2021-01-05
Arriva una Befana a corto di carbone, sbriciolato da crisi e campagne «verdi»
Produzione giù del 77% in 30 anni, -7% di consumi dal 2018. Così si esaurisce il combustibile che mise in moto il mondo.Alla Befana quest'anno conviene portare solo dolci perché il carbone è in seria crisi. Ad accelerare la fine del combustibile fossile che ha dato vita alla rivoluzione industriale, spostato treni e navi, riscaldato case e risollevato economie, ci si è messa anche la pandemia. I vari lockdown hanno notevolmente diminuito la domanda di energia elettrica. Nella sola Unione europea, le importazioni di carbone per le centrali termoelettriche sono calate di quasi due terzi, ai minimi da 30 anni a questa parte. E quattro centrali a carbone su cinque stanno operando con bilanci in perdita. Se cinquant'anni fa, negli Usa la quota carbone segnava il 50% della produzione di elettricità, fra dieci anni scenderà al 10%, soprattutto con Joe Biden presidente, che ha promesso di rientrare negli accordi sul clima di Parigi. Fra trent'anni, poi, l'Unione europea punta a diventare il primo continente a impatto zero sul clima. A basare la propria economia sul carbone resterà solo l'Asia, attualmente responsabile del 77% dell'uso complessivo del carbone, con India, Indonesia e Vietnam che ne stanno aumentando il consumo per via dell'espansione industriale e con la Cina che ne brucia quattro miliardi di tonnellate l'anno, la metà della produzione mondiale. Perché se Europa e America contano sempre più su eolico, fotovoltaico e su altre fonti rinnovabili, va ricordato che pannelli e pale sono prodotti per il 75% in Cina, ovvero con elettricità che proviene dal carbone.La prima miniera di carbone a noi nota è quella di Fushan, in Cina. Risale all'anno Mille avanti Cristo, ma gli storici si dicono convinti che i cinesi ne facessero uso già nel 3490 a.C. Tuttavia estrarre carbone era molto difficile e, a fronte della debole domanda, i cinesi preferirono per lo più bruciare legna. È agli antichi romani di Britannia che si deve l'arguzia di usare il carbone per purificare il ferro, materiale necessario per produrre oggetti e armi. Già all'inizio del Seicento il consumo pro capite di carbone in Inghilterra si valutava intorno ai 200 chili all'anno, cifra raddoppiata nel corso dei successivi cent'anni e passata a 800 chili verso il 1750, quando iniziò la rivoluzione industriale. Ma il carbone non avrebbe avuto gloria senza James Watt, un ingegnere scozzese che nella seconda metà del Settecento mise a punto una caldaia che trasformava l'acqua in vapore. Dopo vari tentativi e miglioramenti, questo marchingegno di fatto infernale arrivò a spostare treni e navi, azionare macchine capaci di estrarre più carbone per far funzionare fabbriche intere. Come scriveva George Orwell in La strada di Wigan Pier, libro inchiesta sulla vita dei minatori: «La nostra civiltà, con buona pace di Chesterton, si fonda sul carbone [...]. Le macchine che ci conservano vivi, e le macchine che creano le macchine, dipendono tutte direttamente o indirettamente dal carbone».Ma c'era ancora una cosa che frenava l'espansione del carbone: l'eccessivo costo di trasporto. All'epoca bastava un percorso di meno di 15 chilometri per far raddoppiare il suo prezzo. Così gli inglesi crearono una rete artificiale di canali per la navigazione interna. Un'opera ingegnosa che consentì all'Inghilterra di aumentare la propria produzione fra il 1750 e il 1800 da 5 a 13 milioni di tonnellate annue. All'inizio del diciannovesimo secolo il carbone veniva anche utilizzato per l'illuminazione pubblica. Si usava il cosiddetto «gas di città» ricavato dal carbone attraverso un processo di gassificazione. Fu così che le strade di Londra, Parigi e New York videro la luce. Nel 1882 Thomas Edison mise a punto un impianto di produzione elettrica alimentato a carbone che forniva elettricità per illuminare le abitazioni. La produzione mondiale di carbone passò da poco più di 10 milioni di tonnellate nel 1700, a circa 70 milioni di tonnellate nel 1850 e a 800 milioni di tonnellate nel 1900. Nel 1800, i quattro quinti del carbone mondiale erano estratti in Inghilterra. Durante il periodo di espansione dell'industria, un minatore britannico poteva produrre 250 tonnellate di carbone all'anno. Anche tenendo conto che circa il 20% doveva essere usato per estrarne di più. Al culmine del proprio impero, la Gran Bretagna impiegava più di un milione di minatori. Uomini costretti a lavorare per pochi scellini anche per 15 ore al giorno sottoterra mentre le loro donne e i loro bambini avevano il compito ingrato di spostare interi vagoncini di carbone. Scriveva sempre Orwell: «Più di ogni altro, forse, il minatore può rappresentare il prototipo del lavoratore manuale, non solo perché il suo lavoro è così esageratamente orribile, ma anche perché è così virtualmente necessario e insieme così lontano dalla nostra esperienza, così invisibile, per modo di dire, che siamo capaci di dimenticarlo come dimentichiamo il sangue che ci scorre nelle vene». Nel 1912 i minatori, per far sentire la loro voce, indissero il primo sciopero nazionale per chiedere un salario minimo di 8 scellini al giorno. Lo sciopero durò 37 giorni e terminò il 6 aprile, quattro giorni prima della traversata inaugurale del Titanic. Il famigerato transatlantico, con le sue 29 caldaie, bruciava circa 825 tonnellate di carbone al giorno, per un carico totale di 13.000 metri cubici, circa 8.000 tonnellate. Alla partenza però il carico non era sufficiente. La White Star Line decise quindi di rifornirsi dalle altre navi della casa ancorate nel porto di Southampton. Dai bastimenti prelevarono un totale di 6.307 tonnellate di carbone. E i passeggeri di quelle navi ormai fuori servizio si videro imbarcare sulla nave ammiraglia che s'andò a schiantare contro un iceberg.Oltre che in Inghilterra l'estrazione di carbone procedeva a spron battuto anche in Germania, in Polonia, in Francia, Belgio e nella grande Russia. Nell'Unione sovietica il carbone diede vita anche a un eroe socialista, il minatore Aleksej Stachanov che, con un trapano e l'aiuto dei suoi compagni, il 31 agosto 1932 riuscì a raccogliere 102 tonnellate di carbone in appena cinque ore e quarantacinque minuti. La sua dedizione al lavoro gli valse la copertina del Time e un posto nei dizionari di mezzo mondo alla voce «stacanovismo».Il minatore era sì sinonimo di sporcizia ma anche di duro lavoro e rispettabilità. Quando uscì la notizia che Gerardo Iglesias, ex segretario generale del partito comunista spagnolo, aveva deciso di lasciare la politica per riprendere il suo vecchio lavoro di minatore («L'unico modo in cui posso guadagnarmi degnamente la vita», disse), Indro Montanelli commentò: «Alcuni dirigenti del Pci, a quanto risulta, vorrebbero imitarne l'esempio, tornando al vecchio lavoro. Il difficile è trovare chi ne aveva uno». Fatto sta che ormai per i minatori di re carbone di lavoro ce n'è poco. Sempre più Paesi ne fanno a meno in nome della lotta all'inquinamento e della salute. Il Portogallo riesce a vivere senza carbone dallo scorso maggio. Austria e Svezia hanno chiuso le ultime centrali, anche la Federico II di Brindisi ha rinunciato a maggio al carbone. Il rapporto di dicembre 2020 dell'Agenzia internazionale per l'energia stima che il consumo globale sia diminuito del 7%, cioè di oltre 500 milioni di tonnellate, tra il 2018 e il 2020. Un calo di queste dimensioni su un periodo di tre anni non ha precedenti. Non succedeva dalla seconda guerra mondiale. Secondo dati Eurostat, nel 2019 il consumo di carbone è stato di 176 milioni di tonnellate, il 55% in meno rispetto al 1990. La produzione si è attestata a 65 milioni di tonnellate, il 77% in meno rispetto 30 anni fa. Oggi solo due Stati membri dell'Ue producono carbone: la Polonia e la Repubblica Ceca. E la Gran Bretagna, Paese pioniere nell'uso di questo combustibile fossile, dal 9 aprile al 10 giugno non ne ha bruciato un solo pezzo, il periodo ininterrotto più lungo senza carbone dall'inizio della rivoluzione industriale, più di 230 anni fa. Eppure ci si dimentica che un pezzo di carbone può sempre farsi diamante.