2022-09-20
«Basta rattoppi al fisco: serve la flat tax»
Nicola Rossi (Imagoeconomica)
L’ex senatore dem Nicola Rossi, ora nel cda dell’istituto Bruno Leoni: «La redistribuzione non si fa inventando altre imposte, bensì riducendo la spesa. Al Paese va detta la verità sui conti: urge disciplina di bilancio. Il Pnrr? Funzionerà solo con investimenti focalizzati».È di Andria, ma da almeno un decennio ha ingaggiato una sorta di disfida di Barletta con ciò che si definisce sinistra in Italia. È stato deputato del centrosinistra, dell’Ulivo, senatore del Pd. Poi, era il 14 aprile 2011, è passato al gruppo misto dopo che Palazzo Madama aveva respinto le sue dimissioni. «Colpa mia. Avevo totalmente frainteso il mondo in cui ero arrivato, e non a caso ne sono uscito». Nicola Rossi, uno dei più eleganti nel pensiero e nei modi tra gli economisti italiani, è divenuto presidente dell’istituto Bruno Leoni - ora è membro del cda - la culla del pensiero liberale e accetta a pochi giorni dal voto di tentare l’analisi economico politica del futuro prossimo venturo.Professor Rossi, anche lei come Fitch vede arrivare la recessione?«Mi sembra che si stiano addensando nuvoloni di vario genere all’orizzonte e purtroppo non ci è chiaro quanto dureranno alcuni dei fenomeni che sono in corso. Per esempio l’inflazione. Segnalavo già un anno fa che non sarebbe stato un fenomeno transitorio e sono persuaso che lo avremo ancora con noi per un discreto periodo di tempo. L’emergenza energetica che si sta profilando non si risolverà nel giro di qualche mese. Vedremo se i dati negativi si coagulano al punto da portarci in recessione. Il nostro problema resta la crescita. Si è detto che nel 2021 abbiamo fatto il boom. Con lo sprofondo del 2020 non è un gran merito aver recuperato parzialmente».I programmi elettorali però promettono decine di miliardi…«In passato pure io mi sono dedicato a questo esercizio sui programmi. Con questa legge elettorale è del tutto irrilevante; questi programmi sono in realtà parte della competizione che non avviene tra coalizioni, ma dentro le coalizioni. Tra le coalizioni ci sono solo mozioni di principio. Di programmi andremo a parlare, sul serio, il 26 settembre mattina. A seconda di quale sarà la coalizione vincente e di quali saranno i rapporti di forza al suo interno avremo un programma di governo e potremo valutare. Certo che le questioni di struttura dell’economia italiana - dalle infrastrutture alla formazione e alla ricerca, dal tessuto imprenditoriale alla finanza pubblica - saranno il vero banco di prova. Il mio auspicio è che, chiunque vinca, sappia circondarsi di competenze adeguate alla difficoltà del compito».Lega e Forza Italia, sia pure con sfumature diverse, insistono sulla flat tax. Lei la promuove. Magari non pensa alla stessa flat tax, ma potrebbe funzionare?«La questione è che negli ultimi 25 anni siamo andati avanti a rattoppi del fisco. Il risultato è un sistema fiscale incomprensibile e ingestibile. Suggerirei di non fare l’ennesimo aggiustamento parziale per correggere questa o quella stortura. Bisogna ripensare complessivamente il sistema per restituirgli efficienza ed equità. La flat tax si presta bene a questa funzione perché è un’innovazione abbastanza radicale e pone un tema importante: qual è la modalità più efficace per fare redistribuzione? In Italia la redistribuzione da decenni si fa dal lato delle imposte e continuamente c’è chi si straccia le vesti per il crescere dell’iniquità. Aveva ragione Maffeo Pantaleoni: qualunque imbecille può inventare e imporre tasse. La redistribuzione si fa e va fatta, invece, dal lato della spesa: istruzione, assistenza, pensioni, sanità. L’obbiettivo non può che essere quello di offrire servizi efficienti, commisurati in quantità e qualità alle risorse disponibili, e ricordando che le fasce più abbienti della popolazione possono spesso e volentieri pagare per quei servizi».Ci vorrebbe un bilancio a budget? O magari l’Agenzia delle uscite?«Io, intanto, mi accontenterei di disporre di uno stato patrimoniale della pubblica amministrazione. Se lo avessimo forse comparirebbero da qualche parte come voce di bilancio quelle molte decine di milioni che sono rappresentate dalle garanzie che sono state date in questi anni. Quanti di quei crediti non saranno restituiti? Più in generale, la patologia di questi ultimi anni ha un nome preciso: i bonus. Dietro ognuno di questi trattamenti di favore c’è una specifica categoria. Non ricordo un movimento popolare a favore dei monopattini mentre sarei pronto a scommettere che l’industria dei monopattini ha passato molto tempo nei corridoi dei ministeri e del Parlamento. È un buon esempio delle gravi disfunzioni che sono implicite nella logica dei bonus. Sono tutti interventi che alla fine restituiscono un sistema sbrindellato in cui il bilancio pubblico perde la sua direzione di marcia e i suoi obiettivi. E a risentirne è il rapporto fra i cittadini e lo Stato. Fra il fisco e il contribuente. A quest’ultimo proposito osservo, ad esempio, che il tema reale delle concrete difficoltà di contribuenti in debito con il fisco corre il rischio di essere stritolato fra due demagogie: quella del “sono tutti evasori” e quella del “liberi tutti”. Si dimentica, a questo proposito, che una parte non piccola degli oneri fiscali sulle imprese non è legata agli utili».Faccia un esempio.«L’Irap. In questo difficilissimo quindicennio molte imprese hanno sperimentato utili negativi ma ciononostante il fisco ha chiesto e non poco. Forse bisognerebbe tenerne conto. Quanto all’Agenzia delle uscite c’è e funziona: la Ragioneria generale fa un controllo rigoroso sulla spesa dello Stato. Molto meno si agisce sulle partecipate o gli enti locali».Qual è l’assoluta priorità economica?«Al Paese va detto con molta chiarezza che stiamo arrivando a un momento assai complicato. Va detta la verità sui conti. Siamo in condizioni ancora molto fragili dopo la pandemia, dopo due crisi finanziarie, con la guerra in corso e le priorità sono la disciplina di bilancio e la crescita. Si deve tornare a quello che si pensava a metà dell’Ottocento: perché un Paese sia autonomo e sovrano la disciplina di bilancio è condizione essenziale. Per un Paese pesantemente indebitato lo è ancor di più. Il secondo punto è concentrarsi su come restituire al Paese un tasso di crescita di lungo periodo pari almeno a quello medio dell’Eurozona. Ne abbiamo un disperato bisogno perché abbiamo fatto - a mio parere - più debito del necessario. In occasione del Pnrr, mi sarei limitato ad accedere ai sussidi ma non al debito. E deve essere chiaro che non solo i debiti, ma anche la parte cosiddetta a fondo perduto va interamente restituita sotto forma di maggiori contributi al bilancio europeo. E se l’obiettivo è la crescita, bisogna dirsi con franchezza che il punto di partenza non può che essere l’azzeramento delle politiche per il Mezzogiorno fatte negli ultimi 25 che hanno reso il Sud quello che oggi è».Non ci sono giuste politiche per la crescita?«Se il Pnrr ci potesse dare un tasso di crescita sostenuto e costante nel lungo periodo saremmo tutti felici. Nelle nostre odierne condizioni la crescita non è un’opzione, è un’assoluta necessità. Ma occorre che i fondi del Pnrr vengano spesi in maniera molto efficiente e molto focalizzata. Accadrà? Nel rapporto sulle Pmi che mi è capitato di commentare in Confindustria, c’è una notizia che doveva stare sulle prime pagine. Negli ultimi 20 anni - quando ogni anno stavamo a contare i centesimi e sforzarci di intravvedere crescite dello zero virgola - si sono accumulati fondi non investiti per 50 miliardi nel Sud. Se fosse accaduto in una qualsiasi impresa privata il risultato sarebbero alcune lettere di licenziamento. Mi piacerebbe che qualcuno spiegasse come si intende provvedere. Da 25 anni diamo al Mezzogiorno il contrario di ciò di cui ha bisogno. Gli sono state destinate risorse che radicano la convinzione che si va avanti con l’assistenza. Ma è mai pensabile per il Mezzogiorno un futuro fatto solo di assistenza?». L’Europa sta facendo interamente la sua parte?«L’Europa in questo frangente ha un limite che è diventato molto rilevante: l’unanimità. Chi ama l’Europa, e io sono il primo fra questi, deve porre il problema. Questo, naturalmente, significa anche ipotizzare una rilevanza maggiore per il Parlamento e ripensare il ruolo della Commissione. Certo, ci sono da completare l’unione bancaria, la riscrittura delle regole di bilancio. Ma il salto che gli eventi degli ultimi anni hanno reso ineludibile è, temo, quello politico».Lo dimostra la difficoltà sul price cap del gas e sulla tassazione degli extraprofitti?«La tassazione sugli extraprofitti è una sorta di bandierina ideologica. Il gettito effettivo è una frazione molto piccola di quello atteso. Si è generata una valanga di ricorsi. Quanto al price cap sarebbe possibile se l’Europa fosse unita, ma siamo ancora di fronte a logiche nazionali nel momento in cui i fatti ci imporrebbero di superare collettivamente errori strategici fatti proprio da singoli Stati: la Germania in primo luogo e anche l’Italia. Errori che ci hanno portato a dipendere, o quasi, da un unico fornitore».Torniamo al paese dei no e a un’Europa che si è spinta verso il green deal troppo in fretta e in maniera eccessiva?«I due aggettivi eccessivo e affrettato sono giusti: non negano il problema grande come una casa che è il cambiamento climatico, ma lasciano immaginare che si possa procedere con una maggiore gradualità. O - aggiungerei io - al contrario accelerando in alcune direzioni. Sul nucleare di nuova generazione bisogna correre, dovremmo significativamente incrementare gli investimenti e la sperimentazione. L’unica cosa che non si può fare è continuare, come abbiamo fatto in Italia negli ultimi 25 anni, con i “no”. Di fronte ai disastri, all’arretratezza del Paese, alla crisi energetica gradirei che qualcuno si scusasse. Non bisogna dare la più piccola sponda a forze politiche e movimenti che sanno benissimo che il Paese non può permettersi una serie di no. Dobbiamo isolare chi ci impedisce di fare, non dare sponda a chi si rifiuta pervicacemente di entrare nella modernità. Vale per i rigassificatori, ma anche per l’atteggiamento anti-scientifico e vale moltissimo per quell’attitudine anti imprenditoriale che in questi anni è stato l’esempio insuperato delle cose che non possiamo permetterci».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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