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2025-01-27
Ansia panico insonnia. Italiani sull’orlo di una crisi di nervi
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Nell’ultimo anno, sei italiani su dieci hanno avuto un problema di umore: qualche volta il 39,7%, spesso il 16,8% e sempre il 3,6%. Secondo Eurispes, l’insonnia ha interessato il 59% degli intervistati e quasi quattro su dieci (38%) hanno dichiarato di aver avuto una crisi di panico. Più vulnerabili a esperienze di ansia, insonnia e sbalzi d’umore sono le età estreme della vita. Oltre alle generazioni più giovani, che tendono a essere maggiormente colpite da difficoltà emotive - tra i 18 e i 24 anni il 72,7% segnala sbalzi d’umore, il 71% sintomi depressivi e il 51,2% crisi di panico - anche gli anziani risultano particolarmente fragili.
Per controllare questi disturbi, specie per ansia e insonnia, si cerca poco però l’aiuto del medico o dello specialista. È infatti molto diffuso il fai da te, testimoniato da un uso disinvolto di ansiolitici, come le benzodiazepine, farmaci che da 60 anni sono molto diffusi e praticamente declassati, grazie a un buon rapporto beneficio/rischio, a goccette per dormire o per l’ansia, sottovalutando che, come ogni medicinale, hanno invece indicazioni ed effetti collaterali. Non sorprende allora la continua crescita del mercato dei farmaci per stabilizzare l’umore che, prescritti magari per un uso di qualche settimana, vengono poi usati con continuità. La banca dati Pharma data factory, che monitora le uscite del 95% di farmacie italiane, ha registrato, nell’ultimo anno mobile (novembre 2023-ottobre 2024) la vendita di 49 milioni di confezioni per questi disturbi, con un valore di prezzo al pubblico di 525 milioni di euro. Rispetto allo stesso periodo del 2023, la crescita in volumi è stata del 3,2% (da 47 a 49 milioni di confezioni) e a valori del 3,8% (da 506 a 525 milioni di euro), ma che segna un +10% nelle fasce più giovani.
Del resto, in 20 anni sono quadruplicate le persone che riferiscono disagi mentali e sono circa tre volte di più quelle con ansia. Nei primi anni 2000, secondo i dati Esmed-Wmh, il 7% della popolazione italiana presentava sintomi riconducibili a un disturbo mentale nei 12 mesi precedenti l’intervista e circa il 5% aveva sofferto di un disturbo d’ansia. Nel 2023, l’Eurispes segnala che le percentuali sono arrivate rispettivamente al 28% - sei punti percentuali più elevati rispetto al 2022 - e al 14% per l’ansia. L’aumento di questi valori, concordano gli esperti, è riconducibile alla pandemia di Covid-19 che ha accentuato in molte persone i disturbi di ansia e stress, creando un profondo senso di solitudine, specie nei più giovani e nei più anziani, acuito, negli ultimi anni, dalle crisi internazionali, le guerre, i problemi economici e, specie nelle nuove generazioni, dall’eco-ansia. Secondo il Censis, negli adulti dai 37 ai 64 anni i numeri di chi ha sofferto di disturbi psicologici, nell’ultimo anno sono, in media, poco più di 1 su 5, ma per gli under 37 si sale al 44,6% e addirittura al 49,4% tra i 18 e i 25 anni. Negli anziani la stima è del 9% ma, per l’Istituto superiore di sanità, si arriva al 30% tra quelli con difficoltà economiche.
Con queste percentuali, non meraviglia, come registra Eurispes, che un italiano su cinque (19,8%), nell’ultimo anno, abbia cercato di risolvere questi problemi assumendo ansiolitici, antidepressivi, stabilizzatori dell’umore, antipsicotici o tranquillanti. La spesa media mensile per l’acquisto di farmaci per tenere a bada questi sintomi è tra i 31 a i 100 euro: il 60% per sbalzi d’umore, insonnia (59%), sintomi depressivi (58,9%) e crisi di panico (38%). Sono soprattutto gli anziani (65 anni e oltre) a far registrare le percentuali più alte di assunzione (22,4%) e le donne (21,7%) rispetto agli uomini (17,8%). Ansiolitici e tranquillanti sono tra i farmaci psicotropi più utilizzati, anche se con diversa frequenza: nello specifico, ne ha fatto uso il 51,4% qualche volta, il 24,9% spesso, l’8,8% sempre. Seguono gli antidepressivi (usati complessivamente nel 51,2% dei casi) gli stabilizzatori dell’umore (40,5%) e gli antipsicotici (21,4%). A preoccupare gli esperti è il fatto che quasi la metà di chi ha problemi di ansia e stress (44%) decide di autogestire i disturbi e il 33% non richiede nemmeno un consulto medico. Un’indagine Unisalute rivela che uno su tre pensa a rimedi naturali o lo sport, il 17% si rivolge al farmacista e al medico di base (16%). Solo il 12% ha optato per il supporto di uno psicologo o psicoterapeuta, nonostante il 62% degli italiani affermi che si rivolgerebbe a queste figure in caso di necessità, anche attraverso sedute da remoto e videoconsulti (modalità preferita dal 25%). Sempre secondo le ultime rilevazioni Eurispes sono soprattutto le donne, rispetto agli uomini, a sperimentare in misura leggermente maggiore le diverse forme di supporto psicologico e terapeutico.
Così si scopre che circa il 15-20% della popolazione adulta, nel corso della propria vita, ha fatto uso di benzodiazepine, che spiccano tra i farmaci più usati senza prescrizione medica. Il fenomeno è rilevante anche tra i giovani. Secondo la Relazione al Parlamento 2024 (dip. Politiche antidroga Pcm), negli ultimi 5 anni, circa 440.000 studenti hanno assunto almeno un tipo di psicofarmaco senza prescrizione nel corso della vita, in particolare ansiolitici, cioè benzodiazepine. Indicate nel trattamento a breve termine dell’ansia e dell’insonnia, hanno anche altri usi, come rilassanti muscolari e antiepilettici. Proprio l’effetto rapido sui sintomi determina, nelle persone ansiose, lo sviluppo di un legame che innesca un meccanismo di abuso e dipendenza. Nell’uso regolare è infatti necessario aumentare la dose per avere lo stesso effetto sull’ansia e, se si interrompe bruscamente la loro assunzione, si manifesta una vera e propria sindrome da astinenza. Vari studi indicano che, specie negli anziani, l’uso protratto di questi farmaci aumenta il rischio di incidenti d’auto, fratture del femore o dell’anca e, addirittura, probabilmente, deficit cognitivo. A conferma del dato, studi recenti dimostrano che l’uso intermittente di benzodiazepine riduce del 20% le fratture d’anca. Questi farmaci, largamente disponibili, entrano a far parte anche di mix di sostanze e alcol usati, purtoppo, negli abusi sessuali, oltre che per amplificare lo sballo.
Il vero allarme però è per i giovani. Durante il lockdown, come testimoniano vari dati, negli studenti c’è stato un aumento nell’utilizzo di psicofarmaci senza prescrizione medica, in particolare di ansiolitici. Negli adolescenti la dipendenza a questi farmaci si sviluppa più rapidamente, portando con sé gravi rischi per la salute mentale ed emotiva, con scarsi rendimenti scolastici e comportamenti aggressivi e autodistruttivi.
Dai virus al clima, i giovani tremano per tutto
Già in tempi non sospetti (era il 2017), il Wall Street Journal pubblicò un articolo su un fenomeno alquanto bizzarro: la «doorbell phobia», e cioè la fobia da campanello. Di che cosa si tratta? Soprattutto tra i millennials e la generazione Z, il suono inaspettato del citofono appare «spaventosamente strano». E, inevitabilmente, genera ansia. Che sia il postino, il corriere o un ospite non annunciato, la mancanza di un avviso tramite Whatsapp si rivela un’ardua prova da superare per i giovani ipertecnologici, in special modo per i cosiddetti «nativi digitali», ossia i ragazzi nati nel nuovo millennio a cui è stato messo subito uno smartphone in mano.
Questo è solo un esempio fra i tanti che confermano una tendenza in atto ormai da anni: la crescita esponenziale, tra gli adolescenti, di disturbi legati all’ansia e alla depressione. Tanto che, già prima del Covid, Richard Wilkinson e Kate Pickett parlarono di quella «epidemia d’ansia» che ha ormai infestato il mondo occidentale. La formula, coniata nel loro lavoro L’equilibrio dell’anima (Feltrinelli, 2019), fu sinistramente profetica. Di lì a poco, infatti, sarebbe stata dichiarata l’emergenza pandemica, con effetti deleteri sulle nuove generazioni che, ancora adesso, non riusciamo ad apprezzare in tutta la loro gravità.
La verità, però, è che le nefaste restrizioni anti Covid hanno semplicemente peggiorato una situazione già quasi compromessa. Se poi a tutto ciò aggiungiamo problematiche psichiche autoindotte, il quadro si fa ancora più fosco. Ci riferiamo, ovviamente, a fenomeni come la cosiddetta «ecoansia», termine che ha avuto un’enorme diffusione mediatica grazie a Greta Thunberg e ai pretoriani dell’ambientalismo militante. Stando all’esercito dei Fridays for future (e agli scienziati che gli hanno dato credito), l’ecoansia si manifesterebbe in una paura cronica per presunti disastri ambientali causati dal cambiamento climatico, provocando inquietudine, sensi di colpa e, talvolta, anche depressione. Nei casi più estremi, come quelli documentati nel 2020 sulla rivista Climatic change, alcune persone hanno persino dichiarato di aver rinunciato a fare figli per non gravare sul futuro del pianeta.
L’impronta ideologica, ovviamente, è visibile non solo riguardo a temi come l’ecologismo, ma ha finito per impregnare la visione del mondo di un’intera generazione. Quella che, appunto, va in fibrillazione se sente suonare il campanello e, inoltre, sostiene tutte le dabbenaggini partorite dalla cultura woke. Alcuni chiamano i ragazzi della GenZ «fiocchi di neve», facendo riferimento al loro carattere fragile e ultrasensibile, che può raggiungere livelli di correttezza politica spesso patologici. Clint Eastwood, con la sua consueta franchezza, è stato ancora più caustico: in una lunga intervista a Esquire del 2016, il texano dagli occhi di ghiaccio disse che i giovani di oggi sono nientemeno che «una generazione di fighette e leccaculo».
Ma da che cosa deriva, appunto, questa «epidemia d’ansia»? Una risposta ha provato a darla Jonathan Haidt, uno degli psicologi sociali più influenti. Nel suo recente La generazione ansiosa (Rizzoli, 2024), l’autore ha dato la risposta già nel sottotitolo: Come i social hanno rovinato i nostri figli. Secondo Haidt, negli ultimi decenni abbiamo assistito a una «grande riconfigurazione» dell’infanzia, dove ora dominano gli smartphone e i social media, i quali hanno sostituito i giochi più tradizionali, provocando così un forte incremento dei livelli di depressione, ansia e autolesionismo tra gli adolescenti. Cresciuti da genitori iperprotettivi (e quindi anch’essi ansiosi), i ragazzi della generazione Z hanno avuto meno occasioni di giocare a giochi «reali» all’aria aperta, lontano dalla supervisione di madri e padri apprensivi. Al contrario, sono stati costretti a rifugiarsi nell’universo virtuale dei social: un ambiente, peraltro, non sufficientemente regolamentato o compreso dai minorenni.
Spiegazioni monocausali, però, difficilmente possono soddisfare. E, infatti, diversi scienziati hanno allargato il campo d’indagine. Tra questi c’è anche il filosofo Vincenzo Costa, che di recente ha pubblicato il suo studio La società dell’ansia (Inschibboleth, 2024). Nell’interpretazione dell’autore, «l’atmosfera che caratterizza la società contemporanea è l’ansia». Nell’Occidente neoliberale, spiega Costa, «livelli crescenti di individualismo, di rottura del legame sociale e di dissoluzione del supporto sociale esperito generano un incremento vertiginoso di ansia e di disturbo psichico». La tesi forse non è nuova, ma difficilmente può essere contestata. Se la pressione sociale impone agli individui di avere successo, di massimizzare i profitti, di essere in qualche modo «perfetti», è inevitabile che si creino aspettative esagerate e ansiogene, o cocenti delusioni che poi sfociano in depressione. E così il futuro non è più il luogo delle possibilità per realizzare progetti di vita, ma una minaccia che incombe sulle nostre esistenze. Una minaccia che, ovviamente, non può che generare ancora più ansia.
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In sei su dieci lamentano sbalzi di umore e difficoltà a dormire. E circa il 20% si fa aiutare dalla «chimica». Rischiando di diventarne dipendente.I millennials e la generazione Z sono usciti con le ossa rotte dal lockdown, che ha aggravato una situazione già compromessa dalla paura cronica di cataclismi ambientali, foraggiata dagli ideologi verdi, e dallo smartphone, che ha soppiantato la realtà.Lo speciale contiene due articoliNell’ultimo anno, sei italiani su dieci hanno avuto un problema di umore: qualche volta il 39,7%, spesso il 16,8% e sempre il 3,6%. Secondo Eurispes, l’insonnia ha interessato il 59% degli intervistati e quasi quattro su dieci (38%) hanno dichiarato di aver avuto una crisi di panico. Più vulnerabili a esperienze di ansia, insonnia e sbalzi d’umore sono le età estreme della vita. Oltre alle generazioni più giovani, che tendono a essere maggiormente colpite da difficoltà emotive - tra i 18 e i 24 anni il 72,7% segnala sbalzi d’umore, il 71% sintomi depressivi e il 51,2% crisi di panico - anche gli anziani risultano particolarmente fragili. Per controllare questi disturbi, specie per ansia e insonnia, si cerca poco però l’aiuto del medico o dello specialista. È infatti molto diffuso il fai da te, testimoniato da un uso disinvolto di ansiolitici, come le benzodiazepine, farmaci che da 60 anni sono molto diffusi e praticamente declassati, grazie a un buon rapporto beneficio/rischio, a goccette per dormire o per l’ansia, sottovalutando che, come ogni medicinale, hanno invece indicazioni ed effetti collaterali. Non sorprende allora la continua crescita del mercato dei farmaci per stabilizzare l’umore che, prescritti magari per un uso di qualche settimana, vengono poi usati con continuità. La banca dati Pharma data factory, che monitora le uscite del 95% di farmacie italiane, ha registrato, nell’ultimo anno mobile (novembre 2023-ottobre 2024) la vendita di 49 milioni di confezioni per questi disturbi, con un valore di prezzo al pubblico di 525 milioni di euro. Rispetto allo stesso periodo del 2023, la crescita in volumi è stata del 3,2% (da 47 a 49 milioni di confezioni) e a valori del 3,8% (da 506 a 525 milioni di euro), ma che segna un +10% nelle fasce più giovani. Del resto, in 20 anni sono quadruplicate le persone che riferiscono disagi mentali e sono circa tre volte di più quelle con ansia. Nei primi anni 2000, secondo i dati Esmed-Wmh, il 7% della popolazione italiana presentava sintomi riconducibili a un disturbo mentale nei 12 mesi precedenti l’intervista e circa il 5% aveva sofferto di un disturbo d’ansia. Nel 2023, l’Eurispes segnala che le percentuali sono arrivate rispettivamente al 28% - sei punti percentuali più elevati rispetto al 2022 - e al 14% per l’ansia. L’aumento di questi valori, concordano gli esperti, è riconducibile alla pandemia di Covid-19 che ha accentuato in molte persone i disturbi di ansia e stress, creando un profondo senso di solitudine, specie nei più giovani e nei più anziani, acuito, negli ultimi anni, dalle crisi internazionali, le guerre, i problemi economici e, specie nelle nuove generazioni, dall’eco-ansia. Secondo il Censis, negli adulti dai 37 ai 64 anni i numeri di chi ha sofferto di disturbi psicologici, nell’ultimo anno sono, in media, poco più di 1 su 5, ma per gli under 37 si sale al 44,6% e addirittura al 49,4% tra i 18 e i 25 anni. Negli anziani la stima è del 9% ma, per l’Istituto superiore di sanità, si arriva al 30% tra quelli con difficoltà economiche. Con queste percentuali, non meraviglia, come registra Eurispes, che un italiano su cinque (19,8%), nell’ultimo anno, abbia cercato di risolvere questi problemi assumendo ansiolitici, antidepressivi, stabilizzatori dell’umore, antipsicotici o tranquillanti. La spesa media mensile per l’acquisto di farmaci per tenere a bada questi sintomi è tra i 31 a i 100 euro: il 60% per sbalzi d’umore, insonnia (59%), sintomi depressivi (58,9%) e crisi di panico (38%). Sono soprattutto gli anziani (65 anni e oltre) a far registrare le percentuali più alte di assunzione (22,4%) e le donne (21,7%) rispetto agli uomini (17,8%). Ansiolitici e tranquillanti sono tra i farmaci psicotropi più utilizzati, anche se con diversa frequenza: nello specifico, ne ha fatto uso il 51,4% qualche volta, il 24,9% spesso, l’8,8% sempre. Seguono gli antidepressivi (usati complessivamente nel 51,2% dei casi) gli stabilizzatori dell’umore (40,5%) e gli antipsicotici (21,4%). A preoccupare gli esperti è il fatto che quasi la metà di chi ha problemi di ansia e stress (44%) decide di autogestire i disturbi e il 33% non richiede nemmeno un consulto medico. Un’indagine Unisalute rivela che uno su tre pensa a rimedi naturali o lo sport, il 17% si rivolge al farmacista e al medico di base (16%). Solo il 12% ha optato per il supporto di uno psicologo o psicoterapeuta, nonostante il 62% degli italiani affermi che si rivolgerebbe a queste figure in caso di necessità, anche attraverso sedute da remoto e videoconsulti (modalità preferita dal 25%). Sempre secondo le ultime rilevazioni Eurispes sono soprattutto le donne, rispetto agli uomini, a sperimentare in misura leggermente maggiore le diverse forme di supporto psicologico e terapeutico. Così si scopre che circa il 15-20% della popolazione adulta, nel corso della propria vita, ha fatto uso di benzodiazepine, che spiccano tra i farmaci più usati senza prescrizione medica. Il fenomeno è rilevante anche tra i giovani. Secondo la Relazione al Parlamento 2024 (dip. Politiche antidroga Pcm), negli ultimi 5 anni, circa 440.000 studenti hanno assunto almeno un tipo di psicofarmaco senza prescrizione nel corso della vita, in particolare ansiolitici, cioè benzodiazepine. Indicate nel trattamento a breve termine dell’ansia e dell’insonnia, hanno anche altri usi, come rilassanti muscolari e antiepilettici. Proprio l’effetto rapido sui sintomi determina, nelle persone ansiose, lo sviluppo di un legame che innesca un meccanismo di abuso e dipendenza. Nell’uso regolare è infatti necessario aumentare la dose per avere lo stesso effetto sull’ansia e, se si interrompe bruscamente la loro assunzione, si manifesta una vera e propria sindrome da astinenza. Vari studi indicano che, specie negli anziani, l’uso protratto di questi farmaci aumenta il rischio di incidenti d’auto, fratture del femore o dell’anca e, addirittura, probabilmente, deficit cognitivo. A conferma del dato, studi recenti dimostrano che l’uso intermittente di benzodiazepine riduce del 20% le fratture d’anca. Questi farmaci, largamente disponibili, entrano a far parte anche di mix di sostanze e alcol usati, purtoppo, negli abusi sessuali, oltre che per amplificare lo sballo. Il vero allarme però è per i giovani. Durante il lockdown, come testimoniano vari dati, negli studenti c’è stato un aumento nell’utilizzo di psicofarmaci senza prescrizione medica, in particolare di ansiolitici. 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E, inevitabilmente, genera ansia. Che sia il postino, il corriere o un ospite non annunciato, la mancanza di un avviso tramite Whatsapp si rivela un’ardua prova da superare per i giovani ipertecnologici, in special modo per i cosiddetti «nativi digitali», ossia i ragazzi nati nel nuovo millennio a cui è stato messo subito uno smartphone in mano. Questo è solo un esempio fra i tanti che confermano una tendenza in atto ormai da anni: la crescita esponenziale, tra gli adolescenti, di disturbi legati all’ansia e alla depressione. Tanto che, già prima del Covid, Richard Wilkinson e Kate Pickett parlarono di quella «epidemia d’ansia» che ha ormai infestato il mondo occidentale. La formula, coniata nel loro lavoro L’equilibrio dell’anima (Feltrinelli, 2019), fu sinistramente profetica. Di lì a poco, infatti, sarebbe stata dichiarata l’emergenza pandemica, con effetti deleteri sulle nuove generazioni che, ancora adesso, non riusciamo ad apprezzare in tutta la loro gravità. La verità, però, è che le nefaste restrizioni anti Covid hanno semplicemente peggiorato una situazione già quasi compromessa. Se poi a tutto ciò aggiungiamo problematiche psichiche autoindotte, il quadro si fa ancora più fosco. Ci riferiamo, ovviamente, a fenomeni come la cosiddetta «ecoansia», termine che ha avuto un’enorme diffusione mediatica grazie a Greta Thunberg e ai pretoriani dell’ambientalismo militante. Stando all’esercito dei Fridays for future (e agli scienziati che gli hanno dato credito), l’ecoansia si manifesterebbe in una paura cronica per presunti disastri ambientali causati dal cambiamento climatico, provocando inquietudine, sensi di colpa e, talvolta, anche depressione. Nei casi più estremi, come quelli documentati nel 2020 sulla rivista Climatic change, alcune persone hanno persino dichiarato di aver rinunciato a fare figli per non gravare sul futuro del pianeta. L’impronta ideologica, ovviamente, è visibile non solo riguardo a temi come l’ecologismo, ma ha finito per impregnare la visione del mondo di un’intera generazione. Quella che, appunto, va in fibrillazione se sente suonare il campanello e, inoltre, sostiene tutte le dabbenaggini partorite dalla cultura woke. Alcuni chiamano i ragazzi della GenZ «fiocchi di neve», facendo riferimento al loro carattere fragile e ultrasensibile, che può raggiungere livelli di correttezza politica spesso patologici. Clint Eastwood, con la sua consueta franchezza, è stato ancora più caustico: in una lunga intervista a Esquire del 2016, il texano dagli occhi di ghiaccio disse che i giovani di oggi sono nientemeno che «una generazione di fighette e leccaculo». Ma da che cosa deriva, appunto, questa «epidemia d’ansia»? Una risposta ha provato a darla Jonathan Haidt, uno degli psicologi sociali più influenti. Nel suo recente La generazione ansiosa (Rizzoli, 2024), l’autore ha dato la risposta già nel sottotitolo: Come i social hanno rovinato i nostri figli. Secondo Haidt, negli ultimi decenni abbiamo assistito a una «grande riconfigurazione» dell’infanzia, dove ora dominano gli smartphone e i social media, i quali hanno sostituito i giochi più tradizionali, provocando così un forte incremento dei livelli di depressione, ansia e autolesionismo tra gli adolescenti. Cresciuti da genitori iperprotettivi (e quindi anch’essi ansiosi), i ragazzi della generazione Z hanno avuto meno occasioni di giocare a giochi «reali» all’aria aperta, lontano dalla supervisione di madri e padri apprensivi. Al contrario, sono stati costretti a rifugiarsi nell’universo virtuale dei social: un ambiente, peraltro, non sufficientemente regolamentato o compreso dai minorenni. Spiegazioni monocausali, però, difficilmente possono soddisfare. E, infatti, diversi scienziati hanno allargato il campo d’indagine. Tra questi c’è anche il filosofo Vincenzo Costa, che di recente ha pubblicato il suo studio La società dell’ansia (Inschibboleth, 2024). Nell’interpretazione dell’autore, «l’atmosfera che caratterizza la società contemporanea è l’ansia». Nell’Occidente neoliberale, spiega Costa, «livelli crescenti di individualismo, di rottura del legame sociale e di dissoluzione del supporto sociale esperito generano un incremento vertiginoso di ansia e di disturbo psichico». La tesi forse non è nuova, ma difficilmente può essere contestata. Se la pressione sociale impone agli individui di avere successo, di massimizzare i profitti, di essere in qualche modo «perfetti», è inevitabile che si creino aspettative esagerate e ansiogene, o cocenti delusioni che poi sfociano in depressione. E così il futuro non è più il luogo delle possibilità per realizzare progetti di vita, ma una minaccia che incombe sulle nostre esistenze. Una minaccia che, ovviamente, non può che generare ancora più ansia.
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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