto bene: «resa preventiva» e «macchia», due espressioni pesantissime verso Draghi. Il quale, ieri mattina, presumibilmente dopo aver letto il Wsj, ha cercato di indurire i suoi toni, quasi per tentare di togliersi di dosso un velo di ambiguità: «Voglio esprimere la mia più ferma condanna per la decisione del governo russo di riconoscere i due territori separatisti del Donbass. Si tratta di una inaccettabile violazione della sovranità democratica e dell’integrità territoriale» dell’Ucraina. E ancora: «Sono in costante contatto con gli alleati per trovare una soluzione pacifica ed evitare una guerra nel cuore dell’Europa. La via del dialogo resta essenziale, ma stiamo già definendo nell’ambito dell’Ue misure e sanzioni nei confronti della Russia». Ma la realtà è che l’eventuale mandato politico con cui Draghi volerebbe a Mosca è indecifrabile: il Pd esprime totale sostegno alla linea di Joe Biden; Forza Italia è invece assai timida, alla luce degli storici rapporti tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin; la stessa Lega appare prudente; mentre i grillini, al di là delle posizioni che Luigi Di Maio, sedendo alla Farnesina, non può non prendere, hanno nel proprio Dna connotati tutt’altro che atlantisti. A livello europeo, c’è più nettezza contro Putin: ieri il gruppo del Ppe ha spiegato che l’Ucraina «non può vincere una guerra solo con le sanzioni europee. L’intera gamma del sostegno militare Nato e dei partner Ue dovrebbe essere sul tavolo». Ecco perché, tra spinte così contrastanti, la posizione di Draghi in questa crisi appare non ancora a fuoco e complessivamente fragile. Come La Verità ha già scritto in questi giorni, è stretto il sentiero attraverso cui tenere insieme le esigenze Nato, quelle Ue e quelle italiane. A Draghi il compito di tentare.
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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