
Milano grande favorita. Ci provano il Maurizio Sarri della palla a spicchi, il sergente di ferro, il filosofo, il veterano e le armate del Nordest.Palla a due, sotto il canestro è tornata ad agitarsi la tonnara dei playoff. Con un favorito d'obbligo, la possente Olimpia Milano vestita Giorgio Armani. E cinque storie che danno il senso a un'avventura fatta di uomini, di fatica e di passione.È il derby impossibile, con Milano ci sono 15 milioni di budget di differenza e 32 punti nella prima partita di playoff. Ma quella di Brianza, come canta il refrain, «è gente che non molla mai». Marco Sodini all'inizio si è probabilmente chiesto chi mai glielo avesse fatto fare di allenare proprio qui. Siamo a Cantù, dove Andrea Trinchieri una volta disse: «Qui le Coppe dei Campioni le usano come portapenne». L'ambiente partiva depresso. La gestione di Dimitry Gerasimenko, proprietario della Pallacanestro Cantù dal 2015 e latitante a Cipro (è accusato di avere sottratto denaro alla banca di un amico di Vladimir Putin), non è gradita a molti canturini. Il magnate dell'acciaio ha ridotto all'osso la società e l'ha svuotata di quasi tutta la canturinità, in pratica un'eresia. Ma il dio del basket non ci stava a veder sprofondare un club dal passato così glorioso e ha inviato un uomo in missione, il giovane coach livornese. Sodini, stile Mourinho, isola il gruppo dalle voci esterne e agisce da parafulmine citando Maurits Cornelis Escher e i presocratici. I giocatori stranamente lo ascoltano e la stagione prende quota.Il talento ci sarebbe anche: Christian Burns e Andrea Crosariol sono azzurri, Randy Culpepper è stato miglior marcatore dell'EuroCup nel 2015, Jeremy Chappell ha vinto la coppa di Turchia. La squadra accede alle finali di Coppa Italia e sfida la Milano milionaria. Serve la partita perfetta e ancora una volta il dio del basket si schiera. Diciotto sono i punti di scarto alla fine per Cantù: la differenza tra chi si sbuccia le ginocchia aiutando i compagni e chi dei compagni non ricorda nemmeno il nome. I canturini non vinceranno la coppa, ma quel match lo ricordano tutti. I problemi societari ci sono ancora e la prossima estate sarà cruciale, ma la stagione è da incorniciare.Il rapporto tra Sudamerica e Sud Italia è molto stretto. Manu Ginobili, gigante del basket mondiale, mosse i primi passi su un parquet europeo proprio nel Mezzogiorno, a Reggio Calabria, prima di scrivere la storia della Virtus Bologna e vincere quattro titoli Nba a San Antonio. Ora c'è un altro argentino di nascita che vuole ripercorrerne le orme e imperversa sui campi di tutta Italia con la maglia verde dei lupi di Avellino.Ariel Filloy è nato a Cordoba 31 anni fa da una famiglia di cestisti; suo padre fu nazionale e i suoi tre fratelli giocano. Ariel è un martello. Difesa, palle recuperate, intelligenza cestistica, intensità: valori che non finiscono sul tabellino. L'arma speciale di Filloy è quella che ti fa vincere; quando il risultato è in bilico negli ultimi secondi, lui raramente sbaglia. Prima panchinaro nell'Olimpia Milano, poi tanta gavetta in giro per l'Italia. Di anno in anno Ariel ha continuato ad alzare l'asticella, fino ad essere uno dei migliori con la canotta azzurra agli Europei 2017 e a guadagnarsi la fiducia di un gigante della panchina come Ettore Messina. Dopo avere vinto lo scorso campionato con la Reyer Venezia, ha salutato i suoi ex compagni ed è atterrato in Irpinia, in un club ambizioso con un tecnico geniale come Pino Sacripanti. Ariel è fatto così, gli piacciono le nuove sfide: «Arrivo tardi alla gloria? No, arrivo ora. È andata così e basta».In tutti gli sport esistono due categorie di allenatori, i catenacciari e gli esteti del bel gioco. Se per Maurizio Sarri e il suo modo di far giocare il Napoli si sono spesi fiumi di inchiostro, c'è chi nel mondo della palla a spicchi adotta questa filosofia da anni. La difesa è importante, ma per vincere bisogna segnare un canestro in più degli altri. Quel qualcuno è Romeo Sacchetti, universalmente conosciuto come Meo, pugliese di Altamura. Ricordato con affetto da giocatore a Torino e Varese, con la nazionale ha vinto un argento olimpico (Mosca, 1980) e un europeo (Francia, 1983). Oggi siede in panchina baffuto e bonaccione. Il suo modo di intendere la pallacanestro è semplice: «Bisogna mettere i giocatori in condizione di esprimere il loro talento». Una filosofia che ha funzionato a Sassari, con la trionfale stagione 2014/2015: scudetto, coppa Italia e Supercoppa, un triplete irripetibile. Quest'anno l'ennesimo miracolo. La Vanoli Cremona retrocede in A2 al termine della scorsa stagione e lo storico patron Aldo Vanoli decide di rifondare partendo da Sacchetti, nel doppio ruolo di allenatore di club e della Nazionale. Poi Caserta viene esclusa dalla serie A e la ripescata è proprio Cremona. Meo chiama un paio di suoi pretoriani, i cugini Drake e Travis Diener (quest'ultimo addirittura ritorna a giocare dopo essersi ritirato due anni fa) e pesca il jolly con Darius Johnson-Odom, talentuoso ex-Nba. «Dovevamo fare l'A2, facciamo i playoff», gongola Meo Sacchetti, l'uomo del bel gioco e dei miracoli sportivi.«Io sono duro con me stesso, non capisco perché non dovrei esserlo con gli altri. Pretendo da me, pretendo dagli altri. Se sto da 25 anni in palestra, e ho l'entusiasmo di ricominciare da capo ogni giorno, penso di avere il diritto di chiedere lo stesso impegno a chi lavora con me. È una questione di rispetto».Attilio Caja riassume il suo pensiero senza giri di parole. Nell'ambiente la sua fama di sergente di ferro lo precede, ma sarebbe riduttivo definire l'esperto allenatore pavese solo per questo suo lato caratteriale che inquieta i giocatori più svogliati. Lui sta alla serie A come Mr. Wolf sta a Pulp fiction. «Risolvo problemi», che tradotto in lessico cestistico vuol dire salvare dalla retrocessione squadre in situazioni disperate. Negli ultimi anni ci è riuscito con Cremona e due volte con Varese, sempre subentrando in corsa. Dopo avere rivoltato come un calzino la stagione 2016/2017 dei biancorossi e averli traghettati alla salvezza, la società varesina ha deciso di proseguire con lui e Caja sotto il Sacro Monte si è fermato volentieri. Dopo un inizio stentato, la squadra decolla nel girone di ritorno. Dodici vittorie in 15 partite, i due derby storici contro Milano e Cantù vinti e tre sole sconfitte. Sesto posto e serie di playoff tutta lombarda contro Brescia. Comunque vada, per Caja è un trionfo. «Ho un concetto che mi guida sempre, quello del massimo assoluto e del massimo relativo. Il massimo assoluto è quando vinci, ma a vincere è uno solo e non è mai facile. Il massimo relativo è quando tu hai una squadra da ottavo posto e la porti al sesto» spiega, pensando che questa Varese non era proprio da sesto posto. Questo è Attilio Caja, fresco vincitore del premio di allenatore dell'anno, un po' Mr. Wolf, un po' sergente Hartman, idolo dei tifosi e incubo dei giocatori lazzaroni.Nel maggio del 2006 si disputa l'ultimo match tra Venezia e Trento: si decide chi di queste due squadre salirà in B1 dalla B2. Davanti a 3.200 spettatori, un'enormità considerata la categoria, i lagunari battono i trentini e iniziano la loro scalata alla serie A1. A 11 anni di distanza, il 10 giugno 2017, le protagoniste della sfida sono identiche, Venezia e Trento. Questa volta si giocano qualcosa di più di una semplice promozione, in palio c'è il titolo di campione d'Italia. Quella serie la vince Venezia, il terzo titolo della sua storia.Da una parte una società, Venezia, che dopo periodo d'oro negli anni '70 e '80, con protagonista Drazen Dalipagic, fallì, seppe risorgere e oggi è uno dei migliori in Italia grazie al denaro e alla passione del patron sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro. Dall'altra Trento, squadra giovane, che ha come proprio simbolo un'aquila e un allenatore, Maurizio Buscaglia, il quale già sedeva sulla panchina trentina nella famosa finale del 2006 ed è all'ottavo anno consecutivo da tecnico dello stesso club, una rarità. Il presidente Luigi Longhi si innamorò definitivamente della pallacanestro dopo avere vissuto una notte rock al PalaDesio durante l'avventura di Cantù in Euroleague nel 2012. Venezia e Trento, regine di quel Nordest capace di follie positive anche nello sport, giocano due tipi di basket molto diversi: la prima è squadra di talento e di esperienza, la seconda fonda il suo gioco sulla straripante fisicità.Da queste premesse non poteva che nascere un'accesa rivalità. Anche quest'anno, ai playoff, c'è il rischio che le due squadre si incontrino (Avellino e Cremona permettendo) in semifinale. E allora saranno in tanti a ricordarsi quella partita del 2006 da dove tutto è nato. E da dove, con la passione integra e i conti a posto, hanno cominciato a guardare dritto negli occhi il gigante con le scarpette rosse.
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