2021-02-15
Antonino Galloni: «Il governo seguirà l’agenda di Conte»
Antonino Galloni (YouTube)
L'economista, allievo come il premier di Federico Caffè, è scettico sulle reali svolte per il nostro Paese: «Basta guardare alla compagine ministeriale. Draghi ha l'appoggio Usa, ma non la forza per imporsi».«Mi dispiace no; assolutamente no! Chiunque può capire che lo 0,3% o lo 0,4% non significano assolutamente nulla. Se non si fa almeno il 2% o il 2,5% - cioè 10 volte più di quanto stiamo parlando adesso - non avremo nessun aumento significativo dell'occupazione. Parlo di occupazione buona. Contratti stabili. Politiche anticicliche di spesa non ne possiamo fare. Il nostro bilancio non ha disponibilità. Perché si è scelto di non averne. Ci siamo privati della nostra sovranità monetaria. La nostra classe politica ha optato per una rigidità assoluta».È il 15 maggio 2015. Non sono ancora le sette di mattina. Le 6:46 per la precisione. E come ospite della trasmissione Uno Mattina su Rai Uno c'è Antonino Galloni, detto Nino. Manda di traverso il caffè al conduttore Franco Di Mare che pochi istanti prima stava salutando con soddisfazione l'uscita dalla crisi. L'economia italiana «cresce dello 0,3% anziché dello 0,2%». Numeri che segnano «l'inversione di tendenza» si era appena spinto ad affermare il conduttore. E di fronte alle parole tranchant di Nino, prova una timida difesa di ufficio. «Non abbiamo disponibilità perché così vuole la Germania» è la sua replica lasciando attoniti i telespettatori che facevano colazione. Apprendevano come l'Italia fosse a questo punto diventata una regione della Germania. Galloni affonda il colpo. «No, siamo senza soldi perché lo abbiamo deciso noi. O meglio ci siamo appiattiti su decisioni che facevano comodo alla Germania. Sempre diamo giustamente la colpa ai trattati. Ma chi ha firmato quei trattati sapeva a cosa esponeva il Paese?».Oggi invece sono le otto e mezzo di mattina. Raggiungo Galloni mentre sta prendendo il treno. Con la promessa di non farglielo perdere. Ma intanto riparto da quella domanda.Professore, chi ha firmato quei trattati?«Sarebbe più corretto dire chi ha promosso quei trattati. Il padre è stato senza dubbio il ministro del Tesoro Guido Carli con la benedizione di Giulio Andreotti che ha diametralmente cambiato posizione sull'Europa dopo il 1989. Il risultato è stato il Trattato di Maastricht. Una vera e propria svolta in negativo. Una comunità di Stati sovrani ed indipendenti che cooperavano fra loro si apprestava a diventare l'Unione europea».Riprendo le sue parole. Carli sapeva a cosa andava incontro?«Carli sapeva esattamente a cosa stessimo andando incontro. Il salto di qualità stava nella concezione del vincolo esterno. Non più e non solo una concessione cui cercare di adeguarsi, ma addirittura un grimaldello da utilizzare per proporre anzi imporre politiche. Un po' come scherzare col fuoco credendo di non ustionarsi. Il risultato di oggi è che quel vincolo esterno ci priva delle risorse necessarie per fare politiche autenticamente anticicliche».Eh, ma ora abbiamo il Mes sanitario e il Recovery fund.«Sono i nipotini del trattato di Maastricht. Ancora vincolo esterno che impone riforme».Nino Galloni mastica politica ed economia fin da bambino. Il padre Giovanni, giurista e ministro della Pubblica istruzione, direttore del Popolo e vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, animava la corrente della cosiddetta sinistra politica della Democrazia cristiana.Chi c'era in quella corrente?«Marcora, Misasi e De Mita. E mio padre, a dire la verità, era spesso in contrasto con lui».Pure lei in quella corrente?«Per poco. Entrai nella cosiddetta sinistra sociale guidata da Donat Cattin. Oggi tutti lo chiamerebbero sovranista. Un ministro energicamente contrario alle ingerenze europee. Ai tavoli di presidenza del semestre europeo dovevo sempre ammorbidire le sue posizioni. Condivideva con Bettino Craxi posizioni euroscettiche. Anzi eurocritiche. La correzione è dovuta. Se no si arrabbia Stefania Craxi. Ci tiene molto a questa distinzione lessicale (ride, ndr)».Il suo destino politico quindi si separava da quello del padre? Stesso partito, correnti diverse?«Ricordo che un giorno mio padre tornò a casa con un libro di economia di Guido Carli. Non ricordo il titolo. Forse l'ho rimosso. Eravamo nella nostra casa di Torvaianica al mare. Papà mi disse: “Leggilo e dimmi che ne pensi". Lo feci. Tutti nella Dc all'epoca pendevano letteralmente dalle labbra di Guido Carli. Il mio giudizio fu netto. “Se vogliamo rovinare l'Italia quella è la strada". Da lì ho capito che la sinistra politica Dc non era più casa mia».Diventa direttore del ministero del Lavoro nel 1990 per rimanerci fino al 2002.«Dopo una parentesi al Bilancio chiamato da Andreotti. Ma i suoi cambiamenti di rotta in favore dell'Europa e del vincolo esterno iniziavano a inquietarmi. Donat Cattin mi volle al ministero del Lavoro. Non so se per promuovermi o per proteggermi».Per fare cosa?«Inizialmente mi occupavo delle statistiche. La qualità e la consistenza dei numeri lasciavano molto a desiderare».Diventa direttore generale del ministero del Lavoro praticamente in contemporanea con Mario Draghi, che invece assurse all'incarico di direttore generale al Tesoro.«Quasi in contemporanea. Un anno dopo, anzi. E ovviamente Guido Carli ebbe un ruolo determinante in quella nomina».Quindi lei e Draghi non solo eravate in ministeri diversi ma anche in posizioni - mi si passi il termine - «ideologiche» molto diverse.«In partenza no. Entrambi allievi e collaboratori di Federico Caffè. Poi le nostre strade si sono separate. Io all'Università di Berkeley. Draghi invece se ne andò al Mit di Boston. Io rimango orgogliosamente e coerentemente post-keynesiano. Lui abbraccia la teoria delle aspettative razionali che in quel periodo andava molto di moda fra i neoclassici. E del resto si ritroverà a gestire in prima persona le privatizzazioni. Io non avrei mai potuto, anzi, voluto farlo. Non sarei proprio stato l'uomo giusto».Draghi premier, conseguenza anche di simpatie nelle cancellerie europee?«Tutt'altro! I suoi anni in Bce non sono stati una passeggiata e non gli sono certo valse la simpatia e la benevolenza della Germania e dei cugini olandesi. La politica di accomodamento monetario e dei tassi bassi è sabbia negli occhi per un ordoliberista tedesco. Due giorni fa Jens Weidmann se n'è uscito addirittura con la necessità di rivedere la politica monetaria visto che le prospettive di inflazione in Germania sono al rialzo».Ma non in Italia.«Appunto, non in Italia. Difetti della politica monetaria taglia unica. Ciò che va bene per un Paese non può necessariamente essere la cosa giusta per un altro».Ma se Draghi premier non incontra le simpatie del Nord Europa, dov'è che trova sponda?«Sicuramente a Washington, dove Draghi ha lasciato ottimi ricordi professionali accanto a molta diffidenza. Draghi svalutava l'euro quando gli americani volevano un dollaro debole. Classico caso di svalutazione competitiva. Ma gli americani temono l'espansionismo tedesco. Io lo chiamo imperialismo. Importano materie prime, energie e immigrati a basso costo. Esportano tecnologie e capitali. Gli americani non vogliono un'Italia succube di Berlino».Un giudizio sulla nuova compagine di governo?«Draghi è arrivato troppo presto. Me lo aspettavo più tardi. Quando la situazione si sarebbe ancor più incancrenita. Quindi temo che la sua agenda non possa che essere il proseguimento di quella di Conte. E la composizione ministeriale me ne dà conferma. Fosse arrivato più tardi avrebbe avuto la forza di imporre forse la cancellazione del debito in mano alle banche centrali. Anche se, da economista, non ne vedo tutta questa necessità visto che gli interessi incassati dalle banche centrali nazionali sono riaccreditati ai governi sotto forma di dividendo. Il tutto però a patto che il capitale a scadenza sia reinvestito in titoli di Stato. E questa situazione non può durare in eterno. Ricorda le parole di Weidmann?».Il Recovery plan italiano, nelle parole di Ursula von der Leyen, dovrà concentrarsi sulla riforma della pubblica amministrazione. Che tradotto significa?«Posso dire cosa farei io; anzi cosa ho fatto io al ministero del Lavoro. I miei funzionari, i miei impiegati, i miei ispettori erano autenticamente responsabili del processo amministrativo. Il mio faro era e rimane la legge Basevi del 1947. Tocca alla pubblica amministrazione essere responsabile del rispetto delle norme. Più che infliggere sanzioni a chi non le rispetta. Un'etichetta sbagliata sul prodotto? È la pubblica amministrazione che la cambia. Poi ci sono le fattispecie penali. E ci sono giustamente le forze dell'ordine. Ma bisogna migliorare la qualità della vita al cittadino valorizzando il dipendente pubblico. Invece tutte le riforme fatte scontentano gli uni e gli altri. Non si fa così. Io non ho mai fatto così».