Quanto costerà il modello Calderoli per le entrate dello Stato? Nella sua fase iniziale qualcosa in più di oggi. Il punto cruciale sono i Lep, i livelli essenziali di prestazione. Che però devono ancora essere definiti.
Quanto costerà il modello Calderoli per le entrate dello Stato? Nella sua fase iniziale qualcosa in più di oggi. Il punto cruciale sono i Lep, i livelli essenziali di prestazione. Che però devono ancora essere definiti.La riforma Calderoli sull’autonomia differenziata è arrivata ieri in Consiglio dei ministri. Una vittoria per molti leghisti come il governatore del Veneto, Luca Zaia, eppure i dettagli di questa legge e la sua applicabilità sembrano essere ancora non molto chiari. Il capitolo soldi sembra essere il più incerto. Sotto la lente di ingrandimento, infatti, ci sono soprattutto i costi che comporterà per le casse dello Stato. Il presidente della Liguria Giovanni Toti ha detto: «L’autonomia non si fa per fare cassa. È possibile che nella sua fase di startup costi qualcosa di più, così come è altrettanto chiaro che ci sarà un fondo perequativo». Il punto rimane sempre quello: quanto costerà alle casse dello Stato? L’articolo 8 dice che da questa riforma «non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». Il professor Dario Stevanato, docente di diritto tributario all’Università di Trieste a La Verità ha detto: «Non è chiaro quali saranno i costi, perché mentre nelle versioni precedenti della proposta si prevedeva l’iniziale riferimento alla spesa storica per poi andare a tendere verso i costi e i fabbisogni standard (che poi è quello che prevede la legge 42/2009 sul federalismo fiscale) adesso nell’ultima bozza non esiste più questo riferimento. L’articolo 8 però dice anche che “sono garantiti l’invarianza finanziaria, per le singole Regioni che non siano parte dell’intesa”. Insomma anche se non si fa più riferimento alla spesa storica, mi pare che la sua presenza sia implicita. Se io devo continuare a dare a tutte le altre Regioni tutto quello che prendono oggi, possiamo chiamarla invarianza finanziaria, invece di spesa storica, ma il concetto è lo stesso». E poi ha aggiunto: «In ogni caso finché non si approveranno i Lep, non si può procedere»Il punto cruciale di questa legge infatti sono proprio i Lep: i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) sono i diritti civili e sociali (ovvero i servizi) che devono essere garantiti in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale. E tutto ruota intorno alla loro definizione. «Penso che non si possa dire né che i Lep comporteranno maggiori spese per lo Stato, né che provocheranno degli squilibri. Al momento questa grande lamentela delle regioni del Sud mi pare poco fondata», conclude Stevanato. Anche il professor Mario Esposito, docente di diritto costituzionale all’Università del Salento è d’accordo sul fatto che debbano essere prima di tutto definiti i Lep: «Finché non si definisce con sufficiente articolazione i livelli essenziali delle prestazioni non ne beneficia neanche l’autonomia. Perché si crea una zona d’ombra d’accavallamento che apre a conflitti. La definizione si deve prestare meno possibile ad equivoci». Ma sull’impianto della legge, Esposito ha una buona opinione: «Questa legge cerca di trovare un punto di equilibrio. Si può dire che il ddl si muove in una logica di adeguatezza alle concrete esigenze delle regioni e di perequazione finanziaria». Le criticità secondo il docente sono dovute soprattutto ad un’errata riforma del Titolo V: «Questa legge di una cosa soffre: del fatto che prende avvio in un impianto costituzionale del titolo quinto che secondo me è sbagliato nella sua struttura. Quindi inevitabilmente eredita i vizi dell’impianto». Concetto simile a quello espresso dal ministro per gli Affari regionali e le autonomie, Roberto Calderoli: «L’autonomia differenziata non l’abbiamo inventata oggi, esiste perché è il contenuto di una riforma targata Pd del 2001. Le materie non le abbiano inventate noi, sono 23 e sono nella Costituzione del governo D’Alema. A chi dice che non vanno bene dico: “Allora prima cambia la Costituzione”«. Le voci che arrivano da chi vorrebbe una riforma più coraggiosa e audace, dicono che senza autonomia fiscale questa legge rischia di essere una scatola vuota, un federalismo incompiuto che potrebbe aumentare il conflitto politico tra Nord e Sud senza accontentare nessuno. I detrattori dell’autonomia sostengono che i servizi resteranno diseguali sul territorio italiano, con le Regioni più ricche che possono garantire una qualità più alta e quelle più povere che restano indietro. Allo stesso tempo per le regioni più ricche non cambia molto perché continueranno a pagare per quelle più povere grazie all’articolo 8 che prevede l’invarianza finanziaria. Il governo si è impegnato a fissare i livelli minimi delle prestazioni entro l’anno, ma la verità è che finché non verranno fissati le Regioni saranno sollevate da obblighi più stringenti e lo Stato potrà evitare di dover fornire più risorse economiche. Facendo una sintesi la riforma sembra aver avviato una strada, così come era stato con la manovra finanziaria, ma senza forzare troppo la mano. I più critici la definiscono, appunto, una scatola vuota. Inevitabilmente il dibattito si sposterà presto sui poteri speciali a Roma Capitale e Calderoli anche su questo si è già espresso: «Sono maturi i tempi per una modifica costituzionale» che consenta che «alla Capitale vengano trasferite almeno le competenze legislative che hanno le Regioni e che possa partecipare all’autonomia differenziata». Poi ha concluso: «Vogliamo una sola Italia in cui i diritti vengono garantiti in tutto il Paese. Questo è il contenuto dell’articolo 1 della legge. L’esistenza di cittadini di serie A e B è una realtà a cui siamo di fronte e non solo la logica Sud e Nord ma ci sono aree marginali, montane, piccole isole. Le difformità sono figlie del centralismo che c’è ora».
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