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2022-07-26
Armare Kiev è una violazione del Trattato Ue
(Ansa)
È di pochi giorni fa la notizia che i ministri degli Esteri dei Paesi aderenti all’Unione europea hanno deciso un ennesimo invio di armi all’Ucraina, per un importo di circa 500 milioni di euro. L’annuncio è stato dato, con toni trionfalistici degni di miglior causa, da Joseph Borrel, alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la sicurezza, il quale ha affermato che: «L’Ucraina ha bisogno di più armi e noi gliele forniremo e continueremo a sostenerla». La cosa ha avuto scarso risalto nei mezzi di comunicazione, dato che l’opinione pubblica europea si è ormai assuefatta, grazie all’intensa opera di propaganda a senso unico cui è stata sottoposta, all’idea che l’Unione europea debba «fare la sua parte» nel sostenere lo sforzo bellico dell’Ucraina contro la Russia e che questa «parte» debba necessariamente comprendere la fornitura di armi. Non sarebbe stato, infatti, possibile - si è insistentemente e da tutti affermato - che, a fronte dell’aggressione militare subita dall’Ucraina ad opera della Russia, l’Unione europea rimanesse inattiva e indifferente.
Nessuno si è però preoccupato, a quanto sembra, di chiedersi se tra il rimanere inattiva e indifferente ed il partecipare indirettamente alla guerra con l’invio di armi all’Ucraina non vi fosse, per l’Unione europea, una terza alternativa; quella, cioè, della mediazione, che sarebbe stata, anzi, da ritenere l’unica possibile, se si fosse voluto operare - come, in realtà, sarebbe stato doveroso - conformemente a quanto disposto dal Trattato istitutivo della stessa Unione. Questo, infatti, nel dettare le «disposizioni generali sull’azione esterna dell’Unione», indica, all’art. 21, comma II, lett. c), tra i fini di tale azione quello di «preservare la pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza internazionale, conformemente agli obiettivi ed ai principi della Carta delle Nazioni unite nonché ai principia dell’Atto finale di Helsinki e agli obiettivi della Carta di Parigi, compresi quelli relativi alle frontiere esterne».
Ora, non occorre certo essere specialisti in diritto comunitario ed internazionale per rendersi conto che l’invio di armi ad un Paese belligerante, quali che siano le cause per le quali esso si trova in guerra, non risponde in alcun modo alle suddette finalità ma si pone, anzi, con esse in radicale contrasto. Da una tale condotta, infatti, può derivare soltanto un prolungamento della guerra, cui si aggiunge, necessariamente, anche il grave pericolo di una sua estensione. D’altra parte, l’obbligo dell’assistenza militare a carico di tutti gli Stati dell’Unione è previsto, dall’art. 42, comma 7, del Trattato, soltanto per il caso in cui sia stato uno di essi a subire «un’aggressione armata nel suo territorio»; il che non si verifica per l’Ucraina, giacché questa, com’è noto, non fa parte dell’Unione europea.
In realtà, quindi, già all’epoca in cui la guerra non era ancora scoppiata ma se ne avvertiva il pericolo, desumibile dal massiccio concentramento di truppe russe ai confini dell’Ucraina, l’Unione europea, se avesse voluto attenersi ai principi fissati nel Trattato istitutivo, avrebbe dovuto adoperare, magari per vie riservate, tutta la sua possibile influenza per far sì che le parti interessate, ciascuna delle quali portatrice di aspettative ed interessi non palesemente privi di un qualsiasi fondamento, raggiungessero un accordo onorevole che escludesse l’uso della forza. Non è detto che vi sarebbe riuscita, ma per lo meno, provandoci, avrebbe mostrato fedeltà a quei principi che, invece, ha preferito clamorosamente tradire per appiattirsi servilmente sulla posizione americana, dalla quale era più che prevedibile che sarebbe scaturita la decisione della Russia di dar luogo all’intervento militare. Il che non vale, naturalmente, a rendere quest’ultimo giustificato ma vale soltanto a sottrarlo alla sfera dell’astratto e legalistico moralismo per ricondurlo in quella della politica, nella quale più che in ogni altra vale l’aurea massima di Alessandro Manzoni (cap. I dei Promessi sposi), secondo cui: «La ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro».
Ma ancora più grave è il distacco dai principi del Trattato istitutivo che l’Unione europea ha manifestato a guerra ormai scoppiata, schierandosi incondizionatamente con uno dei belligeranti e sostenendolo attivamente con l’aiuto militare, laddove quei principi avrebbero invece imposto la ricerca di ogni possibile e ragionevole soluzione negoziale del conflitto, da proporre anche mediante la prospettazione di vantaggiose contropartite a quella, tra le parti in causa, per le quali la soluzione negoziale potesse apparire più penalizzante. Il risultato è stato quello che l’Europa si è resa totalmente dipendente dalle decisioni di un personaggio quale l’attuale presidente dell’Ucraina, Volodymir Zelensky e, dietro di lui, del presidente Usa Joe Biden, alla volontà del quale si deve far risalire, con ogni evidenza, l’abbandono, da parte del primo, dell’apparente disponibilità al compromesso pubblicamente e reiteratamente manifestata nei primi tempi successivi all’inizio delle ostilità. Per converso, il ruolo di possibile pacificatore è stato assunto, a scorno dell’Europa, da Recep Tayyit Erdogan, presidente della Turchia (che pure fa parte della Nato), il quale da tale assunzione trae visibilità e prestigio internazionale, tanto da far dimenticare la sua - diciamo - non perfetta adesione alle regole basilari della democrazia rappresentativa. Il che non deve né stupire né scandalizzare. Piaccia o non piaccia, la stragrande maggioranza dei comuni cittadini desidera, ben a ragione, la pace e preferisce, quindi, dar credito a un dittatore che operi, o dia la sensazione di operare, in favore della pace piuttosto che a capi democraticamente eletti i quali operino, senza neppure preoccuparsi di nasconderlo, in favore della prosecuzione della guerra.
Proseguono le «purghe» di Zelensky. Ora salta il capo delle forze speciali
Il Donestk continua ad essere l’obiettivo degli attacchi di Mosca che punta a «chiudere la partita» nel Donbass. Otto persone sono rimaste ferite negli attacchi sferrati nella regione e l’avanzata russa prosegue nell’est del Paese. Anche il sud è sotto attacco, in particolare Odessa, ma nonostante questo l’accordo sul grano siglato in Turchia dovrebbe «decollare» da domani. «Ci aspettiamo che l’accordo inizi a funzionare e che venga istituito un centro di coordinamento a Istanbul», ha confermato il ministro ucraino delle Infrastrutture Kubrakov, indicando appunto il 27 luglio come data della svolta.
Il ministro ha affermato che il principale ostacolo alla ripresa dei commerci è il rischio di bombardamenti russi. Mosca assicura invece che le esportazioni riprenderanno e che il raid a Odessa aveva solo obiettivi militari tanto che, a detta del ministro degli Esteri Lavrov, «sono stati distrutti una nave da guerra ucraina e un deposito di missili Harpoon forniti dagli Stati Uniti a Kiev». Viste le incertezze sulla questione, i garanti dell’accordo - la Turchia e le Nazioni Unite - sono stati invitati da Kiev a svolgere il loro ruolo.
Sul punto, Lavrov ha spiegato che sarà una terza parte, insieme a Russia e Turchia, a garantire la sicurezza delle navi. «Secondo l’accordo di Istanbul, l’Ucraina sminerà i porti e lascerà partire le navi, mentre Russia, Turchia e un’altra parte che sarà determinata in seguito, le scorteranno verso il Bosforo», ha dichiarato il ministro russo. Le esportazioni sono ostacolate infatti, tra l’altro, dalla presenza di mine marine, posate dalle forze ucraine come difesa da assalti anfibi. Secondo il ministro ucraino delle infrastrutture Kubrakov, lo sminamento avverrà solo «nel corridoio necessario per le esportazioni».
In ogni caso, a quanto risulta, il porto di Chornomorsk sarà il primo a funzionare per il grano, seguito solo poi dal porto di Odessa e da quello di Pivdenny. Lo scontro tra Mosca e Kiev prosegue anche sul piano delle reciproche accuse di crimini. La Russia ha accusato 92 membri delle forze armate ucraine di crimini contro l’umanità e ha proposto un tribunale internazionale. Alexander Bastrykin, capo della commissione investigativa russa, ha dichiarato che sono state avviate più di 1.300 indagini penali. Bastrykin ha accusato l’Occidente di sponsorizzare il «nazionalismo ucraino», per cui un processo sostenuto dalle Nazioni Unite sarebbe «dubbio».
Di qui, la proposta di coinvolgere Paesi che avrebbero «una posizione indipendente» come Siria, Iran e Bolivia. Il ministero della Difesa russo ha poi lanciato un allarme: l’Ucraina starebbe pianificando «l’uso di agenti tossici nell’impianto di produzione di olio e grasso a Sloviansk, nell’oblast di Donetsk, per fare esplodere i contenitori di esano». Anche l’Ucraina sta esaminando 21.000 crimini di guerra che i russi avrebbero commesso dall’inizio dell’invasione. Mentre si cerca di dipanare l’intricata matassa, il presidente Volodymyr Zelensky appare sempre più solo.
Proprio ieri ha proceduto a ulteriori epurazioni. Stavolta a farne le spese sono stati Ruslan Demchenko, primo segretario del consiglio nazionale di sicurezza e difesa dell’Ucraina e Grygoriy Galagan, sostituito da Viktor Khorenko nel ruolo di comandante delle forze speciali. Proprio sulla crescente debolezza dell’entourage di Zelensky sembra far leva il ministro russo degli Esteri Sergei Lavrov, dichiarando che la Russia «aiuterà il popolo ucraino a sbarazzarsi del regime antipopolare e antistorico di Kiev».
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Il corpus istitutivo dell’Unione prevede, all’articolo 21, l’obiettivo di «preservare la pace e prevenire i conflitti». Inoltre, l’articolo 42 dice chiaramente che l’intervento bellico serve solo in difesa di un Paese membro. Tutto il contrario di quanto sta facendo Bruxelles.Domani potrebbe iniziare a funzionare l’accordo sul grano. Bombe russe sul Donetsk.Lo speciale contiene due articoli. È di pochi giorni fa la notizia che i ministri degli Esteri dei Paesi aderenti all’Unione europea hanno deciso un ennesimo invio di armi all’Ucraina, per un importo di circa 500 milioni di euro. L’annuncio è stato dato, con toni trionfalistici degni di miglior causa, da Joseph Borrel, alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la sicurezza, il quale ha affermato che: «L’Ucraina ha bisogno di più armi e noi gliele forniremo e continueremo a sostenerla». La cosa ha avuto scarso risalto nei mezzi di comunicazione, dato che l’opinione pubblica europea si è ormai assuefatta, grazie all’intensa opera di propaganda a senso unico cui è stata sottoposta, all’idea che l’Unione europea debba «fare la sua parte» nel sostenere lo sforzo bellico dell’Ucraina contro la Russia e che questa «parte» debba necessariamente comprendere la fornitura di armi. Non sarebbe stato, infatti, possibile - si è insistentemente e da tutti affermato - che, a fronte dell’aggressione militare subita dall’Ucraina ad opera della Russia, l’Unione europea rimanesse inattiva e indifferente. Nessuno si è però preoccupato, a quanto sembra, di chiedersi se tra il rimanere inattiva e indifferente ed il partecipare indirettamente alla guerra con l’invio di armi all’Ucraina non vi fosse, per l’Unione europea, una terza alternativa; quella, cioè, della mediazione, che sarebbe stata, anzi, da ritenere l’unica possibile, se si fosse voluto operare - come, in realtà, sarebbe stato doveroso - conformemente a quanto disposto dal Trattato istitutivo della stessa Unione. Questo, infatti, nel dettare le «disposizioni generali sull’azione esterna dell’Unione», indica, all’art. 21, comma II, lett. c), tra i fini di tale azione quello di «preservare la pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza internazionale, conformemente agli obiettivi ed ai principi della Carta delle Nazioni unite nonché ai principia dell’Atto finale di Helsinki e agli obiettivi della Carta di Parigi, compresi quelli relativi alle frontiere esterne». Ora, non occorre certo essere specialisti in diritto comunitario ed internazionale per rendersi conto che l’invio di armi ad un Paese belligerante, quali che siano le cause per le quali esso si trova in guerra, non risponde in alcun modo alle suddette finalità ma si pone, anzi, con esse in radicale contrasto. Da una tale condotta, infatti, può derivare soltanto un prolungamento della guerra, cui si aggiunge, necessariamente, anche il grave pericolo di una sua estensione. D’altra parte, l’obbligo dell’assistenza militare a carico di tutti gli Stati dell’Unione è previsto, dall’art. 42, comma 7, del Trattato, soltanto per il caso in cui sia stato uno di essi a subire «un’aggressione armata nel suo territorio»; il che non si verifica per l’Ucraina, giacché questa, com’è noto, non fa parte dell’Unione europea. In realtà, quindi, già all’epoca in cui la guerra non era ancora scoppiata ma se ne avvertiva il pericolo, desumibile dal massiccio concentramento di truppe russe ai confini dell’Ucraina, l’Unione europea, se avesse voluto attenersi ai principi fissati nel Trattato istitutivo, avrebbe dovuto adoperare, magari per vie riservate, tutta la sua possibile influenza per far sì che le parti interessate, ciascuna delle quali portatrice di aspettative ed interessi non palesemente privi di un qualsiasi fondamento, raggiungessero un accordo onorevole che escludesse l’uso della forza. Non è detto che vi sarebbe riuscita, ma per lo meno, provandoci, avrebbe mostrato fedeltà a quei principi che, invece, ha preferito clamorosamente tradire per appiattirsi servilmente sulla posizione americana, dalla quale era più che prevedibile che sarebbe scaturita la decisione della Russia di dar luogo all’intervento militare. Il che non vale, naturalmente, a rendere quest’ultimo giustificato ma vale soltanto a sottrarlo alla sfera dell’astratto e legalistico moralismo per ricondurlo in quella della politica, nella quale più che in ogni altra vale l’aurea massima di Alessandro Manzoni (cap. I dei Promessi sposi), secondo cui: «La ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro». Ma ancora più grave è il distacco dai principi del Trattato istitutivo che l’Unione europea ha manifestato a guerra ormai scoppiata, schierandosi incondizionatamente con uno dei belligeranti e sostenendolo attivamente con l’aiuto militare, laddove quei principi avrebbero invece imposto la ricerca di ogni possibile e ragionevole soluzione negoziale del conflitto, da proporre anche mediante la prospettazione di vantaggiose contropartite a quella, tra le parti in causa, per le quali la soluzione negoziale potesse apparire più penalizzante. Il risultato è stato quello che l’Europa si è resa totalmente dipendente dalle decisioni di un personaggio quale l’attuale presidente dell’Ucraina, Volodymir Zelensky e, dietro di lui, del presidente Usa Joe Biden, alla volontà del quale si deve far risalire, con ogni evidenza, l’abbandono, da parte del primo, dell’apparente disponibilità al compromesso pubblicamente e reiteratamente manifestata nei primi tempi successivi all’inizio delle ostilità. Per converso, il ruolo di possibile pacificatore è stato assunto, a scorno dell’Europa, da Recep Tayyit Erdogan, presidente della Turchia (che pure fa parte della Nato), il quale da tale assunzione trae visibilità e prestigio internazionale, tanto da far dimenticare la sua - diciamo - non perfetta adesione alle regole basilari della democrazia rappresentativa. Il che non deve né stupire né scandalizzare. Piaccia o non piaccia, la stragrande maggioranza dei comuni cittadini desidera, ben a ragione, la pace e preferisce, quindi, dar credito a un dittatore che operi, o dia la sensazione di operare, in favore della pace piuttosto che a capi democraticamente eletti i quali operino, senza neppure preoccuparsi di nasconderlo, in favore della prosecuzione della guerra. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/armare-kiev-e-una-violazione-del-trattato-ue-2657733556.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="proseguono-le-purghe-di-zelensky-ora-salta-il-capo-delle-forze-speciali" data-post-id="2657733556" data-published-at="1658842424" data-use-pagination="False"> Proseguono le «purghe» di Zelensky. Ora salta il capo delle forze speciali Il Donestk continua ad essere l’obiettivo degli attacchi di Mosca che punta a «chiudere la partita» nel Donbass. Otto persone sono rimaste ferite negli attacchi sferrati nella regione e l’avanzata russa prosegue nell’est del Paese. Anche il sud è sotto attacco, in particolare Odessa, ma nonostante questo l’accordo sul grano siglato in Turchia dovrebbe «decollare» da domani. «Ci aspettiamo che l’accordo inizi a funzionare e che venga istituito un centro di coordinamento a Istanbul», ha confermato il ministro ucraino delle Infrastrutture Kubrakov, indicando appunto il 27 luglio come data della svolta. Il ministro ha affermato che il principale ostacolo alla ripresa dei commerci è il rischio di bombardamenti russi. Mosca assicura invece che le esportazioni riprenderanno e che il raid a Odessa aveva solo obiettivi militari tanto che, a detta del ministro degli Esteri Lavrov, «sono stati distrutti una nave da guerra ucraina e un deposito di missili Harpoon forniti dagli Stati Uniti a Kiev». Viste le incertezze sulla questione, i garanti dell’accordo - la Turchia e le Nazioni Unite - sono stati invitati da Kiev a svolgere il loro ruolo. Sul punto, Lavrov ha spiegato che sarà una terza parte, insieme a Russia e Turchia, a garantire la sicurezza delle navi. «Secondo l’accordo di Istanbul, l’Ucraina sminerà i porti e lascerà partire le navi, mentre Russia, Turchia e un’altra parte che sarà determinata in seguito, le scorteranno verso il Bosforo», ha dichiarato il ministro russo. Le esportazioni sono ostacolate infatti, tra l’altro, dalla presenza di mine marine, posate dalle forze ucraine come difesa da assalti anfibi. Secondo il ministro ucraino delle infrastrutture Kubrakov, lo sminamento avverrà solo «nel corridoio necessario per le esportazioni». In ogni caso, a quanto risulta, il porto di Chornomorsk sarà il primo a funzionare per il grano, seguito solo poi dal porto di Odessa e da quello di Pivdenny. Lo scontro tra Mosca e Kiev prosegue anche sul piano delle reciproche accuse di crimini. La Russia ha accusato 92 membri delle forze armate ucraine di crimini contro l’umanità e ha proposto un tribunale internazionale. Alexander Bastrykin, capo della commissione investigativa russa, ha dichiarato che sono state avviate più di 1.300 indagini penali. Bastrykin ha accusato l’Occidente di sponsorizzare il «nazionalismo ucraino», per cui un processo sostenuto dalle Nazioni Unite sarebbe «dubbio». Di qui, la proposta di coinvolgere Paesi che avrebbero «una posizione indipendente» come Siria, Iran e Bolivia. Il ministero della Difesa russo ha poi lanciato un allarme: l’Ucraina starebbe pianificando «l’uso di agenti tossici nell’impianto di produzione di olio e grasso a Sloviansk, nell’oblast di Donetsk, per fare esplodere i contenitori di esano». Anche l’Ucraina sta esaminando 21.000 crimini di guerra che i russi avrebbero commesso dall’inizio dell’invasione. Mentre si cerca di dipanare l’intricata matassa, il presidente Volodymyr Zelensky appare sempre più solo. Proprio ieri ha proceduto a ulteriori epurazioni. Stavolta a farne le spese sono stati Ruslan Demchenko, primo segretario del consiglio nazionale di sicurezza e difesa dell’Ucraina e Grygoriy Galagan, sostituito da Viktor Khorenko nel ruolo di comandante delle forze speciali. Proprio sulla crescente debolezza dell’entourage di Zelensky sembra far leva il ministro russo degli Esteri Sergei Lavrov, dichiarando che la Russia «aiuterà il popolo ucraino a sbarazzarsi del regime antipopolare e antistorico di Kiev».
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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