2023-07-03
Arrestati i re della bresaola in Spagna per aggressione sessuale e abusi contro i lavoratori
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La produzione delle Bresalepini in Valtellina
Mario e Piero Pini sono finiti in carcere dopo una denuncia. Amco, società del Mef, aveva scelto la loro azienda leader nella produzione di insaccati come partner nel salvataggio del gruppo alimentare Ferrarini. «I signori Pini respingono con forza le accuse e hanno fornito diversi mezzi di prova che chiariranno l’irrealtà e l’incoerenza dei fatti denunciati. Hanno piena fiducia che si faccia rapidamente chiarezza sul caso», hanno fatto sapere i legali spagnoli degli arrestati.Non terminano mai i problemi intorno al salvataggio del gruppo Ferrarini. Nelle ultime settimane non sono solo cambiati i vertici di Amco, la società del Mef che dovrebbe salvare l’azienda leader nella produzione del prosciutto cotto. Nel fine settimana due membri della famiglia Pini, proprietari dell'azienda di carne Litera Meat de Binéfar del gruppo Pini, gruppo in cordata con Amco per il concordato su Ferrarini, sono finiti in carcere, come presunti autori di un reato di violenza sessuale e presunta commissione di altri possibili reati contro i lavoratori: la denuncia è di una persona che si è presentata alla polizia. Si tratta di Mario e Piero Pini. di 66 e 70 anni, da tempo ai vertici di una delle società leader nella produzione di bresaola nel mondo. Non è la prima volta che il maggiore dei fratelli Pini ha problemi con la giustizia. Prima di stabilirsi in Aragona e aprire Litera Meat, Piero Pini era stato accusato in Polonia e Ungheria di frode fiscale e sottoposto ad un lungo periodo di carcerazione preventiva prima di essere scarcerato. Nel frattempo, chi aveva scelto i Pini come possibili partner di Amco per il salvataggio di Ferrarini, non c’è più. Marina Natale, infatti, non è più amministratore delegato della società del Mef specializzata in gestione di crediti deteriorati. L'assemblea di martedì 20 giugno ha nominato il nuovo consiglio di Amministrazione, che passa da 3 a 5: Giuseppe Maresca è il nuovo presidente, Andrea Munari amministratore delegato mentre gli altri consigliere sono Antonella Centra, Ezio Simonelli e Silvia Tossini. La notizia circolava da qualche giorno, ma c’era ancora chi confidava nella permanenza della Natale, ex Unicredit ai tempi di Alessandro Profumo. Al netto delle politiche che il governo Meloni vorrà portare avanti sugli Npl, il ministro del Mimt Adolfo Urso si è molto speso in questi anni sulla questione, bisognerà capire anche cosa succederà alle iniziative che Amco ha portato avanti in questi anni, come per esempio la partecipazione al discusso concordato del gruppo Ferrarini, l’azienda alimentare di Reggio Emilia in crisi finanziaria da oltre 4 anni. Dal 2020, infatti, l’ex amministratore delegato ha continuato a rinnovare la delibera di accordo con il gruppo Pini, produttore di bresaole ma anche chiacchierato macellatore e trader di carni estere, per salvare la società che produce il prosciutto cotto. Ma ora tutto dovrà passare dal consiglio di amministrazione, per di più tenendo conto di quanto successo in questi anni, tra cause dello stesso gruppo Ferrarini contro Amco (che dovrebbe salvarlo), segnalazioni dell’antitrust sui rischi dell’operazione e persino accertamenti della Guardia di finanza. Le ultime notizie segnalano i continui ritardi nei pagamenti ai creditori, ma anche quelli dello stesso gruppo Pini che dovrebbe costruire un nuovo stabilimento entro il prossimo anno. Continua insomma a complicarsi la vicenda del prosciutto Ferrarini, con il Gruppo acquirente Pini che dichiara appunto che costruirà in tempi record “entro il 2024” un nuovo mega stabilimento ma con l’omologa del concordato preventivo seguita già da due pesanti reclami presso la Corte d’appello di Bologna.Nel mirino da un lato la stessa omologa, della quale si chiede l’annullamento per mancanza di fattibilità economica e di motivazioni, dall’altro, col secondo reclamo, la data di avvio dei pagamenti. Si perché su quest’ultimo punto, pagare da oggi o dal 2025, dopo che il Tribunale di Reggio Emilia in sede di omologa aveva indicato la semplice omologa (quindi non definitiva) come condizione di avvio del decorso dei termini per l’esecuzione del concordato e il pagamento dei creditori, nemmeno azienda e Commissario sono riusciti ad andare d’accordo. L’azienda si è infatti affrettata, per il tramite del professore Sido Bonfatti, a presentare Istanza contro la decisione del Tribunale chiedendo di «integrare/correggere/precisare" la decisione di indicare il decorso dei termini concordatari dalla semplice omologa, mentre il Commissario Giudiziale, Bruno Bartoli, nel parere depositato concludeva: »… lo scrivente esprime parere contrario a che il Sig. Giudice delegato / Collegio si esprimano in termini di integrare e/o correggere e/o precisare per come richiesto in istanza …”, richiedendo invece una “interpretazione autentica”. Insomma, un bel pasticcio. Parere, quello del Commissario, di cui peraltro non si trova traccia nel decreto del tribunale, che ha ritenuto di assecondare le richieste dei Pini, e contro cui lo scorso 5 maggio è scattato il Reclamo da parte di Re-New Holding, tra i principali creditori in attesa oramai da oltre 5 anni. Stando al reclamo, per opporsi alla decisione del tribunale, il gruppo Pini avrebbe potuto si impugnare il decreto di omologazione ma avrebbe dovuto farlo anch’esso con un apposito reclamo. Poiché tuttavia in questo caso non è stato fatto, sui termini di scadenza del pagamento dei crediti concordatari dovrebbe essersi formato il giudicato. Al di là di ogni altra questione e decisione pendente nei diversi tribunali coinvolti, i creditori in attesa dal 2018 potrebbero quindi da subito iniziare a vedere restituito parte del loro credito. Dunque questione di non poco conto quella finita oggi sul tavolo della Corte d’appello, e potrebbe arrivare nei prossimi mesi in Cassazione, visto che nel caso di esecuzione del concordato con la semplice omologa, non definitiva, il gruppo Pini dovrebbe finanziare sin da ora Ferrarini non solo per la costruzione del nuovo stabilimento di cui parla da tempo, e di cui tuttavia non si ha ancora traccia, ma anche per far fronte al rimborso dei crediti (privilegiati) col rischio di aver sprecato risorse in caso di annullamento dell'omologa. E infine bisognerà capire cosa deciderà il nuovo consiglio di amministrazione di Amco, socio al 20% del gruppo Pini nell’operazione. Ma soprattutto bisognerà vedere cosa decideranno le autorità spagnole sul destino dei fratelli Pini. «Fin dal primo momento i signori Pini hanno manifestato la piena collaborazione con le autorità spagnole al fine di chiarire i fatti. I signori Pini respingono con forza le accuse e hanno fornito diversi mezzi di prova che chiariranno l’irrealtà e l’incoerenza dei fatti denunciati. Hanno piena fiducia che si faccia rapidamente chiarezza sul caso», hanno fatto sapere i legali spagnoli del Gruppo Pini.
(Guardia di Finanza)
I Comandi Provinciali della Guardia di finanza e dell’Arma dei Carabinieri di Torino hanno sviluppato, con il coordinamento della Procura della Repubblica, una vasta e articolata operazione congiunta, chiamata «Chain smoking», nel settore del contrasto al contrabbando dei tabacchi lavorati e della contraffazione, della riduzione in schiavitù, della tratta di persone e dell’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Le sinergie operative hanno consentito al Nucleo di polizia economico-finanziaria Torino e alla Compagnia Carabinieri di Venaria Reale di individuare sul territorio della città di Torino ed hinterland 5 opifici nascosti, dediti alla produzione illegale di sigarette, e 2 depositi per lo stoccaggio del materiale illecito.
La grande capacità produttiva degli stabilimenti clandestini è dimostrata dai quantitativi di materiali di contrabbando rinvenuti e sottoposti a sequestro: nel complesso più di 230 tonnellate di tabacco lavorato di provenienza extra Ue e circa 22 tonnellate di sigarette, in gran parte già confezionate in pacchetti con i marchi contraffatti di noti brand del settore.
In particolare, i siti produttivi (completi di linee con costosi macchinari, apparati e strumenti tecnologici) e i depositi sequestrati sono stati localizzati nell’area settentrionale del territorio del capoluogo piemontese, nei quartieri di Madonna di Campagna, Barca e Rebaudengo, olre che nei comuni di Caselle Torinese e Venaria Reale.
I siti erano mimetizzati in aree industriali per dissimulare una normale attività d’impresa, ma con l’adozione di molti accorgimenti per svolgere nel massimo riserbo l’illecita produzione di sigarette che avveniva al loro interno.
I militari hanno rilevato la presenza di sofisticate linee produttive, perfettamente funzionanti, con processi automatizzati ad alta velocità per l’assemblaggio delle sigarette e il confezionamento finale dei pacchetti, partendo dal tabacco trinciato e dal materiale accessorio necessario (filtri, cartine, cartoncini per il packaging, ecc.), anch’esso riportante il marchio contraffatto di noti produttori internazionali autorizzati e presente in grandissime quantità presso i siti (sono stati infatti rinvenuti circa 538 milioni di componenti per la realizzazione e il confezionamento delle sigarette recanti marchi contraffatti).
Gli impianti venivano alimentati con gruppi elettrogeni, allo scopo di non rendere rilevabile, dai picchi di consumo dell’energia elettrica, la presenza di macchinari funzionanti a pieno ritmo.
Le finestre che davano verso l’esterno erano state oscurate mentre negli ambienti più interni, illuminati solo artificialmente, erano stati allestiti alloggiamenti per il personale addetto, proveniente da Paesi dell’Est europeo e impiegato in condizioni di sfruttamento e in spregio alle norme di sicurezza.
Si trattava, in tutta evidenza, di un ambiente lavorativo degradante e vessatorio: i lavoratori venivano di fatto rinchiusi nelle fabbriche senza poter avere alcun contatto con l’esterno e costretti a turni massacranti, senza possibilità di riposo e deprivati di ogni forma di tutela.
Dalle perizie disposte su alcune delle linee di assemblaggio e confezionamento dei pacchetti di sigarette è emersa l’intensa attività produttiva realizzata durante il periodo di operatività clandestina. È stato stimato, infatti, che ognuna di esse abbia potuto agevolmente produrre 48 mila pacchetti di sigarette al giorno, da cui un volume immesso sul mercato illegale valutabile (in via del tutto prudenziale) in almeno 35 milioni di pacchetti (corrispondenti a 700 tonnellate di prodotto). Un quantitativo, questo, che può aver fruttato agli organizzatori dell’illecito traffico guadagni stimati in non meno di € 175 milioni. Ciò con una correlativa evasione di accisa sui tabacchi quantificabile in € 112 milioni circa, oltre a IVA per € 28 milioni.
Va inoltre sottolineato come la sinergia istituzionale, dopo l’effettuazione dei sequestri, si sia estesa all’Agenzia delle dogane e dei monopoli (Ufficio dei Monopoli di Torino) nonché al Comando Provinciale del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco di Torino nella fase della gestione del materiale cautelato che, anche grazie alla collaborazione della Città Metropolitana di Torino, è stato già avviato a completa distruzione.
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