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2024-12-19
Gli ateniesi «nati dalla terra»: le origini etnocentriche della democrazia antica
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Nel riquadro la copertina del libro «Morire per la libertà. Gli epitaffi ateniesi tra V e VI secolo a.C. (La Rosa editrice). Sullo sfondo un dettaglio di Eretteo nell'Acropoli di Atene (iStock)
Spartani fascisti, ateniesi democratici. Sin dai banchi del liceo, la storia greca ci è arrivata più o meno secondo queste categorie basilari. Da una parte una struttura militare, spietata, in cui la cultura non è onorata in alcun modo, dall’altra una polis in cui filosofi e cittadini coscienziosi si vedono continuamente nell’agorà per discettare del bene comune. Come spesso accade, tuttavia, lo schemino manicheo non regge alla prova di un esame storico più approfondito.
Per avere una idea meno condizionata da stereotipi moderni di quella che doveva essere l’Atene classica bisogna dare un’occhiata a un libro uscito diverso tempo fa: Morire per la libertà. Gli epitaffi ateniesi tra V e IV secolo a.C. (La Rosa editrice), a cura di Francesco Ingravalle. L’epitaphios logos, specialità retorica che la tradizione vuole esclusivamente ateniese, era un’orazione che veniva recitata da un individuo scelto dalla polis, al Ceramico, il cimitero di Atene, di fronte alla stele che si era soliti dedicare alle tombe collettive dei caduti in una battaglia. Ai cittadini che tornavano alla terra si ricordava che quella terra li aveva generati. Era il mito (che con linguaggio moderno definiremmo etnocentrico e xenofobo) dell’autoctonia. Ovvero la credenza che gli ateniesi fossero letteralmente nati dalla terra della loro città.
Nel suo epitaffio per i caduti in difesa dei Corinzi, Lisia spiega che gli antenati degli ateniesi «non abitavano una terra straniera a loro dopo averne cacciato altri ed essersi raccolti da ogni dove, come molti, ma, autoctoni, ebbero la stessa terra come madre patria» (17-18). Così, invece, Demostene parla dei caduti di Cheronea: «La nobile nascita di costoro è riconosciuta da parecchio tempo da tutti gli uomini. Non solo, infatti, è possibile per loro risalire, caso per caso, lungo la linea paterna e dei remoti antenati dal punto di vista naturale, ma perché hanno la patria in comune, tutti sono d’accordo nel sostenere che sono autoctoni. Tra tutti gli uomini essi solo nacquero da essa, la abitarono e la tramandarono ai loro discendenti, sicché si potrebbe giustamente sostenere che coloro che sono emigrati e sono giunti nella città e sono denominati cittadini siano simili ai bambini adottati; questi, invece, sono cittadini della loro terra naturale» (1390, 4). Iperide si limita ad affermare che «parlando degli Ateniesi, la loro autoctonia, la loro comune origine, garantisce l’insuperata bontà della stirpe» (IV, 7).
E, seppur venato di intenti satirici, anche l’epitaffio immaginario riportato da Platone merita di essere menzionato: «La loro buona nascita, anzitutto, derivò dall’origine dei loro antenati che non erano immigrati, né i loro discendenti furono dei meteci nella terra ove sarebbero venuti dal di fuori, ma autoctoni, abitanti e viventi davvero nella loro patria e nutriti non da una matrigna, come gli altri, ma dalla terra madre in cui abitavano e ora giacciono, dopo la morte, nei luoghi familiari in cui essa li generò, li nutrì, li ospitò» (Menesseno, 237 b).
Come si vede, l’autoctonia delinea una sorta di nobiltà di massa, in quanto estende i natali nobili a tutto un popolo di cittadini. È questo il senso della «democrazia ateniese», che pure di tanto in tanto qualcuno tira fuori oggi nell’ambito di discorsi politicamente corretti che avrebbero fatto inorridire i Greci del V secolo a.C. «Si pensi», scrive Francesco Ingravalle nella introduzione, «a come, nell’epitaffio, il mito democratico dell’autoctonia ateniese sia il corrispettivo dell’eugeneia (“nobiltà”) aristocratica: come dall’autoctonia deriva l’arete del demos, così dall’eugeneia deriva la virtù dell’aristocratico. C’è addirittura chi, come Demostene, democratico, non differenzia per nulla autoctonia e eugeneia. L’autoctonia fa degli ateniesi i soli elleni autentici, costituisce il fondamento del loro diritto all’egemonia e spiega l’odio contro i barbari».
È questo mito, quindi, a fondare la democrazia ateniese, che può essere vera democrazia solo se è veramente ateniese, dato che gli ateniesi sono democratici in quanto autoctoni, nati proprio da quella terra: non genericamente gheghenéis, nati dalla terra, ma da un «suolo» straordinario. Solo gli ateniesi, quindi, possiedono l’areté, la virtù politica perfetta, perché l’Attica è la terra dalla quale è nato il loro antenato diretto, il figlio della Parthénos. Ad Atene, è ugualmente il mito dell’autoctonia che giustifica la stretta sulla cittadinanza, voluta dalla legge di Pericle del 451/50, che limitava l’accesso al corpo dei cittadini di pieno diritto ai soli figli di padre e madre ateniese. «Un solo génos», commenta Nicole Loraux, «ma di razza pura. Un génos a misura di città, dal quale tutti i membri ereditano allo stesso titolo la nobiltà propria alle famiglie aristocratiche».
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In certi resoconti storici, l’Atene classica sembra quasi una sede del Pd. La realtà era ben diversa: la capitale ellenica si basava sul mito «politicamente scorretto» dell’autoctonia.Spartani fascisti, ateniesi democratici. Sin dai banchi del liceo, la storia greca ci è arrivata più o meno secondo queste categorie basilari. Da una parte una struttura militare, spietata, in cui la cultura non è onorata in alcun modo, dall’altra una polis in cui filosofi e cittadini coscienziosi si vedono continuamente nell’agorà per discettare del bene comune. Come spesso accade, tuttavia, lo schemino manicheo non regge alla prova di un esame storico più approfondito.Per avere una idea meno condizionata da stereotipi moderni di quella che doveva essere l’Atene classica bisogna dare un’occhiata a un libro uscito diverso tempo fa: Morire per la libertà. Gli epitaffi ateniesi tra V e IV secolo a.C. (La Rosa editrice), a cura di Francesco Ingravalle. L’epitaphios logos, specialità retorica che la tradizione vuole esclusivamente ateniese, era un’orazione che veniva recitata da un individuo scelto dalla polis, al Ceramico, il cimitero di Atene, di fronte alla stele che si era soliti dedicare alle tombe collettive dei caduti in una battaglia. Ai cittadini che tornavano alla terra si ricordava che quella terra li aveva generati. Era il mito (che con linguaggio moderno definiremmo etnocentrico e xenofobo) dell’autoctonia. Ovvero la credenza che gli ateniesi fossero letteralmente nati dalla terra della loro città.Nel suo epitaffio per i caduti in difesa dei Corinzi, Lisia spiega che gli antenati degli ateniesi «non abitavano una terra straniera a loro dopo averne cacciato altri ed essersi raccolti da ogni dove, come molti, ma, autoctoni, ebbero la stessa terra come madre patria» (17-18). Così, invece, Demostene parla dei caduti di Cheronea: «La nobile nascita di costoro è riconosciuta da parecchio tempo da tutti gli uomini. Non solo, infatti, è possibile per loro risalire, caso per caso, lungo la linea paterna e dei remoti antenati dal punto di vista naturale, ma perché hanno la patria in comune, tutti sono d’accordo nel sostenere che sono autoctoni. Tra tutti gli uomini essi solo nacquero da essa, la abitarono e la tramandarono ai loro discendenti, sicché si potrebbe giustamente sostenere che coloro che sono emigrati e sono giunti nella città e sono denominati cittadini siano simili ai bambini adottati; questi, invece, sono cittadini della loro terra naturale» (1390, 4). Iperide si limita ad affermare che «parlando degli Ateniesi, la loro autoctonia, la loro comune origine, garantisce l’insuperata bontà della stirpe» (IV, 7).E, seppur venato di intenti satirici, anche l’epitaffio immaginario riportato da Platone merita di essere menzionato: «La loro buona nascita, anzitutto, derivò dall’origine dei loro antenati che non erano immigrati, né i loro discendenti furono dei meteci nella terra ove sarebbero venuti dal di fuori, ma autoctoni, abitanti e viventi davvero nella loro patria e nutriti non da una matrigna, come gli altri, ma dalla terra madre in cui abitavano e ora giacciono, dopo la morte, nei luoghi familiari in cui essa li generò, li nutrì, li ospitò» (Menesseno, 237 b).Come si vede, l’autoctonia delinea una sorta di nobiltà di massa, in quanto estende i natali nobili a tutto un popolo di cittadini. È questo il senso della «democrazia ateniese», che pure di tanto in tanto qualcuno tira fuori oggi nell’ambito di discorsi politicamente corretti che avrebbero fatto inorridire i Greci del V secolo a.C. «Si pensi», scrive Francesco Ingravalle nella introduzione, «a come, nell’epitaffio, il mito democratico dell’autoctonia ateniese sia il corrispettivo dell’eugeneia (“nobiltà”) aristocratica: come dall’autoctonia deriva l’arete del demos, così dall’eugeneia deriva la virtù dell’aristocratico. C’è addirittura chi, come Demostene, democratico, non differenzia per nulla autoctonia e eugeneia. L’autoctonia fa degli ateniesi i soli elleni autentici, costituisce il fondamento del loro diritto all’egemonia e spiega l’odio contro i barbari».È questo mito, quindi, a fondare la democrazia ateniese, che può essere vera democrazia solo se è veramente ateniese, dato che gli ateniesi sono democratici in quanto autoctoni, nati proprio da quella terra: non genericamente gheghenéis, nati dalla terra, ma da un «suolo» straordinario. Solo gli ateniesi, quindi, possiedono l’areté, la virtù politica perfetta, perché l’Attica è la terra dalla quale è nato il loro antenato diretto, il figlio della Parthénos. Ad Atene, è ugualmente il mito dell’autoctonia che giustifica la stretta sulla cittadinanza, voluta dalla legge di Pericle del 451/50, che limitava l’accesso al corpo dei cittadini di pieno diritto ai soli figli di padre e madre ateniese. «Un solo génos», commenta Nicole Loraux, «ma di razza pura. Un génos a misura di città, dal quale tutti i membri ereditano allo stesso titolo la nobiltà propria alle famiglie aristocratiche».
Sergio Mattarella (Ansa)
Si torna quindi all’originale, fedeli al manoscritto autografo del paroliere, che morì durante l’assedio di Roma per una ferita alla gamba. Lo certifica il documento oggi conservato al Museo del Risorgimento di Torino.
La svolta riguarderà soprattutto le cerimonie militari ufficiali. Lo Stato Maggiore della Difesa, in un documento datato 2 dicembre, ha infatti inviato l’ordine a tutte le forze armate: durante gli eventi istituzionali e le manifestazioni militari nelle quali verrà eseguito l’inno nella versione cantata - che parte con un «Allegro marziale» -, il grido in questione dovrà essere omesso. E viene raccomandata «la scrupolosa osservanza» a tutti i livelli, fino al più piccolo presidio territoriale, dalla Guardia di Finanza all’Esercito. Ovviamente nessuno farà una piega se allo stadio i tifosi o i calciatori della nazionale azzurra (discorso che vale per tutti gli sport) faranno uno strappo alla regola, anche se la strada ormai è tracciata.
Per confermare la bontà della decisione del Colle basta ricordare le indicazioni che il Maestro Riccardo Muti diede ai 3.000 coristi (professionisti e amatori, dai 4 agli 87 anni) radunati a Ravenna lo scorso giugno per l’evento dal titolo agostiniano «Cantare amantis est» (Cantare è proprio di chi ama). Proprio in quell’occasione, come avevamo raccontato su queste pagine, il grande direttore d’orchestra - che da decenni cerca di spazzare via dall’opera italiana le aggiunte postume, gli abbellimenti non richiesti e gli acuti non scritti dagli autori, ripulendo le partiture dalle «bieche prassi erroneamente chiamate tradizioni» - ordinò a un coro neonato ma allo stesso tempo immenso: «Il “sì” finale non si canta, nel manoscritto non c’è».
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Scott Bessent (Ansa)
Partiamo da Washington, dove il Pil non solo non rallenta, ma accelera. Nel terzo trimestre dell’anno, da luglio a settembre, l’economia americana è cresciuta del 4,3%. Non un decimale in più o in meno: un punto pieno sopra le attese, ferme a un modesto 3,3%. Un dato arrivato in ritardo, complice lo stop federale che ha paralizzato le attività pubbliche, ma che ha avuto l’effetto di una doccia fredda per gli analisti più pessimisti. Altro che frenata da dazi: rispetto al secondo trimestre, l’incremento è stato dell’1,1%. Altro che economia sotto anestesia. Una successo che spinge Scott Bessent, segretario del Tesoro, a fare pressioni sulla Fed perché tagli i tassi e riveda al ribasso dal 2% all’1,5% il tetto all’inflazione. Il motore della crescita? I consumi, tanto per cambiare. Gli americani hanno continuato a spendere come se i dazi fossero un concetto astratto da talk show. Nel terzo trimestre i consumi sono saliti del 3,5%, dopo il più 2,5% dei mesi precedenti. A spingere il Pil hanno contribuito anche le esportazioni e la spesa pubblica, in un mix poco ideologico e molto concreto. La morale è semplice: mentre la politica discute, l’economia va avanti. E spesso prende un’altra direzione.
E l’Europa? Doveva essere la prima vittima collaterale della guerra commerciale. Anche qui, però, i numeri si ostinano a non obbedire alle narrazioni. L’Italia, per esempio, a novembre ha visto rafforzarsi il saldo commerciale con i Paesi extra Ue, arrivato a più 6,9 miliardi di euro, contro i 5,3 miliardi dello stesso mese del 2024. Quanto agli Stati Uniti, l’export italiano registra sì un calo, ma limitato: meno 3%. Una flessione che somiglia più a un raffreddore stagionale che a una polmonite da dazi. Non esattamente lo scenario da catastrofe annunciata.
Anche la Bce, che per statuto non indulge in entusiasmi, ha dovuto prendere atto della resilienza dell’economia europea. Le nuove proiezioni parlano di una crescita dell’eurozona all’1,4% nel 2025, in rialzo rispetto all’1,2% stimato a settembre, e dell’1,2% nel 2026, contro l’1,0 precedente. Non è un boom, certo, ma nemmeno il deserto postbellico evocato dai più allarmisti. Soprattutto, è un segnale: l’Europa cresce nonostante tutto, e nonostante tutti. E poi c’è la Cina, che osserva il dibattito globale con il sorriso di chi incassa. Nei primi undici mesi del 2025 Pechino ha messo a segno un surplus commerciale record di oltre 1.000 miliardi di dollari, con esportazioni superiori ai 3.400 miliardi. Altro che isolamento: la fabbrica del mondo continua a macinare numeri, mentre l’Occidente discute se i dazi siano il male assoluto o solo un peccato veniale.
Alla fine, la lezione è sempre la stessa. I dazi fanno rumore, le previsioni pure. Ma l’economia parla a bassa voce e con i numeri. E spesso, come in questo caso, si diverte a smentire chi aveva già scritto il copione del disastro. Le cassandre restano senza applausi. Le statistiche, ancora una volta, si prendono la scena.
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Paolo Barletta, Ceo Arsenale S.p.a. (Ansa)
Il contributo di Simest è pari a 15 milioni e passa dalla Sezione Infrastrutture del Fondo 394/81, plafond in convenzione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, dedicato alle imprese italiane impegnate in grandi commesse estere che valorizzano la filiera nazionale. In termini di struttura, il capitale sociale congiunto copre la componente di rischio industriale, mentre la componente del fondo saudita sostiene la rampa di avvio del progetto, riducendo il fabbisogno di capitale a carico dei partner italiani e rafforzando la bancabilità dell’iniziativa nel Paese ospitante, presentata come modello pubblico-privato nel segmento ferroviario di lusso.
L’intesa è inserita nella collaborazione Italia-Arabia Saudita, richiamando l’apertura della sede Simest a Riyadh e il Memorandum of Understanding tra Cdp, Simest e Jiacc. «Dream of the Desert» è indicato come progetto apripista di un modello pubblico-privato nel trasporto ferroviario di lusso.
«Dream of the Desert è un progetto simbolo per il nostro gruppo e per l’industria ferroviaria internazionale. Valorizza le Pmi italiane e costituisce un caso apripista di partnership pubblico-privata nel settore ferroviario di lusso. L’accordo siglato con Simest e le istituzioni saudite conferma come la collaborazione tra imprese e istituzioni possa creare valore duraturo e promuovere le eccellenze italiane nel mondo», commenta Paolo Barletta, amministratore delegato di Arsenale.
Regina Corradini D’Arienzo, amministratore delegato di Simest, aggiunge: «L’intesa sottoscritta con un primario attore industriale come Arsenale per la realizzazione di un progetto strategico per il Made in Italy, conferma il rafforzamento del ruolo di Simest a sostegno del tessuto produttivo italiano e delle sue filiere. Attraverso la prima operazione realizzata nell’ambito del Plafond di equity del fondo pubblico di Investimenti infrastrutturali», continua la numero uno del gruppo, «Simest interviene direttamente come socio per accrescere la competitività delle nostre imprese impegnate in progetti infrastrutturali ad alto valore aggiunto, favorendo al contempo l’espansione del Made in Italy in mercati strategici ad elevato potenziale di crescita, come quello saudita. Lo strumento, sviluppato da Simest sotto la regia del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e in collaborazione con Cassa depositi e prestiti, si inserisce pienamente nell’azione del Sistema Italia, che, sotto la regia della Farnesina, vede il coinvolgimento di Cdp, Simest, Ice e Sace. Un approccio integrato volto a garantire alle imprese italiane un supporto strutturato e complementare, dall’azione istituzionale a quella finanziaria, per affrontare con efficacia le principali sfide della competitività internazionale».
Sul piano industriale, Arsenale dichiara un treno interamente progettato, prodotto e allestito in Italia: gli hub Cpl (Brindisi) e Standgreen (Bergamo) operano con Cantieri ferroviari italiani (Cfi) come general contractor, coordinando una rete di Pmi (design, meccanica avanzata, ingegneria, lusso e hospitality). Per il committente estero, questa configurazione «turnkey (chiavi in mano, ndr.)» concentra in un unico soggetto il coordinamento di produzione, integrazione e allestimento; per l’ecosistema italiano, sposta volumi e valore aggiunto lungo la catena domestica, fino alla finitura degli interni ad alto contenuto di design.
Il prodotto sarà un treno di ultra lusso con itinerari da uno a due notti: partenza da Riyadh e collegamenti verso destinazioni iconiche del Regno, tra cui Alula (sito Unesco) e Hail, fino al confine con la Giordania. Gli interni sono firmati dall’architetto e interior designer Aline Asmar d’Amman, fondatore dello studio Culture in Architecture. La prima carrozza è stata consegnata a settembre 2025; l’avvio operativo è previsto per fine 2026, con prenotazioni aperte da novembre 2025.
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Matteo Hallissey (Ansa)
Il video è accompagnato da un post: «Abbiamo messo in atto», scrive l’ex perfetto sconosciuto Hallisey, «un flash mob pacifico pro Ucraina all’interno di un convegno filorusso organizzato dall’Anpi all’università Federico II di Napoli. Dopo aver atteso il termine dell’evento con Alessandro Di Battista e il professor D’Orsi e al momento delle domande, decine di studenti e attivisti pro Ucraina di +Europa, Ora!, Radicali, Liberi Oltre, Azione e della comunità ucraina hanno mostrato maglie e bandiere ucraine. È vergognoso che non ci sia stata data la possibilità di fare domande e che l’attivista che stava interloquendo con i relatori sia stato aggredito e spinto da un rappresentante dell’Anpi fino a rompere il microfono. Anch’io sono stato aggredito violentemente», aggiunge il giovane radicale, «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi sulla sua partecipazione alla sfilata di gala di Russia Today a Mosca due mesi fa. Chi rivendica la storia antifascista e partigiana non può non condannare queste azioni di fronte a una manifestazione pacifica».
Rivedendo più volte il video al Var, di aggressioni non ne abbiamo viste, a parte come detto qualche spinta, ma va detto pure che quando Hallissey scrive «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi», omette di precisare che quella domanda è stata posta al professore, ma in maniera tutt’altro che pacata: le urla del buon Matteo sono scolpite nel video da lui stesso, ripetiamo, pubblicato. Per quel che riguarda la rottura del microfono, le immagini, viste e riviste non chiariscono se il fallo c’è o no: si vede un giovane attivista che contende un microfono a D’Orsi, ma i frame non permettono di accertare se alla fine si sia rotto o sia rimasto intero.
Quello che è certo è che ieri sono piovuti nelle redazioni i soliti comunicati di solidarietà, non solo da parte di Azione, degli stessi Radicali e di Benedetto Della Vedova, ma anche del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che su X ha vergato un severo post: «Solidarietà a Matteo Hallissey, presidente dei Radicali italiani», ha scritto Bignami, «aggredito a un evento Anpi per aver provato a porre domande in un flash mob pacifico. Da chi ogni giorno impartisce lezioni di democrazia ma reagisce con violenza, non accettiamo lezioni». Non si comprende, come abbiamo detto, dove sia la violenza, perché per una volta bisogna pur mettere da parte il politically correct e l’ipocrisia dilagante e dire le cose come stanno: dal video emerge in maniera cristallina la natura provocatoria del flash mob pro Ucraina, e da quelle urla e da quegli atteggiamenti, per noi che abbiamo purtroppo l’abitudine a pensar male, anche se si fa peccato, fa capolino pure che magari l’obiettivo era proprio quello di scatenare una reazione violenta da parte dei partecipanti al convegno.
Non lo sapremo mai: quello che sappiamo è che i Radicali, sigla che nella politica italiana ha avuto un ruolo di primissimo piano per tante battaglie condotte in primis dal compianto Marco Pannella, sono ormai ridotti a praticare forme di puro macchiettismo politico, pur di ottenere un po’ di visibilità: ricorderete lo show di Riccardo Magi, deputato di +Europa, che vaga nell’aula di Montecitorio vestito da fantasma. A proposito di Magi: il congresso che lo scorso febbraio ha rieletto segretario di +Europa il deputato fantasma è stato caratterizzato da innumerevoli polemiche e altrettante ombre. Poche ore prima della chiusura del tesseramento, il 31 dicembre, dalla provincia di Napoli, in particolare da Giugliano e Afragola, arrivano la bellezza di 1.900 nuovi iscritti, praticamente un terzo dell’intera platea di tesserati, iscritti che poi si traducono in delegati che eleggono i vertici del partito. Una conversione di massa alla causa radicale degli abitanti di questi due popolosi comuni del Napoletano in sostanza stravolge gli equilibri congressuali. Tra accuse e controaccuse, un giovanissimo militante, alla fine dello stesso congresso, sconfigge nella corsa alla presidenza di +Europa uno storico esponente del partito come Benedetto Della Vedova. Si tratta proprio di Matteo Hallissey.
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