
Deutsche Bank sta valutando di acquistare la quota che il governo tedesco ha in Commerzbank per impedire la scalata da parte dell’istituto italiano. Anche i sindacati e l’esecutivo mettono paletti. Mentre la Bce spinge per il processo di aggregazione Ue.Muovere il primo passo, ovvero comprare il 9% di Commerzbank, è stato facile. Il difficile per Unicredit arriva adesso. In un’intervista all’Handelsblatt, l’ad Andrea Orcel ha detto che una fusione tra la banca italiana e quella tedesca creerà valore per tutti gli stakeholder, che sarebbe un’operazione positiva sia per la Germania sia per l’Europa che hanno bisogno di grandi più grandi e più forti». L’obiettivo di Orcel sarebbe quello di creare un grande polo del credito in Germania, dove è già presente con Hvb, sfruttando anche le sinergie a Est con la Polonia che è un mercato che Unicredit conosce bene. Nel frattempo, il gruppo di Piazza Gae Aulenti ha avviato l’anticipo del buyback 2024 (il riacquisto di azioni proprie) fino a 1,7 miliardi. Ma per l’ad di Unicredit andare alla conquista del «Montepaschi tedesco» non sarà una scampagnata: i primi ad alzare barricate sono stati i rappresentanti dei lavoratori: «Non abbiamo bisogno di un altro disastro come quello che abbiamo visto a Hvb, non abbiamo bisogno che gli italiani vengano e facciano saltare le banche tedesche tradizionali», aveva subito tuonato Stefan Wittmann, sindacalista che siede nel cda di Commerz. Ieri è intervenuto anche l’amministratore delegato dell’istituto tedesco esprimendo forti riserve su eventuali nozze con Unicredit e auspicando che la banca possa rimanere indipendente. Infine, a mugugnare è anche il governo di Berlino i cui funzionari non sono stati informati in anticipo dell’invito rivolto a Unicredit a fare un’offerta per una partecipazione del governo tedesco in Commerzbank. Secondo quanto riporta il Financial Times, Jp Morgan (ha assistito il governo tedesco nella vendita della quota del 4,5% di Commerzbank) avrebbe invitato la banca milanese a partecipare, dando l’impressione che Berlino accogliesse con favore il suo interesse. L’improvvisa mossa di Unicredit ha invece colto di sorpresa l’establishment tedesco, alimentato l’opposizione pubblica alla vendita di un asset strategico, e ha messo Berlino in una posizione scomoda prima delle elezioni federali dell’anno prossimo. Unicredit, secondo fonti consultate dal Ft, avrebbe comunque manifestato il suo interesse all’acquisto di azioni ad alcuni rappresentanti del governo tedesco prima della vendita. «Nel momento in cui è stata avviata la raccolta di domanda dei titoli, il ministero delle finanze non sapeva che Unicredit possedesse azioni aggiuntive in Commerzbank», (raccolte sul mercato), ha precisato il ministero al Financial Times. Berlino ha avviato una revisione dei fatti e di chi era responsabile delle decisioni che hanno portato alla vendita, hanno rivelato al Ft alcune fonti.Ma non sono solo governo, sindacati e management di Commerzbank a mettersi sulla strada di Orcel. La concorrente Deutsche Bank sta infatti esplorando modi per rendere più difficile l’acquisto di Commerz da parte di Unicredit mentre sta valutando come - o se - reagire a un potenziale accordo che creerebbe un enorme concorrente nel suo mercato nazionale. Lo riporta l’agenzia Bloomberg aggiungendo che l’ad Christian Sewing e i suoi luogotenenti hanno analizzato la situazione negli ultimi giorni. Tra le opzioni al vaglio ci sarebbe anche l’acquisto di una parte o di tutta la partecipazione del governo tedesco nella Commerzbank, che rimane del 12%. Ma Deutsche Bank potrebbe anche decidere di non fare nulla. Di certo, un eventuale matrimonio tra Unicredit e Commerzbank creerebbe un gigante bancario europeo che si posizionerebbe davanti a Deutsche Bank in termini di fatturato tedesco e di attività totali.Al momento, ad applaudire Orcel c’è però la Bce da anni ormai invoca un consolidamento del sistema bancario europeo. Lo ha ribadito il vicepresidente della banca centrale, Luis de Guindos durante una conferenza a Madrid. «Vediamo cosa succederà. Siamo sempre stati a favore delle fusioni transfrontaliere. Ogni volta che se ne verifica una, emergono tipicamente preoccupazioni nazionali. Qualsiasi accordo sarà valutato in base ai suoi specifici meriti».
Agostino Ghiglia e Sigfrido Ranucci (Imagoeconomica)
Il premier risponde a Schlein e Conte che chiedono l’azzeramento dell’Autorità per la privacy dopo le ingerenze in un servizio di «Report»: «Membri eletti durante il governo giallorosso». Donzelli: «Favorevoli a sciogliere i collegi nominati dalla sinistra».
Il no della Rai alla richiesta del Garante della privacy di fermare il servizio di Report sull’istruttoria portata avanti dall’Autorità nei confronti di Meta, relativa agli smart glass, nel quale la trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci punta il dito su un incontro, risalente a ottobre 2024, tra il componente del collegio del Garante Agostino Ghiglia e il responsabile istituzionale di Meta in Italia prima della decisione del Garante su una multa da 44 milioni di euro, ha scatenato una tempesta politica con le opposizioni che chiedono l’azzeramento dell’intero collegio.
Il sindaco di Milano Giuseppe Sala (Imagoeconomica)
La direttiva Ue consente di sforare 18 volte i limiti: le misure di Sala non servono.
Quarantaquattro giorni di aria tossica dall’inizio dell’anno. È il nuovo bilancio dell’emergenza smog nel capoluogo lombardo: un numero che mostra come la città sia quasi arrivata, già a novembre, ai livelli di tutto il 2024, quando i giorni di superamento del limite di legge per le polveri sottili erano stati 68 in totale. Se il trend dovesse proseguire, Milano chiuderebbe l’anno con un bilancio peggiore rispetto al precedente. La media delle concentrazioni di Pm10 - le particelle più pericolose per la salute - è passata da 29 a 30 microgrammi per metro cubo d’aria, confermando un’inversione di tendenza dopo anni di lento calo.
Bill Gates (Ansa)
Solo pochi fanatici si ostinano a sostenere le strategie che ci hanno impoverito senza risultati sull’ambiente. Però le politiche green restano. E gli 838 milioni versati dall’Italia nel 2023 sono diventati 3,5 miliardi nel 2024.
A segnare il cambiamento di rotta, qualche giorno fa, è stato Bill Gates, niente meno. In vista della Cop30, il grande meeting internazionale sul clima, ha presentato un memorandum che suggerisce - se non un ridimensionamento di tutto il discorso green - almeno un cambio di strategia. «Il cambiamento climatico è un problema serio, ma non segnerà la fine della civiltà», ha detto Gates. «L’innovazione scientifica lo arginerà, ed è giunto il momento di una svolta strategica nella lotta globale al cambiamento climatico: dal limitare l’aumento delle temperature alla lotta alla povertà e alla prevenzione delle malattie». L’uscita ha prodotto una serie di reazioni irritate soprattutto fra i sostenitori dell’Apocalisse verde, però ha anche in qualche modo liberato tutti coloro che mal sopportavano i fanatismi sul riscaldamento globale ma non avevano il fegato di ammetterlo. Uscito allo scoperto Gates, ora tutti possono finalmente ammettere che il modo in cui si è discusso e soprattutto si è agito riguardo alla «crisi climatica» è sbagliato e dannoso.
Elly Schlein (Ansa)
Avete presente Massimo D’Alema quando confessò di voler vedere Silvio Berlusconi chiedere l’elemosina in via del Corso? Non era solo desiderare che fosse ridotto sul lastrico un avversario politico, ma c’era anche l’avversione nei confronti di chi aveva fatto i soldi.
Beh, in un trentennio sono cambia ti i protagonisti, ma la sinistra non è cambiata e continua a odiare la ricchezza che non sia la propria. Così adesso, sepolto il Cavaliere, se la prende con il ceto medio, i nuovi ricchi, a cui sogna di togliere gli sgravi decisi dal governo Meloni. Da anni si parla dell’appiattimento reddituale di quella che un tempo era la classe intermedia, ma è bastato che l’esecutivo parlasse di concedere aiuti a chi guadagna 50.000 euro lordi l’anno perché dal Pd alla Cgil alzassero le barricate. E dire che poche settimane fa la pubblicazione di un’analisi delle denunce dei redditi aveva portato a conclusioni a dir poco sor prendenti. Dei 42,6 milioni di dichiaranti, 31 milioni si fanno carico del 23,13 dell’Irpef, mentre gli altri 11,6 milioni pagano il resto, ovvero il 76,87 per cento.
In sintesi, il 43 per cento degli italiani non paga l’imposta, mentre chi guadagna più di 60.000 euro lordi l’anno paga per due. Di fronte a questi numeri qualsiasi persona di buon senso capirebbe che è necessario alleggerire la pressione fiscale sul ceto medio, evitando di tartassarlo. Qualsiasi, ma non i vertici della sinistra. Pd, Avs e Cgil dunque si agitano compatti contro gli sgravi previsti dal la finanziaria, sostenendo che il taglio dell’Irpef è un regalo ai più ricchi. Premesso che per i redditi alti, cioè quello 0,2 per cento che in Italia dichiara più di 200.000 euro lordi l’anno, non ci sarà alcun vantaggio, gli altri, quelli che non sono in bolletta e guadagnano più di 2.000 euro netti al mese, pare davvero difficile considerarli ricchi. Certo, non so no ridotti alla canna del gas, ma nelle città (e quasi sempre le persone con maggiori entrate vivono nei capoluoghi) si fa fatica ad arrivare a fine mese con uno stipendio che per metà e forse più se ne va per l’affitto. Negli ultimi anni le finanziarie del governo Meloni hanno favorito le fasce di reddito basse e medie. Ora è la volta di chi guadagna un po’di più, ma non molto di più, e che ha visto in questi anni il proprio potere d’acquisto eroso dall’inflazione. Ma a sinistra non se la prendono solo con i redditi oltre i 50.000 euro. Vogliono anche colpire il patrimonio e così rispolverano una tassa che punisca le grandi ricchezze e le proprietà immobiliari. Premesso che le due cose non vanno di pari passo: si può anche possedere un appartamento del valore di un paio di milioni ma, avendolo ereditato dai geni tori, non avere i soldi per ristrutturarlo e dunque nemmeno per pagare ogni anno una tassa.
Dunque, possedere un alloggio in centro, dove si vive, non sempre è indice di patrimonio da ricchi. E poi chi ha una seconda casa paga già u n’imposta sul valore immobiliare detenuto ed è l’I mu, che nel 2024 ha consentito allo Stato di incassare l’astronomica cifra di 17 miliardi di euro, il livello più alto raggiunto negli ultimi cinque anni. Milionari e miliardari, quelli veri e non immaginati dai compagni, certo non hanno il problema di pagare una tassa sui palazzi che possiedono, ma non hanno neppure alcuna difficoltà a ingaggiare i migliori fiscali sti per sottrarsi alle pretese del fisco e, nel caso in cui neppure i professionisti sia no in grado di metterli al riparo dall’Agenzia delle entrate, possono sempre traslocare, spostando i propri soldi altrove. Come è noto, la finanza non ha confini e l’apertura dei mercati consente di portare le proprie attività dove è più conveniente. Quando proprio il Pd, all’e poca guidato da Matteo Renzi, decise di introdurre una flat tax per i Paperoni stranieri, migliaia di nababbi presero la residenza da noi. E se domani l’imposta venisse abolita probabilmente andrebbero altrove, seguiti quasi certamente dai ricconi italiani. Del resto, la Svizzera è vicina e, come insegna Carlo De Benedetti, è sempre pronta ad accogliere chi emigra con le tasche piene di soldi. Inoltre uno studio ha recentemente documentato che l’introduzione negli Usa di una patrimoniale per ogni dollaro incassato farebbe calare il Pil di 1 euro e 20 centesimi, con una perdita secca del 20 per cento. Risultato, la nuova lotta di classe di Elly Schlein e compagni rischia di colpire solo il ceto medio, cancellando gli sgravi fiscali e inasprendo le imposte patrimoniali. Quando Mario Monti, con al fianco la professoressa dalla lacrima facile, fece i compiti a casa per conto di Sarkozy e Merkel , l’Italia entrò in de pressione, ma oggi una patrimoniale potrebbe essere il colpo di grazia.
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