
I pm romani hanno acquisito documenti nella sede di Autostrade. L’inchiesta si concentra su mancate opere e manutenzioni a fronte di costanti aumenti di pedaggi. Che in gran parte sarebbero finiti in tasca alla famiglia.La storia del crollo del ponte Morandi di Genova ha un nuovo fondamentale capitolo. Lo stanno scrivendo i pm di Roma, da mesi alla ricerca di quelle che gli avvocati dei famigliari delle 43 vittime ritengono essere le «cause remote» della tragedia. Ovvero la sete di guadagni della famiglia Benetton. Una politica del profitto esasperato che avrebbe portato i manager di Autostrade per l’Italia a risparmiare sulle manutenzioni.L’inchiesta della Procura di Roma sui profitti legati alla gestione di Aspi (controllata sino al 2022 dalla schiatta di Conegliano veneto attraverso la società Atlantia) svelata dalla Verità a settembre, è entrata nel vivo e sono stati iscritti i primi nomi sul registro degli indagati. L’attenzione dei media è concentrata sul processo genovese che va alla ricerca delle responsabilità di manager e tecnici sulla mancata manutenzione, ma forse il filone giudiziario romano potrebbe davvero rendere giustizia a chi è morto senza colpe. Infatti potrebbe rivelare dove siano finiti i denari destinati a numerose opere mai realizzate. Come quella Gronda di Ponente che avrebbe potuto alleggerire il traffico cittadino genovese consentendo di chiudere il ponte Morandi per realizzare le necessarie opere di ristrutturazione. Ma le nuove arterie sono rimaste solo sulla carta e gli aumenti dei pedaggi sono andati a rimpolpare i già strabordanti forzieri dei Benetton. Per questo l’anno scorso gli inquirenti hanno aperto il fascicolo 27174 ipotizzando i reati di truffa aggravata ai danni dello Stato e di peculato, ovvero di sperpero di denaro pubblico. La Procura di Roma e la Guardia di finanza ha messo sotto la lente di ingrandimento vent’anni di incassi miliardari. Per questo le Fiamme gialle hanno acquisito un’imponente quantità di materiale negli uffici romani di Autostrade per l’Italia (sino al 2022 controllata dai Benetton attraverso la holding Atlantia), di Anas e del ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili (Mims, già Mit).Materiale che gli specialisti del gruppo Tutela spesa pubblica sezione anticorruzione della Gdf stanno analizzando da gennaio con l’obiettivo di completare il lavoro entro fine anno. Al centro delle investigazioni c’è la cosiddetta quarta convenzione aggiuntiva Anas-Autostrade del 23 dicembre 2002, assorbita in una legge del 2004. Ebbene quella norma prevedeva un sostanzioso ritocco dei pedaggi che andavano ad aggiungersi alla tariffa forfettaria a chilometro introdotta nella prima convenzione del 1997, voluta dal primo governo Prodi e propedeutica alla privatizzazione della rete autostradale.Quella riconosciuta nel 2004 era una seconda quota di pedaggio che, ufficialmente, avrebbe dovuto finanziare nuove infrastrutture: nove svincoli, la terza corsia del Grande raccordo anulare, la quarta della Milano-Bergamo, la Lainate-Como-Grandate, la terza corsia della Rimini nord-Pedaso. Ma l’opera più importante e costosa era la bretella genovese Rivarolo-Voltri, progetto successivamente ribattezzato con il nome di Gronda di Ponente. Un passante del costo di 1,8 miliardi di euro, che vent’anni dopo non è (ancora) stato realizzato. Complessivamente si trattava di opere del valore di 4,7 miliardi. Ma anche se questi investimenti non sono mai stati realizzati hanno rappresentato «la base di calcolo per l’individuazione della tariffa autostradale che lo Stato permette al concessionario di applicare». In poche parole i Benetton avrebbero aumentato le tariffe promettendo infrastrutture fantasma. Si è, al contrario, rivelato estremamente concreto l’incremento degli incassi, utilizzati per ripianare il debito da 8 miliardi che la Edizioni holding Spa, la cassaforte dei Benetton, aveva contratto per acquisire, con l’aiuto delle banche, il 53,8 per cento delle azioni di Aspi a un prezzo considerato all’epoca elevato.Una scalata che il gruppo tessile avrebbe lanciato con la nuova convenzione in tasca e la certezza di poter contare su una ulteriore cospicua fetta di pedaggi degli automobilisti (considerati denaro pubblico, il cui sperpero ha portato a ipotizzare il peculato). Ci troveremmo di fronte a un esempio di scuola di imprenditoria senza rischio d’impresa, di acquisto a debito, un passivo che grava sulla società acquistata e non sulle persone e sui beni di chi compra.Infatti, secondo i legali che hanno presentato l’esposto in Procura da cui è partita l’inchiesta, gli utili sarebbero serviti a coprire le rate dei mutui accesi per effettuare l’Opa. Dopo i primi ordini di esibizione d’atti del 2022, i militari della Guardia di finanza hanno continuato a far capolino nelle sedi del ministero, di Autostrade per l’Italia e di Anas per prelevare nuovi documenti. Per esempio nelle scorse settimane sono andati a caccia, tra le altre cose, dei bilanci e dei piani industriali del concessionario per il periodo compreso tra il 1980 e il 2008, ma soprattutto di «ogni altro documento -relativamente al periodo 1997-2008-necessario a quantificare/verificare […] i ricavi derivanti dalla quota dell’incremento tariffario relativo al singolo investimento, i costi previsti nel piano finanziario e i costi effettivamente sostenuti (per la realizzazione di ogni singola opera/bene reversibile -come da convenzione del 1997 e successivi atti aggiuntivi sino al IV atto aggiuntivo del 2002)» e «l’ammontare del fondo rischi stanziato in bilancio».I profitti sono stati la stella polare di tutta la gestione dei Benetton. Autostrade per l’Italia nel 2004 portava a casa utili netti per 220 milioni di euro, mentre nel 2017, l’anno prima della tragedia, questi erano cresciuti del 339,52 per cento ed erano schizzati a 968 milioni. Alla fine il tesoro prodotto da questa gallina delle uova d’oro ammonta a 9,875 miliardi di euro con una media di 658 milioni l’anno. Questi guadagni, dal 2010 al 2018, hanno garantito 2 miliardi di dividendi per la famiglia Benetton e la loro cassaforte, la holding Edizione. Una festa a cui non sembrava disposto a rinunciare neppure chi, nella narrazione corrente, sembrava meno coinvolto nel crollo.Per esempio l’amministratore di Edizione, Mion in Tribunale e davanti ai pm ha pianto lacrime di coccodrillo, spiegando di non aver avuto il coraggio di opporsi all’andazzo in base a cui le spese nella manutenzione erano inversamente proporzionali alla crescita dei guadagni. Ma è lui, in un’intercettazione particolarmente significativa, che spiega ad Alessandro Benetton che avrebbero venduto cara la pelle, o meglio l’azienda.I due scaricano la colpa sul defunto Gilberto Benetton, sembra particolarmente interessato agli introiti («Ma Tondato ha perso anni in merito alla situazione proprio… lui ha fatto contento il signor Gilberto con i suoi dividendini… ma come azienda non c’è…»), ma si concentrano sulla comunicazione aziendale, sulle interviste e sulla necessità di evitare un «esproprio proletario».Un obiettivo che porteranno a casa con successo. Il 24 gennaio 2020 Mion ed Alessandro Benetton, figlio di Luciano, parlano al telefono.Benetton junior sospetta che anche l’ad Fabio Cerchiai. Ex presidente di Atlantia e Aspi, sia «stato complementare a tutte queste cose». Mion è d’accordo e ricorda perché Cerchiai fosse stato nominato: «Lui era stato messo lì per condizionare questa mania egocentristica di Castellucci, quando tuo zio è caduto innamorato di Castellucci cosa ha fatto? Si è messo lì a non fare un cazzo facendo contenti contemporaneamente Castellucci e tuo zio e adesso ha un problema…». Benetton: «Era assolutamente contiguo al sistema pur non direttamente coinvolto e consapevole». Mion: «Però il vero discorso è chi glielo faceva fare? Doveva cominciare… o rompeva le scatole a Castellucci o rompeva le scatole a tuo zio o le rompeva a tutti e due… e allora lui dice: “Ma sai che ti dico? Gli va bene così e va bene pure a me”… l’unica cosa è che ha ammazzato tutto…». Ma ecco il vero problema: «Però la verità è che adesso noi abbiamo una perdita reputazionale micidiale… c’è stato un incontro al ministero in cui sostanzialmente ci hanno detto: con voi non facciamo un cazzo. Cioè sostanzialmente non rendono neanche finanziabile Aspi e adesso… diciamo… non sappiamo neanche cosa fare perché richiedono penali più alte rispetto al miliardo e mezzo già offerto». Poi la cifra aumenterà a 3,4 miliardi, ma rimarrà in capo a Cassa depositi e presiti. Benetton dice di aver preso informazioni e di aver saputo che «non è andato bene l’incontro» e chiede «se a questo punto non convenga anche a noi su Aspi» che «Benetton vada via» come chiedono quasi tutti i politici. Mion replica: «Beh certo, non con l’esproprio proletario che stanno organizzando». Benetton è d’accordissimo: «No certamente, ebbé». Mion evidenzia di dover incontrare il presidente di Impregilo, interessata a subentrare ai Benetton: «Gli ho telefonato e gli ho detto: “Se pensate di fare un esproprio proletario vi risparmio anche il costo della colazione”».Il sospetto di Mion è che tutto sia «orchestrato da Cassa depositi e prestiti», ovvero dal governo e dal ministero dell’Economia. Il manager si lamenta perché in caso di revoca della concessione sembra che l’indennizzo sarebbe «uguale al patrimonio netto, quindi praticamente niente». Un niente che all’epoca valeva 1,8 miliardi nel 2020 e 2,2 miliardi nel 2019. Non certo noccioline, ma cifre non paragonabili a quelle incassate grazie al combinato disposto dei governi Conte 2 e Draghi, ovvero oltre 8 miliardi al netto delle penali. Grazie ai vecchi nemici di Cdp, improvvisamente divenuti più comprensivi e generosi.
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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