
Pierluigi Marzorati, campione di basket a Cantù e ingegnere a 26 anni: «In America mi offrirono il college, ma mia madre disse: “Finisci qui"» «Boswell fermò Meneghin dopo tre piatti di trippa. Oggi dirigo uno studio con mio figlio: ciò che conta è il gioco di squadra».«Quant l'è che te turnet a giügà?». È la domanda più affettuosa che rincorre Pierluigi Marzorati (con i capelli bianchi da icona in ottima forma) mentre percorre la centralissima via Giacomo Matteotti, i 400 metri scarsi dedicati dai canturini allo struscio dopo aver piallato mobili e prima di andare a vedere il basket. «Tornare a giocare a 65 anni è un dolce paradosso da tifosi, adesso gioco altre partite dietro la scrivania. Ma con una certezza inossidabile: senza la squadra sei morto». La parola è double-face: squadra come gruppo, come équipe di lavoro, concetto supremo che lui - essendo stato un metronomo naturale - ha trasferito dal parquet all'ufficio. E squadra come strumento, unità di misura per dare una lunghezza, una larghezza e soprattutto una profondità al mondo dentro una professione in continua evoluzione come quella dell'ingegnere. Fu uno dei primi campioni laureati, il Pierlo, orgoglio di una cittadina circondata dalle colline del Cantushire che negli anni Settanta e Ottanta conquistava il mondo con i comò e con la pallacanestro. Perso di vista chi? Il Marzorati ha scelto di continuare a stare qui in Brianza, sindaco eterno di Cantù senza bisogno di passare dai ballottaggi, titolare di tre vite: l'ex campione, l'ingegnere e il poster. Tutte con il numero 14 sulla schiena.Pierluigi Marzorati, come cominciò la leggenda del santo palleggiatore?«In palestra, all'oratorio. Ero un bel contropiedista, facevo ballare la palla e correvo più veloce di quelli di due metri. In più ero alto 1,87, non proprio un nano. Per il basket a livello individuale basta e avanza. Il resto lo ottieni se sei in sintonia con gli altri quattro».La famiglia cosa diceva?«Mio papà faceva il posatore di pavimenti, ramo edilizio, e guardava con curiosità questo figlio che in quarta superiore aveva già un piccolo stipendio da giocatore. Alla fine ho parlato io: voglio fare l'università, ingegneria».E lui?«Da uomo concreto mi disse una frase sola: cerca di arrivare in fondo».Difficile negli anni Settanta conciliare sport professionistico e studio?«No, ricordo che al Politecnico non ho perso neanche un anno, a 26 mi sono laureato. Prima delle Olimpiadi di Monaco 1972 andammo a fare una tournée negli Stati Uniti, era gennaio e a New York nevicava. Giocammo tre partite che avrebbero potuto cambiarmi la vita».Cosa accadde di così straordinario?«Mi fu chiesto da un college di fermarmi a studiare là, era il miraggio di tutti in Europa. Dino Meneghin e io eravamo i due prospetti più futuribili di allora, ma in termini di comunicazione le distanze fra Italia e Stati Uniti non erano le stesse di adesso».Così rinunciò.«Decise per me mamma Ernesta, che adesso ha 95 anni. Intervenne e disse: finisci qui. Detto e fatto, dottore in Italia. Ma non ero l'unico, ricordo Nicola Ungaro, ingegnere, e Giorgio Papetti, medico. Affacciarci subito su un altro orizzonte fu utile, ci sentivamo completi, rispettati. Ma attenzione, in palestra eravamo tutti uguali».Il primo concetto di squadra quando arrivò?«Sembra un paradosso, ma lo percepii quando studiavo in gruppo con altre due, tre persone. Da solo non vai da nessuna parte. Lì ho capito se hai qualcuno al fianco che ti aiuta a capire, tutto di te viene valorizzato. Nello sport, figuriamoci nella vita. Erano gli anni in cui Lello Morbelli, mio padre putativo, inventò a Cantù il campus all'americana. Media alta, convocazione sicura».Quando ha capito che sarebbe diventato un fenomeno sul parquet?«A 26 anni, subito dopo l'uscita di un grande come Carlo Recalcati. Arrivò Valerio Bianchini, puntò su di me e su Renzo Bariviera, fece nascere la squadra che avrebbe vinto tutto. C'erano Giuseppe Gergati, quel fenicottero di Bruce Flowers, stavano crescendo Antonello Riva e Denis Innocentin. Secondo in campionato, secondo in Coppa Coppe. Gli anni più belli, quelli degli americani folli».Due scudetti, due coppe Campioni, quattro coppe Coppe, quattro coppe Korac, due coppe Intercontinentali. A parte lei, chi fu il migliore di tutti?«Jim Brewer, gran professionista. Poi arrivò lo scudetto e arrivò quel matto di Tom Boswell. Era un fenomeno alternativo, praticamente ingestibile, il classico americano ribelle da film o da libro della beat generation. Era anche un'ala che giocava da centro: devastante».E qui vale la pena fare un inserimento, ascoltare la voce di popolo, riportare quell'aneddoto del Boswell alla locanda Garibaldi al terzo piatto di trippa, arrivato da pochi giorni a Cantù e già alla vigilia di un sanguinoso derby con Varese, a Masnago. I commensali anticipavano le marcature, lui scucchiaiava il foiolo. A un certo punto, compreso a spanne il tema bofonchiò a bocca piena: «Chi più forte Varese?». Era Meneghin. Lui si segnò il numero 11 su un foglietto e disse: «I got it, ci penso io». Lo avrebbe annullato senza conoscerlo, con tre piatti di trippa in corpo.C'erano anche aspetti meno epici, vero?«Ricordo quella volta che voleva tornarsene in America perché aveva scoperto che lo pagavano meno di un paio di colleghi. Un'altra volta dovevamo andare a Kaunas e lui seppe che a Mosca i gendarmi avrebbero controllato i bagagli con i cani antidroga; improvvisamente sentì l'urgenza di richiamare la sua valigia per prendere quello che lui diceva essere un libro. Mai visto leggere».Qual è stata la sua più grande soddisfazione?«Al di là delle coppe Campioni, il ritrovarmi nella selezione europea del 1974 al fianco di Kresimir Cosic, Sergei Belov, Wayne Brabender e Dino Meneghin. Una collezione di leggende».Quando arrivò il momento di salutare la compagnia?«A 37, 38 anni non hai più reattività. Ti sembra di essere ancora veloce, ma ti passano tutti in tromba. La società ingaggiò Alberto Rossini, un ragazzo puntiglioso e di carattere. Capii tutto. Nel 1991 vincemmo la coppa Korac. Allora dissi al coach Fabrizio Frates: faccio dieci minuti e lascio il posto a lui. L'avventura era finita, ma in fondo continua ancora».Con una laurea in tasca e una professione davanti.«Ho fatto il consulente tecnico per l'impiantistica sportiva della Fiba, ho curato i palazzetti delle olimpiadi di Atene nel 2004 e di Pechino nel 2008. Normative, parametri, atleti, stampa, omologazione canestri, tabelloni in vetro. Dovevo mettere d'accordo 200 federazioni. Avevo capito che c'era bisogno di un salto di qualità nel 1982, mentre giocavo la finale di coppa Campioni a Colonia contro il Maccabi Tel Aviv».Invece di dettare gli schemi guardava l'impianto?«In confronto con i parquet di Cantù, il pavimento del palazzetto era inguardabile. Era stato posato in fretta, la palla non rimbalzava in modo uniforme. Un incubo. Serviva qualcuno che ne capisse e che se ne occupasse. Poi mi sono messo in proprio, ho costruito un'altra squadra, questa volta in famiglia».La sindrome vincente del gruppo.«Si chiama Pfm & Partners, come il gruppo rock italiano che andava per la maggiore ai miei tempi. È uno studio di ingegneria e architettura creato con mio figlio. Abbiamo appena messo a norma lo stadio Sinigaglia di Como per 5.000 posti. In più lavoriamo sull'efficientamento energetico, il futuro è creare risparmi sui consumi per l'energia. E la squadra è tutto».Adesso sta esagerando.«Ha presente Chuck Jura? Era il più forte, segnava 40 punti e perdeva le partite perché giocava da solo. I compagni sono tutto anche nell'alta specializzazione: bisogna saperli scegliere, saper loro passare la palla al momento giusto. E saper delegare, magari con un pizzico di diplomazia».Ma lei ha sempre preso di petto avversari e situazioni.«Infatti qualche musata l'ho incassata, come nel periodo in cui ero presidente del Coni Lombardia. Davanti a un conflitto ricordo il comportamento di Aldo Allievi, mio suocero e presidente della Cantù che ha fatto la storia. Lui limava e vinceva. La diplomazia è un valore».Oggi il Cantushire parla russo. Che succede?«La situazione non è effervescente, ma non ci sono alternative. Però l'humus dei tifosi c'è sempre, la Brianza è un grande bacino per il basket e andare a giocare a Desio non deve essere percepito come un ripiego. Quando c'è passione c'è sempre anche futuro».Allora, quando torna a giocare?«Ussignur, datemi un pallone e quattro ragazzini a cui passarlo».
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        (Esercito Italiano)
    
Elementi del 5°Reggimento Alpini hanno partecipato all'esercitazione «Triglav Star 2025» assieme a truppe da montagna spagnole, ungheresi e slovene.
L'articolo contiene una gallery fotografica.
Si è conclusa nei giorni scorsi in Slovenia l’esercitazione internazionale «Triglav Star 2025», che per circa tre settimane ha visto impegnato un plotone del 5° Reggimento Alpini al fianco di unità spagnole, slovene e ungheresi.
L'esercitazione si è articolata in due moduli: il primo dedicato alla mobilità in ambiente montano, finalizzato ad affinare le capacità tecniche di movimento su terreni impervi e difficilmente accessibili; il secondo focalizzato sulla condotta di operazioni offensive tra unità contrapposte. L’area delle esercitazioni ha compreso l’altopiano della Jelovica, nella regione di Gorenjska, e il massiccio del Ratitovec, tra i 900 e i 1.700 metri di altitudine.
La «Triglav Star 2025» è culminata in un’esercitazione continuativa durata 72 ore, durante la quale i militari hanno affrontato condizioni meteorologiche avverse – con terreno innevato e fangoso e intense raffiche di vento in quota. Nella fase finale, il plotone italiano è stato integrato in un complesso minore multinazionale a guida spagnola. La partecipazione di numerosi Paesi dell’Alleanza Atlantica ha rappresentato un’importante occasione di confronto, favorendo lo scambio di esperienze e competenze.
La «Triglav Star 2025» si è rivelata ottima occasione di crescita, contribuendo in modo significativo a rafforzare l’integrazione e l’interoperabilità tra le forze armate dei Paesi partecipanti.
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