2021-07-26
Andrea Gavosto: «Guai a dimenticare il dramma scuola rivelato dall’Invalsi»
Il capo della Fondazione Agnelli: «La Dad? Sei ore di videolezioni. Per forza s'impara poco. I test confermano quello che temevamo».Il direttore della Fondazione Agnelli Andrea Gavosto è stato tra i più preoccupati nel commentare i dati Invalsi resi noti dopo la lunghissima chiusura delle scuole per la pandemia. L'esito dei test è impressionante: per fare un esempio, gli studenti che alla fine delle superiori non raggiungono un livello accettabile in matematica sarebbero il 51%, contro il 42% pre-pandemia. Lei ha parlato di «emergenza educativa».«Lo è, la peggiore dal dopoguerra, anche se la pandemia e la chiusura delle scuole hanno aggravato problemi che vengono da molto più lontano. Che i risultati dell'Invalsi potessero essere molto negativi a onor del vero c'era da aspettarselo. Vedendo quel che era successo in altri Paesi (Olanda, Regno Unito, Usa) c'era da temere che l'effetto sui livelli di apprendimento sarebbe stato grave. Nel nostro caso, avendo chiuso le scuole anche più a lungo, era prevedibile una perdita di questo tipo, equivalente - a seconda delle materie e del grado di scuola - a un periodo che va dai 2 ai 5 mesi in un anno scolastico».Non ha la sensazione che su questi dati i media e la politica abbiano scelto un certo silenzio? «Per la verità, ho avuto l'impressione che i dati abbiano colpito i decisori politici. Poi, certo, è noto che i meccanismi di comunicazione tendano a “bruciare" le notizie. Se andasse così sarebbe grave: si tratta di uno stato di cose che richiede riflessione e soprattutto un'azione di recupero che dovrà durare forse anni. L'attenzione deve rimanere alta».In alcuni settori sindacali si torna a chiedere che i test non si facciano. Quindi se c'è la febbre, è colpa del termometro?«Metafora azzeccata… Ho letto anch'io, e sono purtroppo dichiarazioni tipiche. Anche negli anni pre-pandemia, davanti a dati non brillanti, qualcuno tendeva a dire: “Non è così, sbaglia il termometro". Si è anche cercato di abrogare i test Invalsi, nonostante la loro affidabilità sia ormai alta. Quest'anno la reazione volta a negare la realtà è ancora meno razionale: i risultati purtroppo corrispondono esattamente alla percezione delle famiglie, e cioè che quest'anno i ragazzi abbiano imparato pochissimo».Questione generale. Perché porre il tema della valutazione dei docenti è un tabù?«La levata di scudi su questo tema non c'è solo in Italia. Negli Usa, i primi a valutare e anche a pubblicare i relativi dati, scoppiò un pandemonio da parte dei sindacati».Lei come la pensa?«Io sono favorevole alla valutazione esterna della scuola, mentre non mi convince la valutazione esterna del singolo docente».Perché?«Perché l'insegnamento è soprattutto un lavoro di squadra, e valutare un professore prescindendo dal resto dei colleghi può essere scorretto».Però si potrebbe fare una valutazione interna dei docenti?«Certo, sono a favore, e collegherei la questione alla carriera e alla formazione del docente. Una volta in ruolo, un insegnante italiano non ha progressioni di carriera, ma solo sei scatti esclusivamente legati all'anzianità. Ciò non premia chi si impegna ed è bravo. Invece il passaggio di carriera andrebbe introdotto: se ne parla nel Pnrr».Quanto alla formazione?«I docenti non vengono formati né aggiornati, specie per ciò che riguarda la didattica. Spesso conoscono la loro disciplina, e in particolare nelle materie umanistiche hanno standard elevati. Ma la didattica è un'altra cosa: sapere è diverso da saper insegnare. Oggi si va in cattedra con pochissimi crediti universitari di pedagogia e didattica e senza alcuna esperienza sul campo».Quindi anche la formazione potrebbe essere un veicolo per la valutazione.«Certo, se fai la formazione, ha senso vedere cosa accade». Mi diceva di essere favorevole alla valutazione esterna delle scuole.«In teoria sarebbe prevista dal 2013, e il meccanismo sulla carta era ben congegnato, ma poi non è stato applicato. L'idea era quella di un corpo di ispettori sul modello britannico che andassero nelle scuole, parlassero con presidi, insegnanti e famiglie, e poi facessero una valutazione che poteva innescare il cosiddetto “processo di miglioramento" con relativa verifica ulteriore sempre da parte degli ispettori».Cosa non ha funzionato?«La cosa fu impostata ai tempi del ministro Gelmini. Ma poi il corpo degli ispettori non è mai stato creato. I test Invalsi sono stati spesso boicottati e perfino taroccati. Ora per fortuna sono elaborati al computer e almeno questo problema è stato superato».Ci faccia sognare. Non sarebbe bello che ragazzi e famiglie, per scegliere, potessero trovare su Internet una valutazione degli istituti?«Lo fa la nostra fondazione, con Eduscopio.it, un portale gratuito».E il ministero?«C'è un portale ministeriale, che però è difficile da navigarsi. Diciamo che non è stato studiato per le famiglie».Domanda liberale. Lei insisterebbe sul buono scuola, come triplice innesco di concorrenza (tra pubblico e privato, tra pubblico e pubblico, tra privato e privato) per favorire la competizione tra gli istituti e la scelta delle famiglie?«È un punto che ha sempre scatenato polemiche. Le confesso che la contrapposizione tra scuole statali e paritarie mi affascina poco. Io credo nell'autonomia delle scuole: principio costituzionale introdotto con la riforma Berlinguer, quando il ministro non era né un liberale né un cattolico, tra l'altro…».Lei dice che già ora in teoria le scuole avrebbero margini per definire la loro offerta.«Se le scuole fossero davvero autonome, il tema della proprietà sarebbe molto sdrammatizzato. La scelta sarebbe basata su ciò che un istituto offre, indipendentemente dal fatto che sia statale o paritario, laico o cattolico».Domanda meritocratica. Perché facciamo così poco per i ragazzi dotati? Nello sport, ci pare naturale che se un giovane ha delle qualità, sia sollecitato. A scuola non è così, invece.«È vero che la nostra scuola ha in parte una cultura antimeritocratica, o diciamo piuttosto egualitaria. Va anche detto che la validità di un sistema scolastico si valuta dall'andamento medio degli studenti e non ci si può concentrare solo sulle eccellenze. Certo, però, la domanda coglie un punto: per paradosso, i ragazzi dotati sono a volte trattati come portatori di “bisogni speciali"».In ogni campo - pensiamo alla medicina - tutto è molto individualizzato. Perché non pensare a un insegnamento per livelli? Uno studente può essere più avanti in matematica e più indietro in greco.«Comincia a esserci un dibattito in tal senso. C'è un libro di Bertagna, e c'è anche un accenno nel Pnrr. Personalmente ho sentimenti misti. Da un lato capisco la logica in termini di miglior apprendimento. Dall'altro però do molto peso al valore della composizione variegata di una classe, al beneficio di avere a che fare anche con persone molto diverse da me».La Verità ha condotto una campagna contro la politicizzazione di molti manuali scolastici.«Intanto c'è un tema di abuso dei libri di testo, che dovrebbero essere solo uno strumento di accompagnamento della lezione. Dopo di che, senza generalizzare, è vero che ci sono manuali ottimi e altri eccessivamente ideologizzati».E allora spostiamo il discorso sui professori, spesso orientati da una sola parte. Molti genitori temono che i loro ragazzi siano indottrinati.«Non ci sono dati e analisi serie su questo. Certo, la percezione che il corpo docente sia prevalentemente di sinistra c'è, anche per ragioni anagrafiche: buona parte dei docenti è entrata alla fine degli anni Settanta, quando il clima universitario era quello che era… Dopo di che, anche nel resto del mondo è così: la maggior parte degli insegnanti Usa sono democratici più che repubblicani»,Torniamo al punto iniziale. Perché la didattica a distanza non ha funzionato?«Di per sé parlare di Dad non sarebbe anatema: ora ovviamente lo è. Il punto è come la fai. Nel 91% dei casi è stata fatta in modo ipertradizionale, sostituendo la videolezione alla lezione dalla cattedra. Sei ore di videolezioni, poi ti do i compiti, poi faccio le verifiche».Una cosa così pallosa, scusi la parola, stroncherebbe chiunque.«Infatti il tema è la soglia di attenzione dei ragazzi, ce l'hanno detto proprio loro. Bisognerebbe fare videolezioni non oltre i 15-20 minuti, poi far discutere i ragazzi tra loro e farli lavorare in autonomia. E poi perché non scegliere le videolezioni migliori e più brillanti e proporre quelle in una certa materia?».Manca una cinquantina di giorni alla ripresa. Sul nostro giornale insistiamo sui temi delle aule e dei trasporti. Lei cosa propone?«Le cose da fare sono chiare: accelerare la vaccinazione; prevedere turni la mattina e il pomeriggio (ad aprile 2020 purtroppo i presidi furono contrari); organizzare delle “bolle", cioè gruppi di 10-12 ragazzi possibilmente con gli stessi insegnanti; scaglionare gli ingressi e le uscite, adeguando i relativi trasporti. Poi si scontano anche cose all'italiana…».Tipo?«Per i trasporti, gli autisti attualmente devono essere iscritti all'albo. Morale: spesso le uniche che possono provvedere sono le municipalizzate».Come finisce con la vaccinazione? I dati a metà luglio sono buoni: 85% di personale con una dose, 78% con due, e a settembre si potrebbe essere oltre il 90%.«Prevedo che alla fine sarà estesa la normativa stabilita per il personale sanitario».
Little Tony con la figlia in una foto d'archivio (Getty Images). Nel riquadro, Cristiana Ciacci in una immagine recente
«Las Muertas» (Netflix)
Disponibile dal 10 settembre, Las Muertas ricostruisce in sei episodi la vicenda delle Las Poquianchis, quattro donne che tra il 1945 e il 1964 gestirono un bordello di coercizione e morte, trasformato dalla serie in una narrazione romanzata.