2023-05-01
Antonio Rinaldi «Occhio: è in arrivo una Troika al cubo»
Antonio Rinaldi (Imagoeconomica)
Per l’europarlamentare leghista «la riforma del Patto di stabilità fa tornare l’austerity. La Commissione sarà dominus dell’economia, con poteri superiori alla Bce e al Fmi. Il deficit di democrazia sarà gravissimo».Antonio Rinaldi, europarlamentare leghista, la Commissione Europa ha presentato la riforma del Patto di stabilità. Adesso in Europa cambia tutto? «In pratica, tornerà l’austerity. Pensavamo di essere salvi? Ci ricaschiamo dentro, ancora più a fondo. Avevano messo le regole in pausa con il Covid, ma solo per prepararsi a tirare lo schiaffone finale».Come cambieranno i rapporti tra Europa e Stati?«Da questa riforma emergerà una Troika al cubo, con la Commissione che diventerà il “dominus” della politica economica europea, dotandosi di poteri superiori alla Bce e al Fmi. Andremo incontro a un gravissimo deficit di democrazia: i burocrati in mezze maniche si sostituiranno ai governi democraticamente eletti». Andiamo con ordine: cosa non la convince? «A differenza del passato, il nuovo Patto prevede regole “personalizzate” per ogni Paese per i piani di aggiustamento di bilancio. Una camicia di forza su misura. La Commissione avrà dei margini di discrezionalità fortissimi, intaccando irrimediabilmente i principi democratici. E non lo dice solo Rinaldi nel suo piccolo, ma persino Lorenzo Bini Smaghi: siamo condannati al commissariamento. Le elezioni politiche in Italia diventeranno un optional». In pratica, le nuove regole garantiscono a Bruxelles una discrezionalità che sconfinerebbe nell’arbitrio?«Se un Paese non si adegua ai dettami, finirà automaticamente nella procedura di infrazione. Il rientro dal debito costerà dai 7 ai 15 miliardi l’anno, e sarà strettamente monitorato da Bruxelles». Conseguenze? «Per l’Italia significa lacrime e sangue: riduzione della spesa sociale, e addio al taglio delle tasse, anzi ce ne saranno di nuove. E questo proprio nel momento in cui l’economia italiana avrebbe estremo bisogno di essere rilanciata». La «personalizzazione» delle regole di cui parla, non dovrebbe essere un metodo per assecondare le esigenze di ogni singolo Paese? «Se la Commissione si trova davanti un governo nazionale “amico”, si comporterà in un certo modo. Se il governo è “ostile”, adotterà atteggiamenti più duri. Prima le regole, con tutti i difetti, erano perlomeno uguali per tutti. Adesso si schiudono spazi spaventosi per la Commissione. E il Parlamento europeo, unico organismo legittimato democraticamente, viene escluso dall’intero processo. Alla faccia dei padri fondatori del sogno europeo». Varare le manovre diventerà un’operazione sempre più complicata?«Saranno manovre sotto dettatura, con estenuanti negoziati all’ombra del ricatto, perché la procedura d’infrazione scatta anche quando non si firmano le riforme imposte da Bruxelles. E gli eventuali tagli riguarderebbero anche gli investimenti del Pnrr basati sui prestiti europei. Non hanno neanche scorporato gli investimenti “green”, quelli su cui ci fanno la predica quotidiana. In pratica, l’Europa chiede all’Italia di indebitarsi con il Pnrr, e poi con questo Patto di stabilità la punisce se si indebita. Siamo all’assurdo». Adottare il Recovery è stato un errore? «Certo, i soldi che arrivano col Pnrr non sono un regalo, sono debito. Non sono un gentile omaggio concesso a Giuseppe Conte. Compresi i soldi a fondo perduto, che vanno rimborsati con risorse proprie, cioè con nuove tasse. Chiediamoci perché quei denari li abbiamo chiesti solo noi italiani, mentre gli altri Paesi si sono indebitati autonomamente per avere più spazi di manovra. Siamo i più furbi o i più fessi?»Il Pnnr andrebbe riadattato?«Se non siamo in grado di realizzare certe opere, tanto vale rinunciare ai relativi finanziamenti. E non dimentichiamoci che nelle opere finanziate non sono previsti i costi di manutenzione. Le amministrazioni locali che si imbarcano nei progetti, nel giro di trent’anni dovranno foraggiare la manutenzione, e parliamo di costi altissimi. Molte opere finiranno alle ortiche». Dietro la Commissione Europea ci sono uomini in carne e ossa. La nuova riforma nasce dalla volontà di colpire i governi non allineati?«Da una parte vogliono lanciare un segnale politico preciso: “I padroni del vapore siamo noi”. Non dimentichiamo che la stessa Von Der Leyen, prima delle politiche, disse che se il voto italiano fosse andato in una certa direzione, loro avrebbero attivato “certi strumenti” per intervenire. Diceva il vero». Ma non è solo una questione politica, giusto? «D’altra parte bisogna ammettere che da tempo la commissione è animata da una sorta di fanatismo religioso, come una setta. Sono incapaci di partorire idee sostenibili, e lo abbiamo visto sui provvedimenti “green” che ci consegneranno mani e piedi alla Cina». Oggi i protagonisti a Bruxelles sono quasi tutti di estrazione socialista, peraltro in scadenza di mandato. «Lo stesso Gentiloni, che non ha autonomia né la forza di ribellarsi, è commissariato da Dombrovski, un uomo piazzato lì dai tedeschi. I quali ci stanno conquistando di nuovo: ci hanno provato due volte con le armi, e ora ci sono riusciti con i trattati, senza sparare un colpo di cerbottana. Insomma, in Italia festeggiamo la Liberazione, quando c’è una nuova occupazione alle porte. E abbiamo anche il coraggio di applaudire?». Come può pensare che la Germania voglia affossare il nostro Paese, con cui è legato a doppio filo sul piano economico? «Il loro obiettivo è farci sopravvivere quel tanto che basta per mettere in ginocchio le aziende strategiche e fare shopping a buon mercato a casa nostra».Si parla di un interessamento tedesco a un ramo di Leonardo. Le nuove regole europee ci renderanno più esposti agli attacchi stranieri? «Sì, perché si riducono i poteri nazionali sulla difesa degli asset strategici. Leonardo è un’azienda di sicurezza nazionale, incedibile, che lo Stato dovrebbe controllare totalmente. Vi immaginate cosa accadrebbe se l’Italia coltivasse ambizioni sulla “Finmeccanica” tedesca?». In ogni caso, il nuovo Patto di stabilità partorito dalla Commissione andrà discusso. «L’ideale sarebbe tirarla per le lunghe fino alle elezioni europee, che per la prima volta saranno un appuntamento più importante persino delle politiche. Se cambierà il governo comunitario, spero si possa ragionare in maniera diversa».Quale sarebbe la vera svolta?«La modifica dei trattati di Maastricht e di Lisbona, che per me non sono le tavole immutabili del Monte Sinai. In trent’anni, hanno mostrato diversi limiti. Possiamo cambiare il Patto quanto vogliamo, ma non otterremo niente di buono finché non modifichiamo i trattati. Il Patto di Stabilità e Crescita non alimenta affatto la crescita, visto che la stessa Commissione ha ritenuto giusto sospenderlo in tempo di pandemia…».Dunque lei sogna di modificare i trattati fondamentali dell’Unione. Ma in quale direzione?«Inserendo anche il parametro del debito privato nei criteri di giudizio su un Paese. La situazione europea si ribalterebbe. Perché i trattati parlano solo di debito pubblico, quando dietro ogni grande crisi c’è il debito privato?». Il nuovo Patto di stabilità è una punizione per non aver ratificato il Mes? «Il Mes non ha senso, è stato ucciso dal Quantitative Easing di Draghi. Nel momento in cui la Bce fa operazione straordinarie, a cosa serve il Mes? Poi, se l’obiettivo è garantire uno stipendio a un carrozzone di 400 persone in Lussemburgo, io una proposta ce l’avrei: trasformiamo il Mes in un’agenzia di rating finalmente europea». Il governo italiano, viste le pressioni internazionali, sarà comunque chiamato a ratificarlo.«C’è il rischio che la maggioranza si spacchi, perché Lega e Cinque Stelle restano contrari. Giorgia Meloni ha sempre detto no al Mes, bisognerà vedere se le promesse elettorali saranno confermate». Ha delle riserve sul primo anno del premier al timone del Paese? «Per quel che valgono le mie analisi, io sono felicissimo che ci sia un governo di centrodestra. E penso che Giorgia Meloni possa tranquillamente uscire dal complesso di camminare sul solco di Draghi: deve procedere sulle sue gambe, senza timore di paragoni. Anche perché, proseguendo sui binari di Draghi, nel lungo periodo, si rischia di disorientare l’elettorato. Draghi non era un politico, ma un bravissimo tecnico, mentre Meloni è un politico di razza, e gli italiani l’hanno scelta per questo».A proposito di politici di razza: si aspettava Di Maio sulla poltrona di inviato Ue nel golfo? «Io sono l’ultima ruota del carro, non mi permetto di giudicare. Però, se avessi avuto anche io Draghi come sponsor, chissà dove sarei arrivato…».
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 24 ottobre con Carlo Cambi