2018-06-05
Lega e M5s litigano sulle deleghe alle telecomunicazioni
Aperta la caccia ai grand commis. La «casella» spetterebbe al Carroccio, ma i grillini vogliono controllare un settore che Silvio Berlusconi osserva da vicino.La caccia ai grand commis seri e competenti, maltrattati dal Pd renziano proprio nelle ultime settimane di governo, è appena cominciata. E nelle prossime ore produrrà nuovi «fedelissimi» di Luigi Di Maio e Matteo Salvini nelle caselle chiave di Palazzo Chigi, del Mef e della Ragioneria generale dello Stato. Ma intanto la battaglia più dura va in scena sulla delega alle telecomunicazioni, con i 5 stelle impegnati a tenere tutto ciò che può decidere la vita e la morte di Mediaset nelle mani del proprio leader, nella convinzione che un sottosegretario leghista sarebbe facilmente permeabile agli interessi di Silvio Berlusconi e famiglia. Lo snodo di tutto, come sempre, è Palazzo Chigi, dove anche Berlusconi e Romano Prodi si sono sempre affidati a mandarini di scuola democristiana. Con un sottosegretario «barbaro» come Giancarlo Giorgetti, che sa di bilancio pubblico ma appare digiuno di macchina di governo, sarà più importante che mai avere un segretario generale magari anche milanese per cultura e metodo di lavoro, ma comunque romano per conoscenza degli oltre 4.000 dipendenti e delle trappole procedurali che possono addirittura portare a rendere invalida o inutile una riunione del Consiglio dei ministri. Maria Elena Boschi, che pure aveva imparato il mestiere da ministro guardando lavorare l'amico Matteo Renzi, Graziano Delrio e Claudio De Vincenti, aveva puntato su Paolo Aquilanti come segretario generale e su Roberto Cerreto come capo del Dagl, l'ufficio legislativo, al quale punta oggi anche Carlo Deodato. Il primo è convinto di sfuggire allo spoils system perché il probabile nuovo capo della comunicazione del governo, Rocco Casalino, sarebbe un suo estimatore. Ma è molto poco amato da funzionari e dirigenti di Palazzo Chigi per via del rapporto viscerale con la Boschi, che ha gestito il personale come fosse una municipalizzata di Laterina. Cerreto invece è stato più apprezzato ed è più giovane (è del 1976) e, insomma, potrebbe restare. Anche Francesca Gagliarducci, che oggi amministra il personale, ha qualche chance di conferma. Innanzitutto ha detto qualche «no», specie dopo il 4 marzo, sulle promozioni più scandalose, e poi sa come muoversi in una selva di sindacati, comandati di ogni amministrazione, raccomandati di ere geologiche e, non ultimo, un corposo plotone di uomini e donne che vengono dai servizi segreti. Fondamentale è anche la casella del Ragioniere generale dello Stato: se non ottiene il suo «bollino» di fattibilità finanziaria, il governo non può presentare neppure un disegno di legge e poi, quando il provvedimento arriva al Quirinale da Sergio Mattarella, il governo della flat tax e del reddito di cittadinanza non può rischiare di schiantarsi. Ebbene, a metà maggio, su proposta del ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan, Daniele Franco è stato prorogato di un anno (era Ragioniere dal 20 maggio 2013). Salvini non l'ha presa bene e l'ala grillina più dura con banche e Tesoro neanche. «Troveremo il modo di sostituire Franco, uomo di Bankitalia», dice una fonte del Movimento. Il nome ancora non ce l'hanno, però. Con la stessa infornata di proroghe è stato confermato anche il direttore generale del Mef, Vincenzo La Via. Anche lui gode di unanime antipatia nel governo gialloblù, con Giorgetti e il collega Giovanni Tria che stanno cercando un personaggio in grado di rispondere al telefono in un inglese accettabile quando chiamano le grandi banche straniere che maneggiano i nostri titoli del debito pubblico. Al momento filtra solo che sarà un esterno e tutto fa pensare che si sceglierà un giovane accademico come era, all'epoca, Francesco Giavazzi (dg dal 1992 al 1994). Sono quindi in calo le azioni di Giuseppe Fortunato, anche lui un ex dg ai tempi di Giulio Tremonti, al quale i 5 stelle riconoscono solo il merito di aver combattuto una guerra di potere all'ultimo sangue con l'ex onorevole Marco Milanese. Durissima la sfida sulle deleghe delle telecomunicazioni, anticipo di una guerra di potere finanziario più ampio che toccherà presto anche l'Antitrust e l'Agenzia delle comunicazioni. Ci sono in ballo il futuro di Internet, della telefonia mobile e della televisione, in una fase in cui al governo è arrivata una forza come i 5 stelle, che da sempre sogna di abolire la legge Gasparri e la legge Frattini sul conflitto d'interessi. Berlusconi ha sul tavolo alcune partite vitali, come la conferma che la Rai non gli faccia una vera concorrenza e confermi la politica dei tagli, lo scontro con i francesi di Vivendi (hanno il 24% di Mediaset e non hanno onorato il contratto di acquisto di Mediaset premium, provando a scalare la casa madre) e la convergenza sui contenuti con Tim, dove anche qui c'è di mezzo Vivendi (29%). Con Carlo Calenda è andata come meglio non si poteva, per il Cavaliere, ma ora? La casella giusta è al Mise e spetterebbe alla Lega, ma Di Maio non vuole dare la delega per paura che Salvini si faccia infinocchiare dall'(ex?) alleato di Arcore. Solo che c'è un problema oggettivo: se la Lega s'impunta non le si può dire no e poi Di Maio ha già quattro deleghe del Mise e due del Lavoro e che fa, Giggino controlla sette deleghe? Intanto, per iniziare a capirci qualcosa, ha «dovuto» prendersi come capo di gabinetto il renziano Vito Cozzoli, ex collaboratore di Federica Guidi, sponsorizzato caldamente da Salvatore Barca (ex braccio destro di Di Maio a Montecitorio) e fatto fuori da Calenda. Dovendo nominare 400 persone, tra sottosegretari e alti dirigenti, anche lo slalom tra i riciclati diventa un'impresa.