2022-11-13
L’angolo di Eden a Firenze lontano dai turisti
I celebri giardini di Boboli nel capoluogo toscano sono spesso pieni di villeggianti. Ma isolarsi è possibile: basta seguire i vigneti e i campi che conducono al castelletto di Bolgheri, stare tra i cipressi citati dal Carducci e riposare sulle panchine protette dai lecci.Nel cuore di Firenze svetta un organismo vivente composto da decine di esemplari, soltanto apparentemente slegati gli uni dagli altri. Si tratta del Viale dei Cipressi che, dalla cima della collina su cui si arrampicano i giardini di Boboli quanto quelli dell’adiacente Villa Bardini, degrada fino all’Isolotto, un tempo spazio delle rose che oggi si potrebbe forse chiamare degli aranci, o degli agrumi, e alla fine, dopo aver superato un arco di altissimi platani, le mura di Porta Romana. Un intricato groviglio di radici unisce in comunicazione, e fratellanza, per così dire, gli alberi di varia generazione che accudiscono la passeggiata principale dei Boboli, il Palazzo dei Pitti ed i giardini prima dei Medici, quindi dei Lorena e attualmente dei turisti in visita nel capoluogo toscano. Ma prima che i botanici e i giardinieri qui lavorassero e immaginassero volumi, prospettive, vie di fuga, accostamenti di colore, vi crescevano robuste le vigne, filari di viti da cui stralciare rubicondi grappoli che andavano a preparare vini non proprio superbi, come quelli che gli italici gorgheggiavano fin dai tempi degli etruschi e dei romani. Quel che oggi è un suolo percorso da molti stranieri un tempo era percorso anzitutto dai piedi sformati dei contadini che parlavano la stessa lingua svelta e impertinente di un Leonardo, meglio forse di un Buonarroti o di un Giottino.Chiara torna spesso tra questi alberi, li percorre la mattina, sul presto, o nel primo pomeriggio. Il gran via-vai di gente ovviamente non la aiuta a trovare quella pace interiore che si procura in altri spazi verdi, aperti, della città, mentre l’accesso a questi giardini è custodito, e non di rado c’è da fare la fila per entrare, aspettare i controlli, passare sotto il metal detector, insomma, quasi come entrare in una banca. E poi finalmente può risalire, arrivare alla grande faccia antica che Igor Mitoraj, lo scultore polacco, ha lasciato lassù, nel prato dell’Uccellare, ovvero del cacciare piccoli uccelli, accanto ad un belvedere, dopo la mostra del 2002. Sono passati oramai vent’anni e la grande testa continua a lasciarla stupefatta, ogni volta le si avvicina con circospezione, come se da un attimo all’altro il resto del suo immane corpo di gigante potesse sbucare dal terreno, con lunghe mani nervose che potrebbero afferrarla e stritolare. O innalzare per metri e metri e poi schiantare con un morso netto. Le profonde venature solcano la faccia, da metterci il dito dentro e seguirne le cicatrici. Ma a parte questa, a Chiara non interessano le grotte del Buontalenti, le muse, i bacchi, i capricorni, le arpie, gli stemmi e le diverse mirabili decorazioni artistiche. A lei interessano gli alberi e quei luoghi dove le loro geometrie e le loro architetture disegnano il cielo e decorano l’aria con fiori sgargianti, cortecce scultoree e fogliami ombrosi.Le piace lasciarsi inghiottire dalle cerchiate, quei vialetti che si infilano a semisfera tra le fronde dei lecci, piccole vene che dipartono a spina di pesce dal viale dei Cipressi - il Viottolone - per allungarsi in un respiro distensivo. Lungo uno di questi sentieri si arriva all’ingresso di un piccolo orto botanico, recuperato di recente, con diversi begli alberi e un ninfeo rotondo, simile ad esempio a quello che impreziosisce l’Orto botanico di Palermo. La accolgono i gigli rosso corallo nel primo tratto, nonostante il calendario reciti già i primi del mese di novembre, e poi palmizi, aceri, un’arcuata sughera, il tronco sconnesso, pieno di piaghe solidificate, ricciolute, costolate. Sembra quasi il ventre di un animale dell’altro mondo! E a terra, sotto i suoi piedi che ora ha slacciato dalle scarpe e li posa, senza calze, sull’erba umida, incontra la consistenza insidiosa di grosse ghiande svenate, sbrecciate, aperte dall’energia vitale della linfa che ordina, in questa strana e inaudita primavera fuori stagione, di prender posto nel mondo, di farsi mondo a proprio modo, così, nella terra che capita, senza badare alle possibili ripercussioni. Ne raccoglie qualche d’una, sono grosse come il suo pollice, sì, il pollice se vogliamo di una nana gentile, ma comunque tanto basta. A casa troverà certamente un vaso da gerani dove poterle seminare, sperando che si trovino a proprio agio, che questa idea di foresta che si portano addosso possa trasferirsi nel suo appartamento, forse una distopia naturale, evenemenziale.Chiara non trova altra via per ristabilirsi dagli scontri della sua esistenza che venire tra i cipressi, non tanto alti, non così schietti - ma quelli, chi ricorda la poesia del Carducci sfilavano, e sfilano, altrove, verso la costa, tra i vigneti e i campi che conducono al castelletto di Bolgheri. Qui si allontana dal flusso delle anime vaganti e si nasconde sulle panchine protette dai lecci, o meglio, in questo angoluccio di Eden che forse assomiglia davvero, in qualche misura, al giardino descritto nelle Sacre Scritture, o ritratto sulle pareti di castelli e magioni in giro per l’Italia, magari con al centro la fonte della vita, e giovani vergini che danzano in abiti leggeri e fioriti. La Primavera del Botticelli è esposta in un museo di questa città, a poche centinaia di metri di distanza in linea d’aria, invero. E con le adeguate proporzioni, con un opportuno adattamento alla verità della grazia di un corpo concreto rispetto all’idealizzazione che può sfiorare la pittura, Chiara assomiglia alla giovane ritratta nella Primavera - il personaggio di Flora - quanto probabilmente alla protagonista della Nascita di Venere, ovvero la gentildonna Simonetta Vespucci, morta ventitreenne nel 1476 e considerata una bellezza senza pari. Mento stretto, piccolo naso da bambina, lunghi capelli biondo cenere, mossi, ondulanti, occhi grandi e verdi, e un’eleganza innata nei movimenti, nel porsi come un’onda dentro il tempo che la accompagna. E sopra di lei le fronde degli alberi amati, che siano ora le piante del giardino botanico, le cerchiate a leccio dei vialetti, le chiome dense, involute, dei cipressi che costeggiano il vialone che connota il giardino dei giardini della Firenze amata e visitata. E la vediamo ora, di schiena, mentre esce in strada e si avvia tra la gente straniera che di lingua in lingua annoda una fitta trama degna d’una Babele dei nostri tempi.