2020-05-18
Maurizio Casasco: «Aspirina per le aziende moribonde»
Il presidente di Confapi: «Il decreto Rilancio sarà deludente, il 70% delle piccole e medie imprese non supererà l'estate. Per loro riaprire costa più che rimanere chiusi, ma così si rischia l'evasione da sopravvivenza».«Il decreto Rilancio? Non basta. Molte imprese non supereranno l'estate. Stanno curando il moribondo con l'aspirina. Il governo ha il diritto di fissare le regole, ma poi deve fidarsi degli imprenditori. E le tasse di quest'anno andavano abolite, non rinviate». Maurizio Casasco, presidente della Confederazione italiana della piccola e media industria (Confapi), una rete di 80.000 aziende e 900.000 lavoratori, si rigira tra le mani le proposte che aveva sottoposto al governo: «Quasi nessuna è stata recepita, siamo delusi». Il decreto rilancio conta quasi 500 pagine e stanzia 16 miliardi a sostegno delle imprese. Perché non è soddisfatto? «Non vedo una strategia. Non vedo un piano di sistema, un progetto di sviluppo, una visione di lungo periodo. Si procede a spizzichi e bocconi, continuando a rinviare i problemi. Ci aspettavamo più semplificazione e meno burocrazia». Quindi le famose misure «poderose» ancora non si vedono? «Stiamo navigando nell'emergenza straordinaria con strumenti ordinari. In sostanza ci troviamo davanti il solito Def, con interventi parcellizzati, anche se con una massa di denaro superiore». Dite che la vera priorità resta quella di ridurre le imposte. Però il taglio dell'Irap di 4 miliardi è arrivato, per le imprese fino a 250 milioni di fatturato. Non è sufficiente? «Va bene il taglio, anche perché l'Irap non ci è mai piaciuta. Ma mi chiedo: perché hanno eliminato solo la rata di giugno, e neanche per tutti? Per molte imprese le tasse sono solo rinviate».Cosa si aspettava? «Serviva un intervento di lungo periodo sulla fiscalità, eliminando la tassazione fino alla fine dell'anno. È inutile, ad esempio, sospendere la plastic tax: andava abolita e basta, perché aumenta il costo della materia prima e avvantaggia i concorrenti stranieri». Dunque, con misure di questa portata, per quanto tempo il sistema potrà reggere? «Ben poco, tra poco i soldi finiranno. Le piccole imprese stanno vivendo un dramma senza precedenti: il 70% è in crisi e molte faticheranno a superare l'estate. A settembre molte realtà chiuderanno. Gli ordinativi sono scesi al 30%». Riaprire costa più che restare chiusi?«In questa situazione, gli imprenditori che tirano su la saracinesca devono affrontare grandi costi di riapertura, con i dipendenti che rientrano al lavoro e le spese per l'approvvigionamento delle materie prime. Alla fine molti dovranno scegliere se pagare i dipendenti o le tasse». Addirittura?«E non possiamo poi pensare di fare le grandi battaglie all'evasione, se non ci sono soldi in cassa. Si rischia un'evasione di sopravvivenza». Troppo assistenzialismo, e scarsi stimoli per la crescita? «Eccessivo assistenzialismo, sicuramente. Si continua a non capire che le misure sociali e gli stimoli produttivi devono viaggiare insieme, in equilibrio. Se riparte la produzione e il fatturato, aumentano gli introiti fiscali per finanziare il sistema sociale. Lo sa qual è il vero problema di questa manovra?».Quale? «Manca la fiducia negli imprenditori. Lo Stato non si fida degli imprenditori. Anziché far slittare le scadenze fiscali, il governo avrebbe potuto rivolgersi al sistema produttivo dicendo semplicemente una cosa: per il 2020 non si pagano le tasse, diamo fiducia alle imprese come motore della ripresa. Un messaggio chiaro avrebbe avuto effetti positivi immediati. Pur senza liquidità, chi guida l'azienda avrebbe potuto concentrarsi sulla ripartenza degli ordini». Fiducia vuol dire anche disboscare la burocrazia?«Siamo invasi da una valanga di oneri burocratici e scartoffie. Adesso che riaprono anche bar e ristoranti, io spero che lo Stato ci lasci lavorare. Se ci arrivano addosso Asl, guardia di finanza e ispettori del lavoro a controllare il metro di distanza e le mascherine, allora siamo finiti».Ma le regole vanno pur rispettate, no?«Certo, ma una volta fissate, bisogna fidarsi. Basta con le procedure farraginose. Piuttosto, fateci firmare un'autocertificazione, estendiamo questo strumento ove possibile. Poi se uno dichiara il falso è giusto che paghi, anzi, ho proposto di aumentare le sanzioni penali per chi sgarra. Ma l'imprenditore non deve perdere tempo dietro alle pratiche: per quelle ci sono gli impiegati della pubblica amministrazione, il controllo spetta a loro». Anche il tempo è denaro, insomma. «Il principio è semplice: tutto ciò che non è vietato dev'essere permesso. Capisco che la coperta economica è sempre corta, ma qui non si scappa: abbattere la burocrazia e fidarsi delle imprese è un'operazione a costo zero». Perché non c'è fiducia, allora?«Purtroppo scontiamo anche un'impostazione ideologica dietro tutto questo. E non da oggi». Sta pensando anche alla responsabilità penale dell'imprenditore per il contagio dei dipendenti? L'Inail ha scritto una circolare per stabilire che l'infortunio non può essere automaticamente imputato al datore di lavoro. Ma il caso resta aperto, in attesa di ulteriori chiarimenti. «È chiaro che siamo di fronte a un'altra mossa apertamente anti impresa. Come possiamo pensare che se succede qualcosa a un dipendente si va nel penale? Mi preoccupano anche le conseguenze sugli appalti pubblici». Perché i soldi arrivano alle imprese con il contagocce?«Perché le banche, se lo Stato non garantisce i prestiti al 100 per cento, fanno fatica a finanziare le aziende. Confapi ha proposto la creazione di un fondo che possa intervenire nei casi border line, quelli in cui le imprese non riescono ad avere liquidità perché sforano di poco i meriti creditizi. Non parliamo delle aziende decotte, ma di imprese vive che hanno bisogno di sostegno, e oggi si vedono negare i finanziamenti. I modi per far arrivare soldi alle imprese ci sono, basta avere la volontà di applicarli». Per esempio? «Basterebbe trasformare in liquidità i crediti di imposta, che alla fine sono soldi dell'imprenditore, un diritto acquisito. Lo Stato, anziché chiedere all'imprenditore se ha merito creditizio, potrebbe cominciare a dare subito liquidità». A proposito, il decreto stanzia 6 miliardi a fondo perduto per le piccole imprese, a patto però che il fatturato sia calato del 30%. E le aziende che hanno fatturato ma non hanno incassato? «È un bel problema. Occorre trovare il modo di scorporare il fatturato dai soldi effettivamente incassati». È vietato licenziare fino al 17 agosto, ma la cassa integrazione in deroga copre se va bene fino a giugno. Per alcune settimane ci saranno imprese che non potranno pagare i dipendenti? «Purtroppo ci sono molte imprese che i soldi della cassa integrazione non li hanno mai visti. Per questo insisto: sospendiamo almeno le tasse». Con il fondo «Patrimonio Rilancio», intorno ai 50 miliardi, la Cassa depositi e prestiti potrà ricapitalizzare le aziende in difficoltà. C'è chi teme il ritorno dello Stato imprenditore, con il rischio di far risorgere dinosauri come le Partecipazioni statali o la vecchia Iri. Teme questo scenario?«Lo Stato liberale deve limitarsi a finanziare, non partecipare alle società. Nel 2009 Giulio Tremonti ha reso la Cassa depositi e prestiti una banca indipendente, sottraendola al controllo politico. Adesso, senza i vincoli europei, sarebbe come avere una Ferrari per il rilancio delle imprese, un po' come avviene in Germania». Invece si rischia il poltronificio?«Invece si passa attraverso la Sace sulla base di logiche politiche, difatti su questo c'è stata una grande battaglia tra Pd e cinque stelle. Evidentemente la Cdp era considerata troppo indipendente». Dunque quale strada dovrebbero imboccare gli investimenti pubblici? «Serve certamente un grande “new deal". Si poteva sospendere per sei mesi il codice degli appalti, facendo riferimento direttamente al Codice europeo. Questo al fine di incentivare non solo le grandi opere pubbliche, che spesso sfociano in opere incompiute e fallimenti di aziende, ma anche le piccole. Mi aspetto che il governo investa anche sulle realtà dell'edilizia locale: scuole, strade, marciapiedi. Sui piccoli appalti si evita l'infiltrazione mafiosa e lo spostamento dei lavoratori, e si procurerebbero commesse alle aziende del territorio».
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
Continua a leggereRiduci