2021-05-08
Benvenuti al «toghe rotte show». Ceffoni tra i campioni della legalità
Da Mani pulite siamo ormai arrivati a Toghe rotte. Ci sono voluti trent'anni e tanti orrori giudiziari, ma i problemi irrisolti di quella stagione, con lo strapotere dei pm e il mini potere della magistratura giudicante, ma soprattutto lo stato di subalternità della difesa, ora sono sotto gli occhi di tutti e, nonostante al Quirinale ci sia chi volge lo sguardo altrove, il re è nudo. Per anni abbiamo convissuto con un tabù intoccabile, quello dell'indipendenza della magistratura, che troppo spesso si è tradotto nell'insindacabilità della magistratura. E all'ombra di questo tabù si sono sviluppate formidabili carriere, oltre che miti infallibili. Come non ricordare ascesa e declino di Antonio Di Pietro, l'eroe di Tangentopoli e dei due tonfi, prima come magistrato e poi come politico. Come dimenticare Antonio Ingroia, il pm della trattativa Stato-mafia, che lasciata la toga prima è stato cacciato da un aereo in evidenti condizioni di alterazione e poi è stato condannato per peculato. Infine, come ignorare la parabola di Piercavillo Davigo, l'uomo che si riprometteva di rivoltare l'Italia come un calzino, secondo il quale non esistono politici innocenti, ma soltanto politici che l'hanno fatta franca. Eh, sì, dal tintinnio di manette (copyright Oscar Luigi Scalfaro, il quale tuttavia all'abuso dello scampanellio degli schiavettoni si dimostrò - forse per pavidità o forse per convenienza - totalmente sordo) siamo passati ai ceffoni tra manettari. Uno spettacolo, quello andato in onda l'altra sera su La 7, con Davigo a giustificare una violazione del segreto istruttorio e con un suo compagno di corrente, già magistrato antimafia e poi compagno di banco al Csm, Sebastiano Ardita, a smentirlo. «Non si potevano seguire le vie formali», ha spiegato l'ex dottor Sottile del pool ormai pensionato e privo del potere di arrestare o condannare. Dunque, era giusto ricevere un fascicolo uscito abusivamente da una procura. L'avesse fatto un giornalista, fosse stato cioè uno di noi a ricevere un verbale segretato, come minimo sarebbe stato indagato per violazione del segreto istruttorio, come massimo sarebbe stato iscritto nel registro con l'accusa di ricettazione. Ma ad aver ricevuto le rivelazioni di un presunto pentito, o forse di un presunto calunniatore, su una loggia segreta denominata Ungheria, è stato un magistrato in servizio al Csm che non aveva alcun titolo per riceverlo. E allora Piercavillo è pronto ad autoassolversi, anzi: quasi a elogiarsi. Peccato che un collega, un suo pari grado al Csm oltre che compagno di corrente, abbia chiamato in diretta la trasmissione Piazza pulita e abbia definito le parole di Davigo «di una gravità inaudita» pronto se necessario a sostenere un confronto in diretta con l'ex pm di Mani pulite. Ardita, che nelle carte ricevute da Davigo è citato come appartenente all'associazione segreta, ce l'ha con il torbido giro di veleni alimentato dalla fuga di notizie e non ci sta a sentire che le vie formali, cioè quelle previste dalla legge, non si potevano seguire.A rincarare la dose ci ha poi pensato Alfredo Robledo, un ex pm, anch'egli di rito ambrosiano, che nel passato, a causa di un'inchiesta a suo dire insabbiata sull'attuale sindaco di Milano, si scontrò con il suo capo Edmondo Bruti Liberati, e alla fine pagò con un trasferimento a Torino, sede da cui a un certo punto mandò a quel paese la Giustizia, appendendo la toga a un chiodo. Robledo ha coniato per Davigo il soprannome di «Pieranguillo», riconoscendogli evidentemente un'abilità nello sfuggire alle contestazioni. Ma l'ex pm uscito dai ranghi della magistratura, se l'è presa anche con Luca Palamara, definendo l'ormai rimosso leader dell'Anm un «palamaravirus che ha infettato la magistratura». E già che c'è, Robledo non risparmia neppure la Procura di Milano, spiegando che di fronte alle rivelazioni su una loggia segreta di cui fanno parte magistrati, politici e alti funzionari dello Stato, non c'era un modo per aggirare «le vie formali», come dice Davigo, ma vi erano solo due possibilità: o indagare per scoprire quanto ci fosse di vero nelle rivelazioni o, nel caso le si ritenessero false, indagare per calunnia il presunto pentito. E però la stagione delle Toghe rotte non si ferma qui: dalla pensione si è fatto vivo per tramite del Corriere della Sera anche Edmondo Bruti Liberati, quello che secondo Robledo aveva tenuto troppo a lungo nel cassetto un'inchiesta su Beppe Sala. L'ex procuratore capo difende Francesco Greco, ossia colui che lo ha sostituito ai vertici della procura, ma mena fendenti sulla testa di Davigo, dicendo che lui dei verbali segretati, fatti uscire senza il rispetto delle vie formali, non li avrebbe mai accettati. Per carità di patria, e per evitare al lettore un guazzabuglio di dichiarazioni e balbettii tra le quali quelle del vicepresidente del Csm David Ermini, rinunciamo a citare altri interventi, anche perché crediamo bastino questi a far comprendere in quali lotte intestine, ma anche in quali odii personali, si stia avviluppando la magistratura. Il caso Amara, dal nome del teste tenuto in vita artificialmente (in senso giuridico) per poterlo usare in alcuni processi, ha dato la stura a risentimenti e intrighi. Da Scalfaro in poi, per arrivare fino a Mattarella, nessun capo dello Stato (che da Costituzione è anche presidente del Csm) ha mai voluto affrontare il tema della giustizia. Ma arrivati a questo punto, se non un Parlamento, almeno un governo che non voglia assistere passivamente alla battaglia a colpi di dossier e di abusi, ha il dovere di intervenire. Insomma, Cartabia, se ci sei, se esisti, batti un colpo. O gli ispettori vengono mandati solo se si indaga sulle Ong e i traffici con i migranti?