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2023-10-02
Comprate e chiuse. Le aziende italiane in mano straniera
Uno stabilimento Marelli Holdings (già Magneti Marelli) controllata da Kkr e recentemente commissariata (Imagoeconomica)
C’è chi parla di benefica attrazione del sistema Italia e chi invece di una vera e propria rapina dei gioielli tecnologici. Sono i due lati della medaglia degli investimenti esteri nel nostro Paese sotto forma di ingressi nel capitale azionario di un’azienda con quote di minoranza o di acquisizioni totali di imprese talvolta in difficoltà finanziarie, ma anche in buona salute, con un know how di assoluta eccellenza. Per molte di queste il destino non è il rilancio ma il saccheggio delle tecnologie e poi la chiusura.
Passata la grande abbuffata dei pezzi da novanta del made in Italy, durante le privatizzazioni, l’interesse degli investitori esteri si è orientato sempre più verso le piccole realtà industriali che operano nell’alta tecnologia, in settori iperspecialistici con grande valore aggiunto. Ha fatto rumore, due anni fa, l’intervento del governo di Mario Draghi per bloccare l’acquisizione del 70% di Lpe, azienda produttrice di chip e semiconduttori per apparecchi digitali, da parte della cinese Shenzhen Investment Holdings, applicando i poteri del Golden Power, il meccanismo che scatta quando acquisizioni o decisioni aziendali sono considerate dannose per la sicurezza nazionale o il tessuto sociale.
L’ultimo report di Infocamere, la società per l’innovazione digitale delle Camere di Commercio, indica che nell’arco di cinque anni, dal 2017 al 2022, le imprese industriali italiane con una presenza straniera sono passate da 4.218 a 5.435. Cioè sono mille in più (+22%). Quelle in cui l’azionista estero ha la maggioranza assoluta sono salite del 26% a 4.043, oltre mille più del 2017. Quindi, complessivamente quelle controllate da soci stranieri sono l’1,9% dall’1,4% in soli cinque anni.
Alla tavola del made in Italy, il commensale più vorace è senza dubbio la Germania che ha il controllo di 520 imprese da 408 nel 2017; segue la Svizzera con 481 aziende da 363 mentre il balzo più significativo l’ha fatto la Gran Bretagna passata da 299 a 401 aziende. Il gruppo Victoria, big nei rivestimenti per pavimenti, ha fatto rotta sul distretto emiliano della ceramica e ha portato in porto un serie di acquisizioni quali Ceramiche Serra, Keradom, Asco, Colli e Vallelunga. La Stelrad che produce termosifoni, ha acquisito la friulana Dl Radiators. Sono presenti nei capitali azionari anche imprese di Francia, Lussemburgo, Stati Uniti, Spagna, Austria e Belgio.
Un altro esempio di acquisizione è quella del gruppo svedese Fagerhult che ha rilevato iGuzzini, gruppo marchigiano celebre per le lampade.
C’è però l’altra faccia della medaglia di tali investimenti. Un’analisi dell’Area studi Mediobanca sulle maggiori imprese manifatturiere, nel periodo 2013-2022 fa emergere che quelle a controllo estero coprono il 52% delle realtà con più di 250 addetti operanti in Italia e il 90% delle sole manifatturiere.
Esaminando i dati ci si accorge che circa la metà delle aziende acquisite da gruppi esteri, dopo alcuni anni o diventano una semplice divisione o addirittura entrano in una sorta di «catena di smontaggio» e alla fine vengono chiuse. È evidente che l’interesse di chi acquisisce non è lo sviluppo quanto impossessarsi di tecnologie e quote di mercato.
Basta guardare alle cronache recenti per rendersi conto che è un fenomeno di ampia portata. Emblematica la vicenda della Magneti Marelli, un’eccellenza italiana, passata al fondo americano Kohlberg Kravis Roberts (Kkr), che ha riunito nella Marelli Holdings le attività di Magneti Marelli e della società giapponese di componenti per auto Calsonic Kansei. A marzo scorso la comunicazione di tagli al personale con uscite incentivate di 400 lavoratori e la riduzione della forza lavoro in Italia sotto le 7.000 unità. La società, dopo aver registrato bilanci in passivo dal 2018 al 2021, è stata posta in amministrazione controllata.
Un altro marchio illustre è la Piaggio Aerospace, produttrice di aerei: passata nel 2014 nelle mani del fondo governativo di Abu Dhabi, Mubadala, che ne aveva acquisto il 75%, ha visto fallire le prospettive di rilancio. Nel 2018, con l’uscita degli arabi, zavorrata da un forte indebitamento, è stata commissariata. Dal 2021 ci sono state due gare per la cessione ma nessuna andata a buon fine. Ora si è alla terza procedura con l’obiettivo di concludere l’operazione entro l’anno. Degli originari 18 soggetti che hanno inviato manifestazioni di interesse, 13 sono stati ammessi alla fase di due diligence, tra cordate cinesi ed europee e fondi americani.
Un esempio di un’acquisizione che non ha portato ad alcun rilancio ma ha abbandonato l’impresa al suo destino, è quello che ha visto protagonista il fondo di Monaco di Baviera, Quantum Capital Partner, per l’operazione Gianetti Ruote, storico gruppo di cerchi per auto di Ceriano Laghetto (Monza) controllato dal 2018. Nel 2021, poche ore dopo la decisione del governo di togliere il blocco ai licenziamenti, deciso durante la pandemia, il fondo tedesco invia una mail ai 152 lavoratori comunicando il loro licenziamento immediato. A ottobre dell’anno scorso la Corte d’appello di Milano ha pronunciato la sua sentenza: per i giudici l’azienda ha messo in atto una condotta antisindacale. Per la Fiom Cgil Brianza, «i risultati aziendali non erano tali da giustificare una decisione di questo tipo, che non prevede neppure un tentativo di vendita o lo spostamento dell’attività nell’altro sito del gruppo a Brescia». A febbraio scorso il Tribunale di Monza ha condannato Gianetti Ruote a pagare un risarcimento di 280.000 euro agli ormai suoi ex lavoratori, per non avere rispettato i tempi fissati dalla legge per la procedura di licenziamento.
Nel 2021 il noto brand delle calzature Sergio Rossi, fondato nel 1951, è stato acquisito dai cinesi di Fosum Fashion a cui fanno già capo Lanvin, Wolford e l’italiana Caruso. Tra le priorità del gruppo cinese c’è la sinergia tra i marchi. La presidente della holding cinese Joann Cheng ha detto di puntare a una maggiore espansione del marchio in Asia, che non a caso è l’area di maggior consumo di beni di lusso al mondo. Bisognerà vedere se Sergio Rossi riuscirà a mantenere la sua unicità o se sarà omologato e diventerà uno dei tanti brand della holding senza peculiarità.
Molte acquisizioni sono effettuate da fondi. La finanza però è focalizzata sui risultati di brevissimo termine, ragiona sui risultati delle trimestrali e spesso spinge le aziende a destinare i guadagni in primo luogo alla distribuzione di dividendi o al riacquisto di azioni proprie per arricchire i soci, a dispetto degli investimenti in ricerca e sviluppo o ai miglioramenti di strutture e condizioni lavorative.
Infocamere: «Giusto aprirsi al mercato, ma il territorio va difeso meglio»
«Per un tessuto produttivo che voglia svilupparsi in chiave globale, l’apertura alle partecipazioni estere è inevitabile». Il presidente di Infocamere, Lorenzo Tagliavanti, guarda alle opportunità delle acquisizioni. «Il nostro Paese ha un grado di integrazione multinazionale inferiore rispetto ai suoi principali partner europei e, nonostante questo, il settore manifatturiero italiano è riuscito a mantenere la leadership in molti mercati mondiali grazie a qualità, innovazione e nuove strategie di collaborazione». Poi sottolinea che «i dati sull’aumento delle partecipazioni estere all’interno delle aziende manifatturiere italiane dimostrano chiaramente l’attrattiva crescente dell’Italia come destinazione per gli investimenti stranieri». Per Tagliavanti «questa fiducia non solo promuove lo sviluppo economico, ma contribuisce anche a una maggiore diversificazione e competitività dell'industria manifatturiera italiana a livello globale». Riconosce anche che lo scenario contiene delle ombre. «Come ogni fenomeno economico va seguito da vicino perché alle opportunità si affiancano sempre rischi, basti pensare ai risvolti sulla proprietà industriale, sulla tenuta dell’occupazione e sugli equilibri dei territori. Soprattutto quando le acquisizioni estere comportano una perdita di controllo delle aziende da parte degli attori locali, è importante garantire che il processo avvenga in modo trasparente, con garanzie di reciprocità e che si tutelino gli interessi nazionali».
Marchi storici. L’odissea di Conbipel dagli Usa al Canada
La vicenda di Conbipel è un caso, tra i più noti, di ripetuti passaggi in mani straniere che non hanno portato al rilancio del marchio prestigioso. Nel 2007 è diventata di proprietà di uno dei più importanti fondi di investimento Usa, la Oaktree Capital Management di Los Angeles. Dopo un periodo di crisi con conseguente robusta ristrutturazione e il tentativo, fallito, di cedere nel 2016 il controllo dell’azienda, Conbipel, nel 2019, ha cambiato di nuovo proprietà con l’acquisizione del 62% di Oaktree dal fondo canadese Brookfield Asset Management. L’operazione è servita per creare uno dei maggiori fondi mondiali di investimenti alternativi. La nuova proprietà annunciava l’intenzione di rilanciare il marchio Conbipel con un piano quinquennale ma nel marzo 2020 la società è costretta a presentare al tribunale di Asti domanda di concordato in bianco. Il tribunale ha nominato un commissario giudiziale per trovare nuovi investitori. A ottobre 2020, dopo che era svanito l’interesse per l’acquisto da parte di una società turca (la Cagla Tekstil), Conbipel, che contava allora in Piemonte 433 dipendenti, è posta in amministrazione straordinaria. Per salvare i posti dei 167 punti vendita in Italia è dovuto intervenire il ministero dello Sviluppo economico. È stata creata una Newco finanziata con 7,8 milioni di euro, di cui 3,8 milioni dal Fondo salva imprese del Mise, gestito da Invitalia, e 4 milioni da Eapparels che fa parte di un gruppo di società con a capo la Grow Capital Global Holdings, operatore di private equity di Singapore. L’operazione è stata possibile in quanto l’impresa, nata nel 1958, è stata riconosciuta dal ministero come marchio d’interesse storico nel settore del tessile.
Il Fondo salva imprese è intervenuto pure nel salvataggio della Conceria del Chienti, Macerata, tra le più antiche d’Italia. L’azienda era passata da un periodo di crisi iniziato 10 anni fa con la richiesta di concordato, seguita nel 2014 dall’ingresso nel capitale di Jihua group, società cinese controllata dal gruppo statale XingXing Cathay international group, con quotazione alla borsa di Shanghai. A fine 2018, però, i nuovi vertici di Jihua group hanno comunicato di voler cessare tutte le loro attività fuori dalla Cina e da qui la liquidazione e la ricerca di nuovi soci.
Il rischio di nuove Parmalat per sfruttare l’«italian sounding»
Il settore agroalimentare è quello che più soffre di acquisizioni straniere. È recente il tentativo della cinese di Syngenta di appropriarsi di Verisem, un’azienda romagnola depositaria di un pezzo del patrimonio genetico nazionale di biodiversità fatto di sementi conservate da generazioni di agricoltori ma che si è scontrato con il muro della Golden Power alzato dal governo Draghi. Il dossier però non è ancora chiuso e si sta combattendo a colpi di ricorsi, finora respinti.
Syngenta però è riuscita a impadronirsi, a fine 2020, di Valagro, un gruppo con sede ad Atessa, leader del mercato dei biostimolanti e delle specialità nutrizionali, con un fatturato di circa 175 milioni di dollari nel 2019. Forte di 40 anni di esperienza, con 8 stabilimenti in tutto il mondo e oltre 700 dipendenti, l’azienda ha una significativa presenza in Europa e Nord America e un’impronta crescente in Asia, inclusa la Cina, e America Latina. Per l’Italia è stata una grande perdita.
«Le acquisizioni sono concentrate su settori specifici in base alla nazionalità. I francesi sono focalizzati sul lattiero caseario, gli spagnoli sull’olio. In un Paese quale l’Italia che tende a esaltare la specificità dei prodotti legati a un territorio, i passaggi di proprietà in cui spesso l’azienda acquisita diventa una succursale, rappresentano uno svuotamento di sostanza del made in Italy», commenta il responsabile economico di Coldiretti, Gianluca Lelli. «Abbiamo già assistito a delocalizzazioni di strutture, di uffici e di siti produttivi che si ripercuotono sull’occupazione e sul territorio» afferma Lelli e ricorda il caso Parmalat «smembrata appena entrata in Lactalis, con gli uffici spostati dalle sera alla mattina». E sottolinea che gli acquirenti giocano molto «sull’italian sounding. Il consumatore continua ad acquistare quel prodotto perché pensa che sia riconducibile a uno specifico territorio italiano, in realtà è realizzato altrove. È un finto made in Italy». Lelli ricorda l’intervento di Coldiretti contro Lactalis, nell’ultimo rinnovo di contratto, perché avevano cercato di inserire dei parametri del latte europeo per definire il prezzo del latto italiano. E poi: «Ho visto il prezzo delle nocciole determinato dalla Borsa di Ankara. Noi abbiamo rigettato questi contratti ma spesso l’esito di una controversia dipende dai rapporti di forza dentro una filiera . Una multinazionale non ha interesse a far crescere i territori ma si sposta dove è più vantaggioso economicamente. In alcuni casi i fondi acquirenti sono controllati da fondi sovrani e allora non c’è partita».
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Negli ultimi 5 anni 1.000 imprese sono passate sotto controllo estero. Di queste, una su due è stata spolpata della propria tecnologia e poi lasciata morire o convertita in semplice filiale.Infocamere: «Giusto aprirsi al mercato, ma il territorio va difeso meglio».Il caso emblematico di Conbipel.Il rischio di nuovi casi come Parmalat, smembrata dopo l'ingresso in Lactalis.Lo speciale contiene quattro articoli.C’è chi parla di benefica attrazione del sistema Italia e chi invece di una vera e propria rapina dei gioielli tecnologici. Sono i due lati della medaglia degli investimenti esteri nel nostro Paese sotto forma di ingressi nel capitale azionario di un’azienda con quote di minoranza o di acquisizioni totali di imprese talvolta in difficoltà finanziarie, ma anche in buona salute, con un know how di assoluta eccellenza. Per molte di queste il destino non è il rilancio ma il saccheggio delle tecnologie e poi la chiusura.Passata la grande abbuffata dei pezzi da novanta del made in Italy, durante le privatizzazioni, l’interesse degli investitori esteri si è orientato sempre più verso le piccole realtà industriali che operano nell’alta tecnologia, in settori iperspecialistici con grande valore aggiunto. Ha fatto rumore, due anni fa, l’intervento del governo di Mario Draghi per bloccare l’acquisizione del 70% di Lpe, azienda produttrice di chip e semiconduttori per apparecchi digitali, da parte della cinese Shenzhen Investment Holdings, applicando i poteri del Golden Power, il meccanismo che scatta quando acquisizioni o decisioni aziendali sono considerate dannose per la sicurezza nazionale o il tessuto sociale. L’ultimo report di Infocamere, la società per l’innovazione digitale delle Camere di Commercio, indica che nell’arco di cinque anni, dal 2017 al 2022, le imprese industriali italiane con una presenza straniera sono passate da 4.218 a 5.435. Cioè sono mille in più (+22%). Quelle in cui l’azionista estero ha la maggioranza assoluta sono salite del 26% a 4.043, oltre mille più del 2017. Quindi, complessivamente quelle controllate da soci stranieri sono l’1,9% dall’1,4% in soli cinque anni.Alla tavola del made in Italy, il commensale più vorace è senza dubbio la Germania che ha il controllo di 520 imprese da 408 nel 2017; segue la Svizzera con 481 aziende da 363 mentre il balzo più significativo l’ha fatto la Gran Bretagna passata da 299 a 401 aziende. Il gruppo Victoria, big nei rivestimenti per pavimenti, ha fatto rotta sul distretto emiliano della ceramica e ha portato in porto un serie di acquisizioni quali Ceramiche Serra, Keradom, Asco, Colli e Vallelunga. La Stelrad che produce termosifoni, ha acquisito la friulana Dl Radiators. Sono presenti nei capitali azionari anche imprese di Francia, Lussemburgo, Stati Uniti, Spagna, Austria e Belgio. Un altro esempio di acquisizione è quella del gruppo svedese Fagerhult che ha rilevato iGuzzini, gruppo marchigiano celebre per le lampade.C’è però l’altra faccia della medaglia di tali investimenti. Un’analisi dell’Area studi Mediobanca sulle maggiori imprese manifatturiere, nel periodo 2013-2022 fa emergere che quelle a controllo estero coprono il 52% delle realtà con più di 250 addetti operanti in Italia e il 90% delle sole manifatturiere.Esaminando i dati ci si accorge che circa la metà delle aziende acquisite da gruppi esteri, dopo alcuni anni o diventano una semplice divisione o addirittura entrano in una sorta di «catena di smontaggio» e alla fine vengono chiuse. È evidente che l’interesse di chi acquisisce non è lo sviluppo quanto impossessarsi di tecnologie e quote di mercato. Basta guardare alle cronache recenti per rendersi conto che è un fenomeno di ampia portata. Emblematica la vicenda della Magneti Marelli, un’eccellenza italiana, passata al fondo americano Kohlberg Kravis Roberts (Kkr), che ha riunito nella Marelli Holdings le attività di Magneti Marelli e della società giapponese di componenti per auto Calsonic Kansei. A marzo scorso la comunicazione di tagli al personale con uscite incentivate di 400 lavoratori e la riduzione della forza lavoro in Italia sotto le 7.000 unità. La società, dopo aver registrato bilanci in passivo dal 2018 al 2021, è stata posta in amministrazione controllata.Un altro marchio illustre è la Piaggio Aerospace, produttrice di aerei: passata nel 2014 nelle mani del fondo governativo di Abu Dhabi, Mubadala, che ne aveva acquisto il 75%, ha visto fallire le prospettive di rilancio. Nel 2018, con l’uscita degli arabi, zavorrata da un forte indebitamento, è stata commissariata. Dal 2021 ci sono state due gare per la cessione ma nessuna andata a buon fine. Ora si è alla terza procedura con l’obiettivo di concludere l’operazione entro l’anno. Degli originari 18 soggetti che hanno inviato manifestazioni di interesse, 13 sono stati ammessi alla fase di due diligence, tra cordate cinesi ed europee e fondi americani. Un esempio di un’acquisizione che non ha portato ad alcun rilancio ma ha abbandonato l’impresa al suo destino, è quello che ha visto protagonista il fondo di Monaco di Baviera, Quantum Capital Partner, per l’operazione Gianetti Ruote, storico gruppo di cerchi per auto di Ceriano Laghetto (Monza) controllato dal 2018. Nel 2021, poche ore dopo la decisione del governo di togliere il blocco ai licenziamenti, deciso durante la pandemia, il fondo tedesco invia una mail ai 152 lavoratori comunicando il loro licenziamento immediato. A ottobre dell’anno scorso la Corte d’appello di Milano ha pronunciato la sua sentenza: per i giudici l’azienda ha messo in atto una condotta antisindacale. Per la Fiom Cgil Brianza, «i risultati aziendali non erano tali da giustificare una decisione di questo tipo, che non prevede neppure un tentativo di vendita o lo spostamento dell’attività nell’altro sito del gruppo a Brescia». A febbraio scorso il Tribunale di Monza ha condannato Gianetti Ruote a pagare un risarcimento di 280.000 euro agli ormai suoi ex lavoratori, per non avere rispettato i tempi fissati dalla legge per la procedura di licenziamento.Nel 2021 il noto brand delle calzature Sergio Rossi, fondato nel 1951, è stato acquisito dai cinesi di Fosum Fashion a cui fanno già capo Lanvin, Wolford e l’italiana Caruso. Tra le priorità del gruppo cinese c’è la sinergia tra i marchi. La presidente della holding cinese Joann Cheng ha detto di puntare a una maggiore espansione del marchio in Asia, che non a caso è l’area di maggior consumo di beni di lusso al mondo. Bisognerà vedere se Sergio Rossi riuscirà a mantenere la sua unicità o se sarà omologato e diventerà uno dei tanti brand della holding senza peculiarità.Molte acquisizioni sono effettuate da fondi. La finanza però è focalizzata sui risultati di brevissimo termine, ragiona sui risultati delle trimestrali e spesso spinge le aziende a destinare i guadagni in primo luogo alla distribuzione di dividendi o al riacquisto di azioni proprie per arricchire i soci, a dispetto degli investimenti in ricerca e sviluppo o ai miglioramenti di strutture e condizioni lavorative.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/aziende-italiane-crisi-stranieri-2665776554.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="infocamere-giusto-aprirsi-al-mercato-ma-il-territorio-va-difeso-meglio" data-post-id="2665776554" data-published-at="1696199677" data-use-pagination="False"> Infocamere: «Giusto aprirsi al mercato, ma il territorio va difeso meglio» «Per un tessuto produttivo che voglia svilupparsi in chiave globale, l’apertura alle partecipazioni estere è inevitabile». Il presidente di Infocamere, Lorenzo Tagliavanti, guarda alle opportunità delle acquisizioni. «Il nostro Paese ha un grado di integrazione multinazionale inferiore rispetto ai suoi principali partner europei e, nonostante questo, il settore manifatturiero italiano è riuscito a mantenere la leadership in molti mercati mondiali grazie a qualità, innovazione e nuove strategie di collaborazione». Poi sottolinea che «i dati sull’aumento delle partecipazioni estere all’interno delle aziende manifatturiere italiane dimostrano chiaramente l’attrattiva crescente dell’Italia come destinazione per gli investimenti stranieri». Per Tagliavanti «questa fiducia non solo promuove lo sviluppo economico, ma contribuisce anche a una maggiore diversificazione e competitività dell'industria manifatturiera italiana a livello globale». Riconosce anche che lo scenario contiene delle ombre. «Come ogni fenomeno economico va seguito da vicino perché alle opportunità si affiancano sempre rischi, basti pensare ai risvolti sulla proprietà industriale, sulla tenuta dell’occupazione e sugli equilibri dei territori. Soprattutto quando le acquisizioni estere comportano una perdita di controllo delle aziende da parte degli attori locali, è importante garantire che il processo avvenga in modo trasparente, con garanzie di reciprocità e che si tutelino gli interessi nazionali». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/aziende-italiane-crisi-stranieri-2665776554.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="marchi-storici-lodissea-di-conbipel-dagli-usa-al-canada" data-post-id="2665776554" data-published-at="1696199677" data-use-pagination="False"> Marchi storici. L’odissea di Conbipel dagli Usa al Canada La vicenda di Conbipel è un caso, tra i più noti, di ripetuti passaggi in mani straniere che non hanno portato al rilancio del marchio prestigioso. Nel 2007 è diventata di proprietà di uno dei più importanti fondi di investimento Usa, la Oaktree Capital Management di Los Angeles. Dopo un periodo di crisi con conseguente robusta ristrutturazione e il tentativo, fallito, di cedere nel 2016 il controllo dell’azienda, Conbipel, nel 2019, ha cambiato di nuovo proprietà con l’acquisizione del 62% di Oaktree dal fondo canadese Brookfield Asset Management. L’operazione è servita per creare uno dei maggiori fondi mondiali di investimenti alternativi. La nuova proprietà annunciava l’intenzione di rilanciare il marchio Conbipel con un piano quinquennale ma nel marzo 2020 la società è costretta a presentare al tribunale di Asti domanda di concordato in bianco. Il tribunale ha nominato un commissario giudiziale per trovare nuovi investitori. A ottobre 2020, dopo che era svanito l’interesse per l’acquisto da parte di una società turca (la Cagla Tekstil), Conbipel, che contava allora in Piemonte 433 dipendenti, è posta in amministrazione straordinaria. Per salvare i posti dei 167 punti vendita in Italia è dovuto intervenire il ministero dello Sviluppo economico. È stata creata una Newco finanziata con 7,8 milioni di euro, di cui 3,8 milioni dal Fondo salva imprese del Mise, gestito da Invitalia, e 4 milioni da Eapparels che fa parte di un gruppo di società con a capo la Grow Capital Global Holdings, operatore di private equity di Singapore. L’operazione è stata possibile in quanto l’impresa, nata nel 1958, è stata riconosciuta dal ministero come marchio d’interesse storico nel settore del tessile. Il Fondo salva imprese è intervenuto pure nel salvataggio della Conceria del Chienti, Macerata, tra le più antiche d’Italia. L’azienda era passata da un periodo di crisi iniziato 10 anni fa con la richiesta di concordato, seguita nel 2014 dall’ingresso nel capitale di Jihua group, società cinese controllata dal gruppo statale XingXing Cathay international group, con quotazione alla borsa di Shanghai. A fine 2018, però, i nuovi vertici di Jihua group hanno comunicato di voler cessare tutte le loro attività fuori dalla Cina e da qui la liquidazione e la ricerca di nuovi soci. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/aziende-italiane-crisi-stranieri-2665776554.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="il-rischio-di-nuove-parmalat-per-sfruttare-l-italian-sounding" data-post-id="2665776554" data-published-at="1696199677" data-use-pagination="False"> Il rischio di nuove Parmalat per sfruttare l’«italian sounding» Il settore agroalimentare è quello che più soffre di acquisizioni straniere. È recente il tentativo della cinese di Syngenta di appropriarsi di Verisem, un’azienda romagnola depositaria di un pezzo del patrimonio genetico nazionale di biodiversità fatto di sementi conservate da generazioni di agricoltori ma che si è scontrato con il muro della Golden Power alzato dal governo Draghi. Il dossier però non è ancora chiuso e si sta combattendo a colpi di ricorsi, finora respinti. Syngenta però è riuscita a impadronirsi, a fine 2020, di Valagro, un gruppo con sede ad Atessa, leader del mercato dei biostimolanti e delle specialità nutrizionali, con un fatturato di circa 175 milioni di dollari nel 2019. Forte di 40 anni di esperienza, con 8 stabilimenti in tutto il mondo e oltre 700 dipendenti, l’azienda ha una significativa presenza in Europa e Nord America e un’impronta crescente in Asia, inclusa la Cina, e America Latina. Per l’Italia è stata una grande perdita. «Le acquisizioni sono concentrate su settori specifici in base alla nazionalità. I francesi sono focalizzati sul lattiero caseario, gli spagnoli sull’olio. In un Paese quale l’Italia che tende a esaltare la specificità dei prodotti legati a un territorio, i passaggi di proprietà in cui spesso l’azienda acquisita diventa una succursale, rappresentano uno svuotamento di sostanza del made in Italy», commenta il responsabile economico di Coldiretti, Gianluca Lelli. «Abbiamo già assistito a delocalizzazioni di strutture, di uffici e di siti produttivi che si ripercuotono sull’occupazione e sul territorio» afferma Lelli e ricorda il caso Parmalat «smembrata appena entrata in Lactalis, con gli uffici spostati dalle sera alla mattina». E sottolinea che gli acquirenti giocano molto «sull’italian sounding. Il consumatore continua ad acquistare quel prodotto perché pensa che sia riconducibile a uno specifico territorio italiano, in realtà è realizzato altrove. È un finto made in Italy». Lelli ricorda l’intervento di Coldiretti contro Lactalis, nell’ultimo rinnovo di contratto, perché avevano cercato di inserire dei parametri del latte europeo per definire il prezzo del latto italiano. E poi: «Ho visto il prezzo delle nocciole determinato dalla Borsa di Ankara. Noi abbiamo rigettato questi contratti ma spesso l’esito di una controversia dipende dai rapporti di forza dentro una filiera . Una multinazionale non ha interesse a far crescere i territori ma si sposta dove è più vantaggioso economicamente. In alcuni casi i fondi acquirenti sono controllati da fondi sovrani e allora non c’è partita».
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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