2025-07-21
Bassi salari, bolla edilizia, deflazione. Gli squilibri che Xi scarica sul mondo
Dopo la crisi finanziaria del 2008, la Cina avrebbe potuto correggere il suo modello orientato all’export, sostenendo reddito e consumi. Invece ha puntato sugli investimenti immobiliari, finiti presto fuori controllo.La produzione manifatturiera di Pechino resta sovradimensionata rispetto alla domanda interna. Se gli Usa cedono su Taiwan perdono le chiavi del Pacifico.L’alta tecnologia è un volano di sviluppo, ma ha anche valenza strategica. Per questo il governo ha deciso di scommetterci. Accettando qualche «effetto collaterale».Lo speciale contiene due articoliL’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca sta seriamente preoccupando Pechino. Il presidente americano, con la sua concezione dei dazi come strumento di disciplina, rappresenta un rischio enorme per l’economia cinese, che grazie alla globalizzazione è divenuta un colosso industriale e commerciale.Fu Deng Xiaoping nel 1982, durante il XII Congresso del Pcc, a coniare il termine «socialismo con caratteristiche cinesi», per descrivere un approccio pragmatico che combina il marxismo-leninismo con le specificità della realtà cinese, integrando elementi di economia di mercato in un sistema socialista sotto la guida autoritaria del Partito comunista cinese. I tre pilastri di questo programma politico erano l’adattamento del marxismo in chiave non dogmatica, una economia di mercato socialista (con la coesistenza di settori pubblici e privati nell’economia) e la leadership assoluta del Partito. A questa svolta contribuì non poco l’ex segretario del Pcc Hu Yaobang, artefice della decollettivizzazione delle campagne e della reintroduzione dell’agricoltura a conduzione familiare tra il 1980 e il 1984. Hu fu poi rimosso da Deng, che ne temeva la crescente influenza. Fu proprio la drammatica morte di Hu a scatenare le proteste studentesche e operaie che culminarono nel massacro di Piazza Tienanmen nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989.Xi Jinping ha ripreso i concetti di Deng nel 2017, riadattandoli ad una «nuova era» e facendoli inserire nella Costituzione. I punti salienti di questo nuovo programma politico sono il ringiovanimento nazionale (trasformare la Cina in una superpotenza globale entro il 2049, centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese), una modernizzazione senza occidentalizzazione (valorizzando la cultura e le tradizioni cinesi per rafforzare l’identità nazionale), riforme economiche (livellare le disparità economiche interne), il ruolo centrale del Partito comunista cinese, la sicurezza nazionale e l’autosufficienza.La Cina negli ultimi vent’anni è diventata la fabbrica del mondo e il suo surplus manifatturiero ha raggiunto circa il 2% del Pil mondiale. Ora Pechino continua a spingere sull’aumento della capacità produttiva cinese nel settore manifatturiero avanzato come principale motore della crescita. Xi ha formalizzato le sue ambizioni di rendere il Paese più autosufficiente nel 2015, quando ha presentato l’iniziativa «Made in China 2025». Un programma basato sul presupposto che il mondo si trovava sull’orlo di una nuova rivoluzione tecnologica e che la Cina avrebbe avuto successo solo investendo in una base manifatturiera più avanzata.La spinta verso la conquista dei mercati esteri deriva da un preciso disegno, dunque, ma anche dai gravi squilibri interni dell’economia, che si originano nel 2008. La crisi finanziaria legata alla bolla dei mutui subprime fece cadere le esportazioni cinesi e Pechino avrebbe potuto rimediare a questo calo incentivando i consumi interni, attraverso politiche di sostegno al reddito delle famiglie per acquistare beni cinesi. Questo avrebbe reso più equilibrato il modello economico cinese, tra investimenti e consumi.Invece, il governo decise di incanalare i risparmi del Paese verso gli investimenti in infrastrutture e soprattutto nell’edilizia, con la costruzione di milioni di nuove case. Ciò ha contribuito a stimolare una robusta crescita economica contando meno sulle esportazioni, generando effetti positivi nell’attività, nello sviluppo immobiliare, nei prezzi e nel patrimonio netto delle famiglie. Ma questa strategia si basava sull’aspettativa che il valore delle case continuasse a crescere. La Cina è cresciuta, ma ha creato una enorme bolla immobiliare, favorendo l’illusione che il settore immobiliare fosse un investimento senza rischio e facendone la spina dorsale dell’economia cineseNel 2020 Xi Jinping, preoccupato della bolla, introdusse un pacchetto di leggi per limitare l’eccessivo indebitamento degli sviluppatori immobiliari. Ma senza l’accesso facile al debito gli sviluppatori non sono più stati in grado di rimborsare i prestiti in corso e di terminare la costruzione delle case già vendute in anticipo. Secondo alcune stime, in Cina vi sono ancora 20 milioni di case già vendute e in attesa di essere completate. Il settore è entrato in una crisi profonda che dura tuttora, dalla quale non riesce ad uscire.In più, durante la pandemia la Cina è stata l’unica grande economia a non allargare i cordoni della borsa per sostenere i redditi. Xi è infatti ideologicamente contrario a forme di welfare, ritenendo che stimolare i consumi non aggiunga valore e preferendo utilizzare la spesa pubblica per gli investimenti.Così, la Cina ha visto crescere l’export grazie alla spesa degli altri Paesi, che stimolavano i consumi e sostenevano i redditi, con i quali si compravano e si comprano tuttora merci cinesi. Ciò ha permesso a Pechino di resistere alla crisi del 2020-2021 mentre spostava gli investimenti dal settore immobiliare a quello manifatturiero. Ora il surplus manifatturiero della Cina è pari al 10% del suo Pil, una cifra impressionante.Di fatto, il governo di Pechino sta facendo pagare agli altri Paesi lo squilibrio interno cinese, generato dallo scoppio della bolla immobiliare e dal mancato sostegno ai consumi interni.Oggi la Cina è una superpotenza manifatturiera. Può produrre circa 20 milioni di veicoli elettrici e circa 40 milioni di veicoli con motore a combustione interna ogni anno. Poiché il mercato mondiale chiede circa 90 milioni di auto all’anno, la Cina da sola può soddisfare i due terzi della domanda mondiale. Più della metà dell’acciaio mondiale è prodotto in Cina, che produce anche metà delle navi richieste dal mercato. Stesso discorso per l’alluminio e il rame.L’ondata di investimenti nelle fabbriche porta a enormi quantità di beni cinesi che vengono spinti sui mercati esteri a prezzi stracciati, spiazzando gli altri produttori ed aggravando le tensioni commerciali. Non a caso la Cina è alle prese da tempo con una insidiosa deflazione.L’indice dei prezzi al consumo cinese di giugno è tornato in territorio positivo per la prima volta da gennaio, salendo allo 0,1% su base annua dal -0,1% di maggio, ma i prodotti alimentari e l’indice dei prezzi alla produzione sono ancora in deflazione.La deflazione cinese è un effetto della domanda interna insufficiente, derivante dagli eccessi nel settore immobiliare che hanno danneggiato i bilanci delle famiglie, costringendole a risparmiare anziché spendere. Contribuisce a questo quadro anche il calo dei salari, che nel 2024 sono diminuiti in cinque settori privati (in quello tecnologico sono scesi del 5%). Ma anche i datori di lavoro del settore pubblico hanno tagliato i salari.Dunque, oggi l’economia cinese è più debole rispetto al primo mandato di Trump. Il Paese fa molto affidamento sulle esportazioni per sostenere la crescita del suo settore manifatturiero, ma per continuare a fare questo a Pechino serve urgentemente un accordo con gli Stati Uniti sui dazi.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/bassi-salari-bolla-edilizia-deflazione-gli-squilibri-che-xi-scarica-sul-mondo-2673462065.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="terre-rare-contro-tecnologia-la-possibile-intesa-con-trump-non-sciogliera-il-nodo-surplus" data-post-id="2673462065" data-published-at="1753004856" data-use-pagination="False"> Terre rare contro tecnologia. La possibile intesa con Trump non scioglierà il nodo surplus La Cina è per gli Stati Uniti un rivale strategico. Considerato il peso della Cina con il suo miliardo e mezzo mal contato di abitanti, la sua economia e la sua influenza, Washington però è anche costretta a cercare cooperazione con Pechino, almeno in certi frangenti. La storia delle relazioni tra i due Paesi degli ultimi 75 anni è costellata di periodi di collaborazione alternati a periodi di scontro.Di fronte alla guerra commerciale in atto tra i due Paesi, si parla da tempo di un grande accordo tra Donald Trump e Xi Jinping, che dovrebbe stabilizzare le relazioni tra i due Paesi, ponendo fine sia alle dispute commerciali che a quelle sulla sicurezza. In realtà, si tratta più di un desiderio che di una reale possibilità.Uno dei punti nodali che divide Usa e Cina è la questione di Taiwan. L’atteggiamento intransigente di Pechino sull’isola fa pensare che un accordo dovrebbe contenere qualche concessione da parte degli Usa sulla questione, cosa che vanificherebbe l’impalcatura di sicurezza americana in tutta l’area indo-pacifica. Cedere su Taiwan per gli Stati Uniti significherebbe perdere influenza strategica e lasciare campo libero all’espansione cinese nel Mar Cinese Meridionale e per estensione nel Pacifico, che per gli Usa sono la soglia di casa. Per quanto originale possa essere la politica estera di Donald Trump, nessun presidente americano consentirebbe mai questo.Sul fronte commerciale, la Cina è il terzo partner commerciale degli Stati Uniti, mentre i primi due sono Messico e Canada, entrambi paesi che triangolano grandi quantità di beni cinesi. Lo stesso Trump li ha definiti «backdoor» della Cina.Nel 2024 la Cina ha esportato circa 500 miliardi di dollari di merci negli Stati Uniti, con un surplus di 360 miliardi di dollari. Pechino ha altresì in mano poco meno di 1.000 miliardi di dollari di titoli del Tesoro statunitensi, che rappresentano il 2,7% circa del totale del debito Usa e l’11% dei titoli detenuti da Paesi stranieri (il primo detentore estero è il Giappone).Di fronte all’enorme surplus cinese, Donald Trump ha imposto una serie di dazi sulle importazioni dalla Cina (fino al 145%), allo scopo di portare Xi Jinping al tavolo delle trattative. Xi però ha risposto con dazi al 125% sui beni statunitensi e restrizioni sull’export di materiali critici e terre rare.Ai primi di maggio i due Paesi hanno annunciato una tregua nell’imposizione di dazi reciproci, mentre un accordo viene negoziato nei dettagli. Il 27 giugno viene annunciato un accordo, i cui contenuti non sono ancora noti.Per quanto esteso questo accordo possa essere, non sarà quel grande trattato che in molti prefigurano. Se si limitasse, come probabile, ai soli aspetti economici, l’accordo sancirebbe un equilibrio precario in cui gli Usa ridurrebbero i dazi e accetterebbero (forse) di allentare in parte i controlli sull’export di tecnologie. Da parte cinese si eliminerebbero i dazi esistenti, i controlli sull’export di terre rare e alcuni sussidi che gli Usa considerano penalizzanti per le aziende Usa. Ma i nodi di fondo resterebbero irrisolti, considerato che le guide politiche di entrambi i Paesi hanno una marcata impronta nazionalista. Molte questioni resteranno irrisolte, mentre l’enorme deficit statunitense potrà essere compensato solo in parte dalle entrate derivanti dall’applicazione dei dazi.Il problema del surplus cinese affonda le radici nell’impronta iper-produttivista e avversa ai consumi che Xi Jinping ha imposto al Paese. La capacità di produzione manifatturiera cinese è sovradimensionata rispetto alla domanda interna. Pechino potrebbe risolvere in parte lo squilibrio nei conti con l’estero accettando di stimolare i consumi interni, dirottando l’enorme capacità produttiva vero il soddisfacimento di nuova domanda cinese. Ma nonostante gli annunci dei mesi passati, dopo la tregua di maggio quei pochi stimoli fiscali che il governo aveva iniziato ad attuare sono stati attenuati. La pausa nella guerra commerciale ha reso meno necessari gli stimoli alla domanda interna per sostenere l’economia, dato che le esportazioni cinesi hanno mostrato una notevole resistenza agli shock. Le esportazioni cinesi verso gli Usa sono scese di 15 miliardi di dollari nei mesi di marzo, aprile e maggio di quest’anno, ma il totale dell’export è rimasto stabile. Questo perché sono aumentate le esportazioni verso i Paesi che fanno triangolazione verso gli Stati Uniti: Cambogia, Vietnam, Singapore, Thailandia, Messico, Canada, Turchia, Ungheria, Belgio e Polonia.La crescita economica cinese sembra in linea con gli obiettivi fissati dal Partito comunista cinese per il 2025 (+5% di Pil), dunque non c’è bisogno di stimoli fiscali, secondo Pechino. In realtà, verso la fine dell’anno questi saranno necessari, considerato che il prezzo delle case in Cina ha ricominciato a scendere e che la deflazione alligna: rallenta la crescita dei salari e le aziende competono al ribasso sui prezzi. Soprattutto, la guerra commerciale con gli Stati Uniti è ben lungi dall’essere terminata. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/bassi-salari-bolla-edilizia-deflazione-gli-squilibri-che-xi-scarica-sul-mondo-2673462065.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="le-ombre-dei-primati-sullhigh-tech" data-post-id="2673462065" data-published-at="1753004856" data-use-pagination="False"> Le ombre dei primati sull’high tech Nel 2015, Xi Jinping lanciò l’iniziativa «Made in China 2025» (Mic25), con l’obiettivo di trasformare il Paese in un polo manifatturiero avanzato, lasciandosi alle spalle la vecchia idea della fabbrica del mondo a basso costo e a bassa tecnologia. Il programma imponeva di raggiungere la leadership mondiale in dieci settori critici: tecnologie dell’informazione di nuova generazione, macchine utensili automatizzate e robotica avanzata, aerospaziale e attrezzature aeronautiche, attrezzature marittime e navi ad alta tecnologia, trasporto ferroviario avanzato, veicoli a nuova energia (Nev) e attrezzature, attrezzature per l’energia, macchine agricole, nuovi materiali, biofarmaci e dispositivi medici avanzati.I punti qualificanti del Mic25 erano la promozione della capacità di innovazione attraverso massicci investimenti in ricerca e sviluppo, il raggiungimento dell’autosufficienza tecnologica, l’integrazione di tecnologia e industria, il miglioramento della qualità, lo sviluppo di campioni nazionali, la conquista di quote di mercato globali, la sicurezza nazionale.Secondo alcune analisi, l’86% degli oltre 260 obiettivi del Mic 2025 è stato raggiunto, con primati mondiali in diversi ambiti. La Cina è leader globale in cinque settori tecnologici (ferrovie ad alta velocità, grafene, droni, pannelli solari, veicoli elettrici e batterie al litio) e sta riducendo rapidamente il divario in altri sette. Settori come i semiconduttori avanzati, l’aerospaziale e la robotica di fascia alta, invece, mostrano ancora una dipendenza da tecnologie straniere.Il Mic25 ha scatenato un boom tecnologico di cui aziende come DeepSeek nell’Intelligenza artificiale sono un risultato visibile. Ma il programma è servito anche ad uscire dal quadro della politica industriale ed allargarsi alla sicurezza nazionale incentrata sulla supremazia industriale. Per Pechino un sistema industriale solido è fondamentale per rafforzare la propria sicurezza e per avere una leva strategica. La Cina ha iniziato a spingere su tecnologie come il 5G nelle telecomunicazioni, l’intelligenza artificiale nei servizi digitali e le tecnologie verdi per l’energia al fine di aumentare la produttività complessiva dell’industria, anche in termini di resistenza agli shock esterni.Il programma Mic25 è corresponsabile della crescita spropositata del surplus manifatturiero cinese, ma anche dello squilibrio economico interno. La spinta tecnologica è molto costosa e richiede investimenti che vanno a danno dei consumi. Il livello di vita generale in Cina si è alzato, negli anni, ma c’è ancora molta distanza tra le aspettative della classe media e gli obiettivi del governo. Il punto è che Pechino non mostra ancora una inclinazione a riequilibrare l’economia verso i consumi. Anzi, pare sempre più disposta ad accettare le conseguenze negative che derivano dal perseguimento dei suoi obiettivi fondati sulla produzione manifatturiera, in un gioco molto pericoloso.