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2019-12-17
Gli sgambetti di Bankitalia e Ue a Pop Bari
Ansa
Le polemiche politiche e i numerosi articoli di stampa sul ruolo di Bankitalia nella storia che porta Popolare di Bari al commissariamento, hanno scosso l'istituzione guidata da Ignazio Visco. Ieri è stato diffuso un memorandum con due finalità. Il primo, ricordare che tutti gli interventi di Bankitalia servivano a evitare la liquidazione.
Se la banca fosse finita a gambe all'aria la scorsa settimana, il fondo interbancario avrebbe dovuto risarcire i correntisti con meno di 100.000 euro sul conto con ben 4,5 miliardi. Senza dimenticare che il totale dei depositi a oggi supera gli 8 miliardi e che gli azionisti sono 69.000. Ciascuno di essi ha un investimento medio di 5.000 euro e gli obbligazionisti detengono bond subordinati per 220 milioni. A tutto ciò si aggiunge l'attività sul territorio: 6 miliardi di impieghi.
Insomma, Visco mette le mani avanti e spiega al governo che se salta una banca il primo a saltare è il governo stesso e non il governatore della Banca centrale. Vale anche nel caso di Pop Bari, come per i precedenti crac. Un modo elegante per ricordare soprattutto ai 5 stelle che non è il momento per avviare battaglie politiche contro di lui. A meno che Luigi Di Maio non voglia rischiare di farsi travolgere da un mancato salvataggio. Il messaggio subliminale si legge nella nota in fondo a pagina 3. Bankitalia, dopo essersi dilungata sull'attività di vigilanza, sulle sette inchieste aperte dopo il 2010 e sugli interventi congiunti con la Consob, spiega che nel secondo trimestre del 2019 «a seguito dell'introduzione dell'incentivo fiscale previsto dal decreto Crescita, l'intermediario intensifica le attività di aggregazione».
Il riferimento è alla norma approvato dal governo gialloblù mirata a creare agevolazioni fiscali in caso di aggregazioni trasformando le Dat (attività fiscali differite) in crediti di imposta da usare subito. Nel testo non c'era un riferimento esplicito a Pop Bari, ma la norma serviva chiaramente (è così è stata spiegata anche dalla Lega che l'ha promossa) a permettere all'istituto pugliese di consolidare il patrimonio per circa 300 milioni. Visco fa scrivere nel report che la «compatibilità di tale previsioni normativa con la disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato è tuttora al vaglio della Commissione Ue».
In pratica, Bankitalia ammettere che ora la sorte della Pop Bari è veramente nelle mani di Bruxelles e che le uniche che possono mediare sono le istituzioni: vuoi il Colle, vuoi Bankitalia.
Nella postilla a pié di pagina c'è l'ammissione dell'auto condanna che riporta il cerchio dei salvataggi al 2013 e collega direttamente il cappio della Bari all'acquisizione di Tercas, promossa proprio da Bankitalia. Lo scorso marzo, a seguito della sentenza della Corte Ue che ha dichiarato illegittimo l'intervento della Commissione contro l'uso del Ftdi nel 2013, l'Abi, l'associazione bancaria italiana, ha fatto a sua volta causa chiedendo all'Ue di rimborsare tutti i risparmiatori coinvolti in Etruria, Cari Chieti, Banca Marche e Cari Ferrara. Non solo. Dal momento che la causa riguarda Tercas, anche Pop Bari si è messa in scia. Se il fondo interbancario fosse entrato nella popolare di Teramo forse il patrimonio di Pop Bari sarebbe a livelli più alti. I vertici hanno chiesto i danni. A maggio la Commissione Ue si è appellata.
Se i giudici confermassero però il primo grado, metterebbero nero su bianco che la Commissione ha sbagliato tutto. E che ha contribuito a far saltare per aria almeno 5 banche. Il report di Bankitalia di ieri ci ricorda che la Commissione ha un'arma molto più potente di quanto pensassimo per barattare il salvataggio della Pop Bari con l'esito della causa in corso presso la Corte Ue. Da un lato, l'Abi ha la possibilità di mettere nell'angolo sei anni di politiche aggressive contro i nostri istituti, dall'altro la Commissione ha la possibilità di far saltare Pop Bari e con essa il governo. Le basterebbe definire il credito d'imposta inserito nel decreto Crescita illecito e a quel punto mancherebbero di colpo 300 milioni rendendo il decreto di domenica notte ampiamente insufficiente. Dopo aver detto sì al salvataggio di NordLb, la banca dei Länder tedeschi appena ricapitalizzata, la Commissione avrebbe difficoltà a bocciare l'intervento del Mediocredito, ma le modifiche dei Dat sono tutt'altra cosa. Un cavillo che ci riporta indietro ai tempi peggiori, e visto come la situazione patrimoniale di Pop Bari è stata spinta all'estremo, il «suggerimento» di Visco sembra essere l'unica strada possibile: accettare il baratto imposto dall'Ue, ritirare la causa su Tercas e salvare la Bari. Il capo di Bankitalia deve essere tanto consapevole del bivio «spintaneo» che nella cronologia auto assolutoria di ieri ha omesso un «dettaglio». Prima dell'intervento di Pop Bari in Tercas, la banca di Teramo aveva un debito di ben 480 milioni nei confronti di Bankitalia (più di metà del valore del decreto di salvataggio). Si trattava di un prestito finalizzato a stabilizzare la liquidità. A pagina 22 del bilancio della Bari - anno 2013 - si evince chiaramente che quel debito è passato in toto sulle spalle dell'acquirente di Tercas. Una cifra enorme, che è stata interamente ripagata. Portando sofferenze e debito di Tercas a circa 2 miliardi. Dei 220 milioni di bond subordinati finiti anche ai piccoli consumatori (come scrive Bankitalia), ben 213 sono stati utilizzati per coprire la spesa destinata all'acquisizione di Tercas. Il decreto di domenica, tra le altre cose, vuole evitare che gli obbligazionisti vengano sbancati. Figuriamoci che accadrebbe in caso contrario, e se qualcuno volesse dimostrare che alla fine Bankitalia è stata rimborsata e i cittadini comuni no.
Intanto i giallorossi si scannano per le poltrone di Palazzo Koch

Ansa
«La nomina di Antonio Blandini a Commissario della Popolare di Bari ha provocato una forte irritazione tra i 5 Stelle. Bankitalia ha, infatti, scelto come commissario, a Bari, il professore universitario che, in passato, era stato indicato dalla stessa autorità di vigilanza come membro del comitato di sorveglianza nel commissariamento di Tercas. Ci si chiede come Blandini possa valutare, con oggettività, i problemi arrecati ai conti della BpB dalla fusione con Tercas e possa esprimere una valutazione oggettiva su una eventuale sottovalutazione delle sofferenze della banca abruzzese al momento della fusione con Bari». È la velina diffusa ieri dai vertici del Movimento, che ha deciso di attaccare frontalmente il numero uno di Via Nazionale, Ignazio Visco. A differenza del Pd, che su questa vicenda vuole stare coperto e allineato (visto gli storici interessi dei Ds di Massimo D'Alema nell'area), e di Italia viva che pattina sul ghiaccio (visto le scivolate di Boschi & C. su Etruria), il Movimento di Di Maio può permettersi di sbandierare la solita avversione verso banchieri e regolatori. D'altronde tutti precedenti crac sembrano non aver insegnato nulla. E nessuno sembra intenzionato a riformare una volta per tutte la governance di Palazzo Koch. Nessuno sembra dell'idea di separare l'attività di vigilanza da quella di risoluzione. Finché si mantiene questa commistione di poteri, c'è il rischio concreto che gli effetti che abbiamo sotto gli occhi si ripetano in continuo: crisi protratte nel tempo, tendenza a provare a coprire in sede di risoluzione errori commessi in sede di vigilanza e magari tendenza a far sposare «due zoppi», come si suol dire. Eppur eil tema caldo viene solo scalfito dai partiti. Ieri Anche Matteo Renzi è intervenuto sostenendo che Italia viva è più responsabile del M5s perchè pensa al bene dei risparmiatori. Purtroppo in questo momento le accuse dei partiti a Bankitalia nascondono interessi diversi dalla tutela dei risparmiatori italiani (la ratio del decreto di salvataggio da 900 milioni). Nascondo la partita della poltrone.
Mentre infuria la polemica, tra Bankitalia e Palazzo Chigi si ragiona su un dossier altrettanto delicato, quello del risiko imminente delle nomine proprio di via Nazionale. Se ne era parlato già all'inizio dell'anno, dopo le tensioni sulla precedente manovra quando si era capito che Fabio Panetta, attuale dg, avrebbe fatto il salto nel consiglio direttivo della Banca centrale europea (Bce). A gennaio ci sarà il passaggio formale. Per questo motivo da mesi il governatore Visco avrebbe incominciato a muovere le sue pedine per formare il nuovo direttorio di Bankitalia, organo di massima importanza. Le critiche sulla gestione del caso Tercas-Popolare di Bari di questi giorni, con le bordate del leader dei 5 Stelle Luigi Di Maio, servono a non trovare la quadra. Per questo la convocazione del consiglio direttivo del 20 dicembre potrebbe slittare, tanto che addetti ai lavori parlano di metà gennaio come orizzonte per la decisione finale.
Il nome che circola ormai da mesi è quello di Daniele Franco, attuale vice direttore generale, che dovrebbe essere promosso e prendere le deleghe della presidenza di Ivass, come richiesto da Visco. Il punto è che a liberarsi sarà una casella tutt'ora contesa e che riguarda da vicino anche Palazzo Chigi. Il posto vacante del direttorio dovrebbe andare a Piero Cipollone, nel settembre 2018 nominato consigliere economico (a titolo gratuito) del presidente del Consiglio, ma nominato a ottobre di quest'anno, con un blitz di Visco, funzionario generale con l'incarico di «alta consulenza al direttorio» di Banca d'Italia. Cipollone è molto richiesto. Ha gestito quando era a Chigi il dossier Carige, e in questi mesi è stato spesso l'interlocutore di Conte con gli investitori. A quanto apprende La Verità il premier lo vorrebbe ancora nella sua squadra, anche perché proprio Cipollone ha saputo gestire in questi mesi soprattutto i rapporti con la Commissione europea, interloquendo spesso con l'ex presidente Jean-Claude Juncker. Non a caso, oltre al suo nome circola quello di Eugenio Gaiotti, capo del dipartimento Economia e Statistica. Dopo aver formato il nuovo direttorio bisognerà affidare le deleghe. Luigi Federico Signorini, che a febbraio rischiò di non essere riconfermato per gli attacchi concentrici di Lega e 5 stelle, avrà con tutta probabilità quella sui conti pubblici. Mentre quelle di Franco sul bilancio e banconote dovrebbero finire ai due che si contendono il posto nel direttorio, Cipollone o Gaiotti. Alessandra Perrazzelli, che è anche nel membro del direttorio su Ivass, si troverà quasi sicuramente la delega alla vigilanza. Più i 5 stelle insistono nel mettere in difficoltà Visco, più immaginano di aver la possibilità di infilare qualche nome gradito al giro della Casaleggio. Difficile che avvenga. Lo si evince anche dalla forza con cui ieri Bankitalia ha risposto alla minaccia di Di Maio di avviare una nuova commissione d'inchiesta sulle banche. «Oggi viviamo in un clima difficile», ha avvertito il governatore presentando il docufilm sul caso Ambrosoli, «la situazione economica non è favorevole, si è spesso alla ricerca di illusori capri espiatori e ne emergono sentimenti di odio e modelli negativi». Il riferimento alla Pop Bari era molto chiaro.
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Via Nazionale ammette che la Commissione blocca la legge sui crediti d'imposta da 300 milioni. L'istituto, però, ha patito anche l'acquisto di Tercas e dei suoi debiti.Le schermaglie sul decreto di salvataggio da 900 milioni celano la lotta per il nuovo direttorio. Daniele Franco verso il ruolo di dg, ma per le altre caselle il M5s vuole dire la sua. Ed è pronto a fare la guerra al governatore.Lo speciale contiene due articoli.Le polemiche politiche e i numerosi articoli di stampa sul ruolo di Bankitalia nella storia che porta Popolare di Bari al commissariamento, hanno scosso l'istituzione guidata da Ignazio Visco. Ieri è stato diffuso un memorandum con due finalità. Il primo, ricordare che tutti gli interventi di Bankitalia servivano a evitare la liquidazione. Se la banca fosse finita a gambe all'aria la scorsa settimana, il fondo interbancario avrebbe dovuto risarcire i correntisti con meno di 100.000 euro sul conto con ben 4,5 miliardi. Senza dimenticare che il totale dei depositi a oggi supera gli 8 miliardi e che gli azionisti sono 69.000. Ciascuno di essi ha un investimento medio di 5.000 euro e gli obbligazionisti detengono bond subordinati per 220 milioni. A tutto ciò si aggiunge l'attività sul territorio: 6 miliardi di impieghi. Insomma, Visco mette le mani avanti e spiega al governo che se salta una banca il primo a saltare è il governo stesso e non il governatore della Banca centrale. Vale anche nel caso di Pop Bari, come per i precedenti crac. Un modo elegante per ricordare soprattutto ai 5 stelle che non è il momento per avviare battaglie politiche contro di lui. A meno che Luigi Di Maio non voglia rischiare di farsi travolgere da un mancato salvataggio. Il messaggio subliminale si legge nella nota in fondo a pagina 3. Bankitalia, dopo essersi dilungata sull'attività di vigilanza, sulle sette inchieste aperte dopo il 2010 e sugli interventi congiunti con la Consob, spiega che nel secondo trimestre del 2019 «a seguito dell'introduzione dell'incentivo fiscale previsto dal decreto Crescita, l'intermediario intensifica le attività di aggregazione». Il riferimento è alla norma approvato dal governo gialloblù mirata a creare agevolazioni fiscali in caso di aggregazioni trasformando le Dat (attività fiscali differite) in crediti di imposta da usare subito. Nel testo non c'era un riferimento esplicito a Pop Bari, ma la norma serviva chiaramente (è così è stata spiegata anche dalla Lega che l'ha promossa) a permettere all'istituto pugliese di consolidare il patrimonio per circa 300 milioni. Visco fa scrivere nel report che la «compatibilità di tale previsioni normativa con la disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato è tuttora al vaglio della Commissione Ue». In pratica, Bankitalia ammettere che ora la sorte della Pop Bari è veramente nelle mani di Bruxelles e che le uniche che possono mediare sono le istituzioni: vuoi il Colle, vuoi Bankitalia. Nella postilla a pié di pagina c'è l'ammissione dell'auto condanna che riporta il cerchio dei salvataggi al 2013 e collega direttamente il cappio della Bari all'acquisizione di Tercas, promossa proprio da Bankitalia. Lo scorso marzo, a seguito della sentenza della Corte Ue che ha dichiarato illegittimo l'intervento della Commissione contro l'uso del Ftdi nel 2013, l'Abi, l'associazione bancaria italiana, ha fatto a sua volta causa chiedendo all'Ue di rimborsare tutti i risparmiatori coinvolti in Etruria, Cari Chieti, Banca Marche e Cari Ferrara. Non solo. Dal momento che la causa riguarda Tercas, anche Pop Bari si è messa in scia. Se il fondo interbancario fosse entrato nella popolare di Teramo forse il patrimonio di Pop Bari sarebbe a livelli più alti. I vertici hanno chiesto i danni. A maggio la Commissione Ue si è appellata. Se i giudici confermassero però il primo grado, metterebbero nero su bianco che la Commissione ha sbagliato tutto. E che ha contribuito a far saltare per aria almeno 5 banche. Il report di Bankitalia di ieri ci ricorda che la Commissione ha un'arma molto più potente di quanto pensassimo per barattare il salvataggio della Pop Bari con l'esito della causa in corso presso la Corte Ue. Da un lato, l'Abi ha la possibilità di mettere nell'angolo sei anni di politiche aggressive contro i nostri istituti, dall'altro la Commissione ha la possibilità di far saltare Pop Bari e con essa il governo. Le basterebbe definire il credito d'imposta inserito nel decreto Crescita illecito e a quel punto mancherebbero di colpo 300 milioni rendendo il decreto di domenica notte ampiamente insufficiente. Dopo aver detto sì al salvataggio di NordLb, la banca dei Länder tedeschi appena ricapitalizzata, la Commissione avrebbe difficoltà a bocciare l'intervento del Mediocredito, ma le modifiche dei Dat sono tutt'altra cosa. Un cavillo che ci riporta indietro ai tempi peggiori, e visto come la situazione patrimoniale di Pop Bari è stata spinta all'estremo, il «suggerimento» di Visco sembra essere l'unica strada possibile: accettare il baratto imposto dall'Ue, ritirare la causa su Tercas e salvare la Bari. Il capo di Bankitalia deve essere tanto consapevole del bivio «spintaneo» che nella cronologia auto assolutoria di ieri ha omesso un «dettaglio». Prima dell'intervento di Pop Bari in Tercas, la banca di Teramo aveva un debito di ben 480 milioni nei confronti di Bankitalia (più di metà del valore del decreto di salvataggio). Si trattava di un prestito finalizzato a stabilizzare la liquidità. A pagina 22 del bilancio della Bari - anno 2013 - si evince chiaramente che quel debito è passato in toto sulle spalle dell'acquirente di Tercas. Una cifra enorme, che è stata interamente ripagata. Portando sofferenze e debito di Tercas a circa 2 miliardi. Dei 220 milioni di bond subordinati finiti anche ai piccoli consumatori (come scrive Bankitalia), ben 213 sono stati utilizzati per coprire la spesa destinata all'acquisizione di Tercas. Il decreto di domenica, tra le altre cose, vuole evitare che gli obbligazionisti vengano sbancati. Figuriamoci che accadrebbe in caso contrario, e se qualcuno volesse dimostrare che alla fine Bankitalia è stata rimborsata e i cittadini comuni no.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/bankitalia-lo-scrive-bruxelles-tiene-in-ostaggio-pop-bari-ma-pure-visco-ha-delle-colpe-2641609601.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="intanto-i-giallorossi-si-scannano-per-le-poltrone-di-palazzo-koch" data-post-id="2641609601" data-published-at="1765954386" data-use-pagination="False"> Intanto i giallorossi si scannano per le poltrone di Palazzo Koch Ansa «La nomina di Antonio Blandini a Commissario della Popolare di Bari ha provocato una forte irritazione tra i 5 Stelle. Bankitalia ha, infatti, scelto come commissario, a Bari, il professore universitario che, in passato, era stato indicato dalla stessa autorità di vigilanza come membro del comitato di sorveglianza nel commissariamento di Tercas. Ci si chiede come Blandini possa valutare, con oggettività, i problemi arrecati ai conti della BpB dalla fusione con Tercas e possa esprimere una valutazione oggettiva su una eventuale sottovalutazione delle sofferenze della banca abruzzese al momento della fusione con Bari». È la velina diffusa ieri dai vertici del Movimento, che ha deciso di attaccare frontalmente il numero uno di Via Nazionale, Ignazio Visco. A differenza del Pd, che su questa vicenda vuole stare coperto e allineato (visto gli storici interessi dei Ds di Massimo D'Alema nell'area), e di Italia viva che pattina sul ghiaccio (visto le scivolate di Boschi & C. su Etruria), il Movimento di Di Maio può permettersi di sbandierare la solita avversione verso banchieri e regolatori. D'altronde tutti precedenti crac sembrano non aver insegnato nulla. E nessuno sembra intenzionato a riformare una volta per tutte la governance di Palazzo Koch. Nessuno sembra dell'idea di separare l'attività di vigilanza da quella di risoluzione. Finché si mantiene questa commistione di poteri, c'è il rischio concreto che gli effetti che abbiamo sotto gli occhi si ripetano in continuo: crisi protratte nel tempo, tendenza a provare a coprire in sede di risoluzione errori commessi in sede di vigilanza e magari tendenza a far sposare «due zoppi», come si suol dire. Eppur eil tema caldo viene solo scalfito dai partiti. Ieri Anche Matteo Renzi è intervenuto sostenendo che Italia viva è più responsabile del M5s perchè pensa al bene dei risparmiatori. Purtroppo in questo momento le accuse dei partiti a Bankitalia nascondono interessi diversi dalla tutela dei risparmiatori italiani (la ratio del decreto di salvataggio da 900 milioni). Nascondo la partita della poltrone. Mentre infuria la polemica, tra Bankitalia e Palazzo Chigi si ragiona su un dossier altrettanto delicato, quello del risiko imminente delle nomine proprio di via Nazionale. Se ne era parlato già all'inizio dell'anno, dopo le tensioni sulla precedente manovra quando si era capito che Fabio Panetta, attuale dg, avrebbe fatto il salto nel consiglio direttivo della Banca centrale europea (Bce). A gennaio ci sarà il passaggio formale. Per questo motivo da mesi il governatore Visco avrebbe incominciato a muovere le sue pedine per formare il nuovo direttorio di Bankitalia, organo di massima importanza. Le critiche sulla gestione del caso Tercas-Popolare di Bari di questi giorni, con le bordate del leader dei 5 Stelle Luigi Di Maio, servono a non trovare la quadra. Per questo la convocazione del consiglio direttivo del 20 dicembre potrebbe slittare, tanto che addetti ai lavori parlano di metà gennaio come orizzonte per la decisione finale. Il nome che circola ormai da mesi è quello di Daniele Franco, attuale vice direttore generale, che dovrebbe essere promosso e prendere le deleghe della presidenza di Ivass, come richiesto da Visco. Il punto è che a liberarsi sarà una casella tutt'ora contesa e che riguarda da vicino anche Palazzo Chigi. Il posto vacante del direttorio dovrebbe andare a Piero Cipollone, nel settembre 2018 nominato consigliere economico (a titolo gratuito) del presidente del Consiglio, ma nominato a ottobre di quest'anno, con un blitz di Visco, funzionario generale con l'incarico di «alta consulenza al direttorio» di Banca d'Italia. Cipollone è molto richiesto. Ha gestito quando era a Chigi il dossier Carige, e in questi mesi è stato spesso l'interlocutore di Conte con gli investitori. A quanto apprende La Verità il premier lo vorrebbe ancora nella sua squadra, anche perché proprio Cipollone ha saputo gestire in questi mesi soprattutto i rapporti con la Commissione europea, interloquendo spesso con l'ex presidente Jean-Claude Juncker. Non a caso, oltre al suo nome circola quello di Eugenio Gaiotti, capo del dipartimento Economia e Statistica. Dopo aver formato il nuovo direttorio bisognerà affidare le deleghe. Luigi Federico Signorini, che a febbraio rischiò di non essere riconfermato per gli attacchi concentrici di Lega e 5 stelle, avrà con tutta probabilità quella sui conti pubblici. Mentre quelle di Franco sul bilancio e banconote dovrebbero finire ai due che si contendono il posto nel direttorio, Cipollone o Gaiotti. Alessandra Perrazzelli, che è anche nel membro del direttorio su Ivass, si troverà quasi sicuramente la delega alla vigilanza. Più i 5 stelle insistono nel mettere in difficoltà Visco, più immaginano di aver la possibilità di infilare qualche nome gradito al giro della Casaleggio. Difficile che avvenga. Lo si evince anche dalla forza con cui ieri Bankitalia ha risposto alla minaccia di Di Maio di avviare una nuova commissione d'inchiesta sulle banche. «Oggi viviamo in un clima difficile», ha avvertito il governatore presentando il docufilm sul caso Ambrosoli, «la situazione economica non è favorevole, si è spesso alla ricerca di illusori capri espiatori e ne emergono sentimenti di odio e modelli negativi». Il riferimento alla Pop Bari era molto chiaro.
Mohamed Shahin (Ansa)
Lo scorso 24 novembre, il Viminale aveva disposto l’espulsione dell’imam, denunciandone il «ruolo di rilievo in ambienti dell’islam radicale, incompatibile con i principi democratici e con i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano» e definendolo «messaggero di un’ideologia fondamentalista e antisemita», oltre che «responsabile di comportamenti che costituiscono una minaccia concreta attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Il ministero dell’Interno si era mosso dopo che Shahin, alla manifestazione pro Pal del 9 ottobre, si era dichiarato «d’accordo» con le stragi del 7 ottobre 2023, da lui definite una «reazione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi». Parole che, a giudizio della Procura torinese, rappresentano l’«espressione di un pensiero che non integra gli estremi di reato».
Lunedì, il verdetto che lo ha liberato dal Cpr siciliano - l’uomo è stato trasferito in una località segreta del Nord - è stato accompagnato da una polemica sul suo dossier, reso top secret dal dicastero. Ciò non ha impedito ai giudici di «prendere atto» di «elementi nuovi», rispetto a quelli disponibili alla convalida del trattenimento. Tra essi, l’immediata archiviazione del procedimento per le frasi sugli attacchi di Hamas. Inoltre, per le toghe, pur avendo partecipato a un blocco stradale, il 17 maggio scorso, nel comportamento dell’imam non si ravvisava alcun «fattore peculiare indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità». E i suoi «contatti con soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo», recitava la nota della Corte, «sono isolati e decisamente datati», «ampiamente spiegati e giustificati». Un cittadino modello.
In realtà, scavando, si appura che i controversi legami di Shahin, ancorché «datati» e «giustificati», sono comunque inquietanti. Secondo quanto risulta alla Verità, nel 2012, quest’individuo bene «integrato» sarebbe stato fermato dalla polizia di Imperia assieme a Giuliano Ibrahim Delnevo. Chi era costui? Uno studente genovese di 23 anni, convertito all’islam e ucciso nel 2013 in Siria, dove stava combattendo con i ribelli di Al Nusra, affiliata ad Al Qaida. Sempre nel 2012, l’imam fu immortalato nella foto che pubblichiamo qui accanto, al fianco di Robert «Musa» Cerantonio, il «jihadista più famoso d’Australia» - in Australia si è appena consumata la mattanza di ebrei - condannato nel 2019. Cerantonio fu ripreso anche davanti a San Pietro con la bandiera nera dell’Isis. Minacciò: «Distruggeremo il Vaticano». Cinque anni più tardi, nell’ambito delle indagini su un musulmano radicalizzato a Torino, Halili Elmahdi, sarebbe stata registrata una conversazione nella quale il sospettato consigliava a un’altra persona di rivolgersi a Shahin. Intendiamoci: Halili Elmahdi era considerato il «filosofo dell’Isis» ed evocava il «martirio» e la «guerra santa» come unica via per «i buoni musulmani». Se i contatti di Shahin sono datati, forse c’è una ragione che non ha per forza a che fare con la svolta moderata dell’imam di Torino: Delnevo è morto 12 anni fa; Elmahdi è rimasto in carcere fino al 2023.
Ieri, a 4 di sera su Rete 4, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, caustico verso certe sentenze «fantasiose», frutto di un «condizionamento ideologico», ha confermato i «segnali di vicinanza di Shahin a soggetti pericolosi», andati «a combattere in scenari di guerra come quello della Siria». Era il caso di Delnevo, appunto. Alla domanda se l’imam fosse pericoloso, Piantedosi ha risposto che «lo era per gli analisti, per gli operatori, per le cose che avevamo agli atti». Non per i giudici. La cui decisione «ci amareggia, perché vanifica il lavoro che c’è dietro, degli operatori di polizia che finora hanno tenuto immune il nostro Paese dagli attentati terroristici».
È questo il nocciolo della questione. Giorgia Meloni, lunedì, ha usato toni durissimi: «Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani», ha tuonato, «se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». Nell’esecutivo serpeggia autentica preoccupazione. La Verità ha appreso che, da quando a Palazzo Chigi si è insediata la Meloni, sono stati espulsi dall’Italia ben 215 islamici radicalizzati. In pratica, uno ogni cinque giorni. È questa vigilanza, associata al lavoro di intelligence, che finora ha preservato il nostro Paese. La magistratura applica le norme, bilanciando gli interessi legittimi. Ed è indipendente. Ma sarebbe bene collaborasse a tutelare l’incolumità della gente comune. Ad andare troppo per il sottile, si rischia di finire come il Regno Unito, dove i tribunali islamici amministrano una giustizia parallela, basata sul Corano. Per adesso, lo spirito è un altro: l’Anm del Piemonte si è preoccupata solo delle «esternazioni di alcuni membri del governo» e dell’«attività di dossieraggio riscontrata anche nell’ambito di plurimi social network» sui giudici che hanno liberato il predicatore, ai quali l’associazione ha manifestato «piena e incondizionata solidarietà».
Ieri sera, l’imam di Torino ha auspicato di poter «portare avanti quel progetto di integrazione e inclusione, di condivisione di valori positivi e di vita pacifica, di fede e di dialogo, intrapreso tanti anni fa». Ma per lui, la partita giudiziaria non è chiusa. Il Viminale ha annunciato ricorso contro la liberazione dal Cpr. Lunedì ci sarà un’udienza al Tar del Lazio sull’annullamento del decreto di espulsione di Piantedosi. Gli avvocati di Shahin hanno impugnato anche la revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo davanti al Tar del Piemonte; se ne riparlerà a gennaio. Infine, c’è la richiesta di protezione internazionale avanzata dall’imam. La Commissione territoriale di Siracusa l’aveva respinta, ma il tribunale di Caltanissetta ha sospeso il pronunciamento alla luce dalla «complessità della vicenda in esame». Un bel paradosso: dovremmo dare asilo a uno che officia i matrimoni plurimi? Altro che pro Pal: in piazza ci vorrebbero le femministe.
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Lasciando perdere il periodo della pandemia, credo che sia sufficiente prendere i dati economici conseguiti dal nostro Paese. Secondo le previsioni, l’arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni, cioè di una populista in camicia nera, avrebbe contribuito a scassare i conti pubblici e a farci perdere quel briciolo di rispetto che era stato conquistato con Mario Draghi alla guida del governo. Invece niente di tutto questo è accaduto. In tre anni sono stati smantellati il reddito di cittadinanza e il Superbonus, dando garanzia ai mercati sul contenimento del deficit sotto il 3 per cento. I poveri non sono aumentati, come invece sosteneva l’opposizione e prima ancora qualche professore. Né sono crollate le imprese edili. I salari sono saliti e, anche se non hanno recuperato il gap degli anni precedenti, quanto meno sono stati al passo con l’inflazione dell’ultimo triennio. Quanto all’occupazione il saldo è positivo, come da tempo non si vedeva. Per non parlare poi dei dazi, di cui la sinistra unita ai suoi trombettieri quotidiani attribuiva la responsabilità indiretta all’attuale maggioranza, giudicata troppo trumpiana. Nonostante l’aumento delle tariffe, l’export delle nostre imprese verso gli Stati Uniti è andato addirittura meglio che in passato.
I centri per il trattenimento e il rimpatrio in Albania, tanto criticati dai compagni e dalla stampa e osteggiati in ogni modo dalla magistratura, dopo oltre un anno di pregiudizi ora sono ritenuti una soluzione possibile se non auspicabile addirittura dal Consiglio d’Europa.
Ma il meglio la classe politica e quella giornalistica l’hanno dato con la guerra in Ucraina. Per anni ci sono state raccontate un cumulo di fesserie, sia sull’efficacia delle sanzioni messe in campo contro la Russia (ricordate la famosa atomica finanziaria, ossia l’esclusione della banche russe dal circuito delle transazioni internazionali, che avrebbe dovuto mettere Putin con le spalle al muro in un amen?) sia sugli armamenti decisivi del conflitto che America ed Europa avrebbero potuto mettere a disposizione di Kiev. Per non dire poi delle iniziative Ue, con i volenterosi a spacciare patacche per soluzioni. Anche in questo caso l’Italia era descritta come una Cenerentola, tenuta ai margini delle iniziative concordate da quei due fulmini di guerra di Keir Starmer e Emmanuel Macron: fosse per loro, e per i giornalisti che gli hanno dato credito, la tregua forse si raggiungerebbe nel secolo prossimo venturo. Tralascio quelli che spingevano per il riconoscimento della Palestina, invitando a seguire l’esempio di Francia e Spagna: come si è visto, le varie dichiarazioni non sono servite a nulla e l’unica speranza per Gaza era e resta il piano di Trump.
Che dire? Se i giornaloni volessero riconoscere di aver scritto una montagna di sciocchezze andremmo avanti per settimane. Ma state tranquilli, nemmeno questa volta ammetteranno gli errori. Sono giornalisti con l’eskimo, mica cretini.
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Roberto Gualtieri (Ansa)
Già da circa un anno il deflusso dei visitatori è contingentato, con un tetto massimo di 400 persone che possono sostare nell’area. Ma dal nuovo anno la novità sembrerebbe essere tutta nelle code: due corsie separate, una per i romani e l’altra per i turisti che dovranno pagare il ticket.
La scelta, voluta dall’assessore al Turismo e grandi eventi Alessandro Onorato e condivisa dall’amministrazione comunale guidata dal sindaco Roberto Gualtieri, va nella direzione di salvaguardare la fontana più grande di Roma, capolavoro tardo-barocco di Nicola Salvi. I numeri, del resto, parlano chiaro: soltanto nei primi sei mesi di quest’anno la Fontana di Trevi ha registrato oltre 5,3 milioni di visitatori, più di quanti ne ha totalizzati il Pantheon nell’intero 2024 (4.086.947 ingressi).
Ma la decisione sembrerebbe non essere ancora ufficiale. «Si tratta solo di una ipotesi di lavoro», precisa il Campidoglio in una nota, «su cui l’amministrazione capitolina, come è noto, sta ragionando da tempo. Tuttavia, ad oggi, non sono state decise date, né sono state prese decisioni in merito».
Nonostante questo, già insorgono voci contro il ticket per i turisti. «Siamo da sempre contrari alla monetizzazione di monumenti, piazze, fontane e siti di interesse storico e culturale, e crediamo che istituire biglietti di ingresso a pagamento sia un danno per i turisti», tuona il Codacons, «i soldi raccolti non vengono utilizzati per migliorare i servizi all’utenza ma solo per coprire i buchi di bilancio». L’associazione dei consumatori, pur opponendosi al ticket, sostiene gli ingressi contingentati.
Ancora più duro il vicepresidente del Senato e responsabile Turismo della Lega, Gian Marco Centinaio: «Il Comune di Roma non può impedire la libera circolazione dei turisti su uno spazio pubblico. È come fare uscire Fontana di Trevi dall’Unione europea». Secondo Centinaio, «Gualtieri e Onorato vogliono solo fare cassa a scapito di chi viene a visitare la Capitale».
Che ci sia bisogno di una regolamentazione dei flussi turistici per evitare sovraffollamenti è fuori discussione. Ma la sensazione è che l’amministrazione capitolina, dopo aver incassato per anni le monetine che i turisti lanciano nella fontana (tradizione che vale circa 1,5 milioni di euro annui devoluti alla Caritas), ora voglia tassare anche l’ingresso.
Se l’ipotesi diventasse realtà, il turista del futuro pagherebbe 2 euro per entrare, poi lancerebbe la sua monetina per tornare a Roma, spendendo di fatto 3 euro per un solo desiderio. Una sorta di tassa anticipata sul gesto più iconico della Capitale. Del resto, perché aspettare che i visitatori lancino spontaneamente le monete quando si potrebbe riscuotere subito alla porta? L’amministrazione Gualtieri avrebbe semplicemente tagliato i tempi: il Comune incasserebbe prima, la Caritas dopo. Il turista, nel frattempo, girerebbe le spalle alla fontana e lancerebbe la sua moneta, ignaro di averla già praticamente pagata al botteghino. Magari con carta di credito e scontrino fiscale. La leggenda dice che chi lancia una moneta nella Fontana di Trevi tornerà a Roma. E probabilmente è vero: per vedere cos’altro sia diventato a pagamento nel frattempo.
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Keir Starmer (Ansa)
Le roboanti promesse di porre un argine all’illegalità diffusa, ovviamente, sono rimaste lettera morta. Eppure, non tutto è perduto. Per dare un segnale forte ai cittadini, l’esecutivo laburista ha avuto un’idea geniale: elaborare una nuova definizione di «odio anti musulmano». Pochi giorni dopo l’efferata strage di matrice islamista a Sydney, infatti, la Bbc ha reso noto che il lungo lavoro del ministero per le Comunità e gli enti locali ha partorito una bozza quasi ufficiale. Stando al documento, divulgato in anteprima dall’emittente britannica, ecco la nuova definizione di islamofobia: «L’ostilità anti musulmana è il compimento o l’incitamento ad atti criminali, compresi atti di violenza, vandalismo contro la proprietà, molestie e intimidazioni - fisiche, verbali, scritte o veicolate elettronicamente - dirette contro i musulmani o contro persone percepite come musulmane a causa della loro religione, etnia o aspetto». In tale fattispecie, «rientrano inoltre l’uso di stereotipi pregiudiziali e la “razzializzazione” dei musulmani come gruppo collettivo dotato di caratteristiche prefissate».
Effettivamente, si fa fatica a prendere sul serio un documento del genere: per esempio, che vorrà mai dire «persone percepite come musulmane»? Mistero della fede progressista. Eppure, la gestazione di questa perla di vacuità dialettica ha tenuto impegnata un’intera commissione per la bellezza di quasi un anno: il gruppo di lavoro era stato istituito lo scorso febbraio, con a capo l’ex procuratore generale Dominic Grieve, e i suoi risultati erano stati presentati all’esecutivo in ottobre.
Tra i passaggi più controversi - e futili - c’è anche il riferimento al concetto di «razzializzazione», ennesimo neologismo cacofonico che tanto piace ai sacerdoti del politicamente corretto. Per difendere la scelta, è scesa in campo Shaista Gohir in persona, baronessa di origine pachistana e membro di punta della commissione. Stando alla pasionaria islamica, che siede nella Camera dei Lord, «questa definizione riconosce anche che i musulmani sono spesso presi di mira non solo per le loro convinzioni religiose, ma anche per l’aspetto, la razza, l’etnia o altre caratteristiche», ha spiegato. «L’inclusione del concetto di razzializzazione dà riconoscimento a queste esperienze vissute».
Chiacchiere a parte, occorre specificare che questa definizione di «odio anti musulmano» non avrà valore normativo: non sarà cioè né sancita per legge né giuridicamente vincolante, ma offrirà una formulazione di riferimento che gli enti pubblici potranno adottare. Eppure, è proprio qui che sta la fregatura. Non a caso, contro quest’obbrobrio politicamente corretto si è scagliata con forza la Free speech union, autorevole organizzazione britannica nata nel 2020 per tutelare la libertà d’espressione dai deliri dei questurini progressisti: «Questa definizione è superflua, perché è già un reato incitare all’odio religioso ed è già illegale per datori di lavoro o fornitori di servizi discriminare le persone sulla base della loro religione o delle loro convinzioni», ha tuonato il fondatore e presidente dell’associazione, il lord conservatore Toby Young. «Concedere ai musulmani tutele aggiuntive non estese ad altri», ha aggiunto, «avrà l’effetto di aumentare l’ostilità anti musulmana, anziché ridurla». In effetti, di fronte al fallimento del multiculturalismo reale, i laburisti rispondono con il multiculturalismo lessicale. Non potendo controllare le strade, tentano di controllare il linguaggio. Con il risultato paradossale di rendere ancor più fragile la libertà di parola e ancor più esplosivo il conflitto che fingono di voler disinnescare.
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