2024-10-30
Persino Bezos lo dice: «La grande stampa non è più credibile»
L’editore del «Washington Post» va preso con le pinze. Ma fa centro quando spiega perché resta neutrale tra Kamala Harris e Donald Trump.Se persino un figuro come Jeff Bezos può dare lezioni di deontologia professionale ai giornalisti, significa che la categoria vive un momento decisamente triste. Il fondatore di Amazon, patrimonio da 205 miliardi di dollari e rotti, nel 2013 si è comprato per diletto il Washington Post, uno dei più noti quotidiani del mondo. E in vista delle elezioni americane si è imposto per evitare che il giornale si schierasse (l’endorsement sarebbe stato a favore di Kamala Harris). Un gesto che ha prodotto la sollevazione della stampa progressista di mezzo mondo, Italia compresa, e che gli ha immediatamente fatto guadagnare un bel po’ di accuse di fascismo. Per rispondere ai numerosi critici, Bezos ha deciso di firmare un editoriale sul suo (letteralmente) quotidiano, ed è riuscito nell’impresa di fornire argomentazioni solide. «Nei sondaggi pubblici annuali su fiducia e reputazione, giornalisti e media sono regolarmente caduti in fondo alla classifica, spesso appena sopra il Congresso», ha scritto. «Ma nel sondaggio Gallup di quest’anno siamo riusciti a scendere sotto il Congresso. La nostra professione è ora la meno affidabile di tutte. Qualcosa che stiamo facendo chiaramente non funziona. Vorrei fare un’analogia. Le macchine per il voto devono soddisfare due requisiti. Devono contare i voti in modo accurato e le persone devono credere che contino i voti in modo accurato. Il secondo requisito è distinto dal primo e altrettanto importante. Lo stesso vale per i giornali. Dobbiamo essere precisi e dobbiamo essere creduti tali. È una pillola amara da ingoiare, ma stiamo fallendo nel secondo requisito». Bezos, con serenità, disegna un quadro molto difficile da contestare. «La maggior parte delle persone crede che i media siano di parte», spiega. «Chiunque non se ne accorga sta prestando scarsa attenzione alla realtà e coloro che combattono la realtà perdono. La realtà è un campione imbattuto. Sarebbe facile incolpare gli altri per la nostra lunga e continua caduta di credibilità (e, quindi, per il declino dell’impatto), ma una mentalità da vittima non aiuterà. Lamentarsi non è una strategia. Dobbiamo impegnarci di più per controllare ciò che possiamo controllare per aumentare la nostra credibilità». Ecco allora il motivo della sua decisione di impedire una presa di posizione netta a favore di un candidato. «Gli endorsement presidenziali non fanno nulla per far pendere la bilancia di un’elezione. Nessun elettore indeciso in Pennsylvania dirà: “Scelgo l’endorsement del giornale A”. Nessuno. Ciò che gli endorsement presidenziali fanno in realtà è creare una percezione di parzialità. Una percezione di non indipendenza. Mettere fine a ciò è una decisione di principio, ed è quella giusta. Eugene Meyer, editore del Washington Post dal 1933 al 1946, la pensava allo stesso modo, e aveva ragione. Di per sé, rifiutare di sostenere i candidati presidenziali non è sufficiente a farci salire molto in alto nella scala della fiducia, ma è un passo significativo nella giusta direzione. Vorrei che avessimo fatto il cambiamento prima, in un momento più lontano dalle elezioni e dalle emozioni che le circondano. Quella è stata una pianificazione inadeguata, e non una strategia intenzionale».Bezos sostiene che a farlo decidere non sia stata una qualche forma di simpatia per Donald Trump. Ha ammesso di essere un uomo con una fitta rete di interessi che potrebbero entrare in contrasto con quelli del giornale, ma ha voluto ribadire di non aver mai obbligato il Post a fargli dei favori. La conclusione del suo articolo è una sorta di manifesto per il giornalismo del futuro. «La mancanza di credibilità non è un problema esclusivo del Post. I nostri giornali fratelli hanno lo stesso problema. Ed è un problema non solo per i media, ma anche per la nazione», dice il magnate. «Molte persone si stanno rivolgendo a podcast improvvisati, post sui social media inaccurati e altre fonti di notizie non verificate, che possono diffondere rapidamente disinformazione e approfondire le divisioni. Il Washington Post e il New York Times vincono premi, ma sempre più spesso parliamo solo a una certa élite. Sempre più spesso, parliamo da soli. (Non è sempre stato così: negli anni Novanta abbiamo raggiunto l’80% di penetrazione nelle famiglie nell’area metropolitana di Washington). [...] Ora più che mai il mondo ha bisogno di una voce credibile, affidabile e indipendente, e dove meglio della capitale del Paese più importante del mondo può avere origine questa voce? Per vincere questa lotta, dovremo esercitare nuovi muscoli. Alcuni cambiamenti saranno un ritorno al passato, altri saranno nuove invenzioni. La critica sarà parte integrante di qualsiasi cosa nuova, ovviamente. Questo è il modo in cui va il mondo. Niente di tutto ciò sarà facile, ma ne varrà la pena. Sono così grato di far parte di questa impresa. Molti dei migliori giornalisti che troverai ovunque lavorano al Washington Post e lavorano duramente ogni giorno per arrivare alla verità. Meritano di essere creduti». Ora, non c’è dubbio che delle parole di costui si possa - e forse si debba - dubitare. Dopotutto, stiamo parlando dell’uomo che «vuole mettere in vendita il mondo», come lo ha definito qualcuno. Bezos non è noto per farsi scrupoli, la sua impresa è una sorta di propulsore della distruzione soprattutto per la cosiddetta industria culturale, è il flagello delle case editrici e il cavaliere nero della deleteria rivoluzione digitale. Dunque è piuttosto umiliante essere costretti a dargli ragione. Purtroppo, però, tocca farlo. Così come tocca concordare con Elon Musk - un altro da prendere con diverse paia di pinze - quando denuncia la mancanza di libertà di espressione nei social e nei media in generale. Toccherebbe chiedersi come si sia arrivati a questo punto, e purtroppo il dibattito statunitense sviluppatosi attorno alla decisione di Bezos aiuta non poco a chiarirsi le idee. Piccolo esempio. Tra le firme che hanno lasciato il Post in polemica con il proprietario, accusandolo di voler favorire Trump, c’è un signore chiamato Robert Kagan. Illustre editorialista e politologo, da sempre sostiene che gli Usa dovrebbero guidare il mondo senza lesinare bombe. È sposato con Victoria Nuland, figura determinante nelle amministrazioni Obama e Biden, nota soprattutto per aver gestito la situazione ucraina e averci portato dove siamo ora (alla guerra). Con che coraggio un soggetto del genere blateri di fascismo e di mancanza di democrazia non è dato sapere. Si capisce molto bene, invece, che cosa Kagan desideri, e che cosa desiderino con lui tanti intellettuali liberal. Costoro vogliono non che i giornali non si schierino, ma che non si schierino con Trump e, più in generale, con i loro avversari politici. Ecco, questo è il grande dramma della stampa occidentale. Spesso asserviti agli interessi dei potentati economici e finanziari, negli ultimi anni giornali, tv e pubblicazioni online - anche «indipendenti» - hanno scelto di votarsi alla venerazione del pensiero prevalente. A parere dell’autore di questo pezzo, non è un male che i media si schierino da una parte o da un’altra. A patto però che lo facciano apertamente, e che nel complesso la pluralità sia garantita. Ebbene, da molto tempo tale pluralità non esiste più. I media apparentemente imparziali sono in realtà i principali catalizzatori di una visione unica, opprimente e intollerante. In Italia, per dire, l’informazione mainstream ha teorizzato e praticato la soppressione sistematica del dubbio e del dissenso. E i risultati li abbiamo sotto gli occhi. Bezos non ci piace nemmeno un po’. Ma ha mostrato più senno e apertura mentale di molti soloni dell’informazione nostrana. Il che, drammaticamente, dice tutto.
Ansa
A San Siro gli azzurri chiudono in vantaggio i primi 45 minuti con Pio Esposito, ma crollano nella ripresa sotto i colpi di Haaland (doppietta), Nusa e Strand Larsen. Finisce 1-4: il peggior - e più preoccupante - biglietto da visita in vista dei playoff di marzo. Gattuso: «Chiedo scusa ai tifosi». Giovedì il sorteggio a Zurigo.
Giuseppe Caschetto (Ansa)