True
2024-07-22
Anche Putin si riavvicina a Kabul. E questo non è un segnale di forza
Vladimir Putin (Ansa)
Vladimir Putin qualche giorno fa ha dichiarato all’agenzia Interfax che «i talebani sono al potere in Afghanistan, e in questo senso sono degli alleati nella lotta al terrorismo». Poi alla Tass ha ribadito il concetto: «Abbiamo ripetutamente ricevuto segnali dal movimento talebano che sono pronti a lavorare con noi sulla strada dell’antiterrorismo».
La Russia negli ultimi dieci anni è stata più volte colpita da attacchi terroristici commessi da cellule locali dell’Isis e lo stesso presidente russo, seppur esagerando, ha detto che il Servizio per la sicurezza della Federazione russa, meglio noto con la sigla Fsb, «negli ultimi ha sventato più di 200 attacchi». Tuttavia non è stato in grado di fare nulla lo scorso marzo, quando l’Iskp ha colpito il cuore di Mosca, beffando le agenzie di intelligence locali nonostante fossero state avvisate di un imminente attacco terroristico di grande portata. Ma cosa può davvero guadagnare la Russia da un accordo con i talebani, noti per non rispettare mai i patti scritti e firmati? La Cina ne sa qualcosa, avendo investito centinaia di milioni di dollari nelle miniere afghane senza riuscire a sfruttarle a causa dell’instabilità del Paese e della corruzione dilagante che porta i governatori locali a taglieggiare chiunque tenti di fare affari.
Vale lo stesso discorso fatto per gli Usa, ossia poco o nulla, con l’aggravante che al-Qaeda (l’alleato principale dei talebani) è molto presente in Asia centrale e attraverso le sue propaggini ha fondato il cosiddetto «Emirato del Caucaso» da sempre una spina nel fianco di Putin. Per l’analista Sophia Nina Burna-Asefi «l’interesse della Russia per l’Afghanistan può essere interpretato anche come una reazione alle pressioni occidentali. Quando si tratta di questioni di sicurezza nella sua sfera di influenza, Mosca tende ad agire in modo indipendente dall’Occidente e in collaborazione con la Cina. Mentre la Russia è operativa a livello pratico, contribuendo con esercitazioni di pattugliamento del confine in Asia centrale, la Cina adotta un approccio più distante e diplomatico. Tuttavia, nessuno dei due Paesi desidera assumere il ruolo lasciato dall’Occidente in Afghanistan dopo il ritiro degli Stati Uniti nel 2021. Come la storia insegna: un impegno militare diretto sarebbe un errore e sia la Russia che la Cina ne sono ben consapevoli».
La Russia ha intensificato i suoi sforzi nella regione fin dal 2014, in seguito all’annessione della Crimea e, l’anno successivo, al lancio della Belt and road initiative da parte della Cina. Il principale canale della Russia per impegnarsi con l’Afghanistan è stato attraverso le sue organizzazioni regionali. Le tre organizzazioni che svolgono un ruolo chiave nell’architettura di sicurezza regionale guidata dalla Russia includono la Csto, la Shanghai cooperation organization (Sco), un’organizzazione per la sicurezza e la difesa che conta otto membri (Cina, India, Kazakistan, Kirghizistan, Russia, Pakistan, Tagikistan, Uzbekistan, Iran) con l’Afghanistan come stato osservatore, e il «formato di Mosca» delle consultazioni di pace regionali sull’Afghanistan, che coinvolge incontri tra i ministri degli Esteri e i consiglieri per la Sicurezza nazionale di Russia, Cina, Pakistan, Afghanistan, Iran, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan. Ed è proprio da questi ultimi tre Paesi insieme al Daghestan e alla Cecenia, che tra il 2012 e il 2017 almeno 8.500 combattenti si sono uniti alle fila di gruppi jihadisti in Siria, principalmente con l’Isis e altri gruppi minori legati ad al-Qaeda. Molti sono deceduti, alcuni sono ancora sul campo di battaglia, mentre altri (circa 900) sono tornati in patria attraverso l’Afghanistan che non ha mai fatto nulla per fermare il transito degli jihadisti. Questi combattenti temprati dalla battaglia e competenti svolgono ruoli importanti all’interno dell’Isis e di al-Qaeda come fabbricanti di bombe, propagandisti e comandanti sul campo, e minacciano il Cremlino. Che per proteggersi dagli jihadisti prova a fare accordi con i talebani. Insomma, non certo un segnale di forza.
«Mosca non vuole problemi in Asia centrale»

Nel riquadro Lara Ballurio. Sullo sfondo il Cremlino (Ansa)
Lara Ballurio è una giornalista e analista specializzata in Russia e Asia centrale. L’abbiamo intervistata.
Vladimir Putin ha recentemente dichiarato che i talebani sono alleati della Federazione russa nella lotta al terrorismo. Ci aiuti a comprendere meglio il contesto.
«Può sorprendere sentire una dichiarazione del genere, ma le parole di Putin arrivano in un momento in cui la stabilità in Afghanistan è cruciale per l’intera comunità internazionale. La Russia ha sempre adottato un approccio pragmatico nel collaborare con vari attori, inclusi i talebani, per affrontare le minacce terroristiche e garantire la sicurezza regionale. Putin sembra voler sottolineare che i talebani, dopo aver ripreso il controllo dell’Afghanistan nel 2021, sono diventati il governo de facto del paese. Questo, secondo il presidente della Federazione russa, implica riconoscere che, nonostante siano stati precedentemente classificati come un’organizzazione terroristica, ora - secondo la logica del pragmatismo politico - è necessario collaborare con loro per mantenere la stabilità in Afghanistan. Questo approccio mette in primo piano obiettivi pratici e immediati, come la sicurezza e la stabilità, piuttosto che aderire rigidamente a una politica che potrebbe risultare inefficace nelle circostanze attuali. La Russia, oggi più che mai, come molte altre nazioni è interessata a evitare il proliferare di gruppi terroristici e a garantire una certa stabilità nella regione. Pertanto, si pone ora la sfida di come rapportarsi con il nuovo governo talebano».
Quali potrebbero essere le implicazioni di questa alleanza?
«Le implicazioni sono diverse. Da un lato, potrebbe facilitare la cooperazione nella condivisione di informazioni e nelle operazioni contro gruppi terroristici come l’Isis, che rappresenta una minaccia sia per la Russia sia per l’Afghanistan. Questo potrebbe contribuire a una maggiore sicurezza regionale e a una riduzione delle attività terroristiche transfrontaliere. Dall’altro lato, questa dichiarazione potrebbe suscitare critiche da parte di coloro che vedono i talebani stessi come una fonte di instabilità e violenza, ricordando che sono stati banditi come organizzazione terroristica in Russia. Questa alleanza potrebbe anche complicare le relazioni della Russia con altri Paesi che non riconoscono i talebani come un governo legittimo e che continuano a considerarli un’organizzazione terroristica. Tuttavia, dal punto di vista di Putin, collaborare con il governo attuale dell’Afghanistan è una strategia necessaria per contenere la diffusione del terrorismo. Inoltre, questa alleanza potrebbe rafforzare l’influenza della Russia in Asia centrale, un’area che, come sappiamo, è di grande importanza strategica per Mosca, consolidando così il suo ruolo di attore chiave nella sicurezza regionale».
Putin ha menzionato che i talebani hanno espresso la volontà di lavorare con la Russia nella lotta al terrorismo. Possiamo fidarci di questi segnali?
«Premesso che stiamo parlando di Putin e di un gruppo che lui stesso ha definito terroristico, la fiducia in questi segnali è relativa e dipende in gran parte dalla verifica pratica delle intenzioni dichiarate dai talebani. Storicamente, i talebani hanno avuto relazioni complesse con vari gruppi terroristici. Oltre alla Russia, molti Paesi, tra cui gli Stati Uniti e membri dell’Unione europea, hanno designato i talebani come un’organizzazione terroristica a causa delle loro attività violente, dei legami con al-Qaeda e dell’uso di tattiche terroristiche durante la loro insurrezione contro il governo afghano e le forze internazionali. Pertanto, il loro impegno per la stabilità e la lotta contro il terrorismo dovrà essere attentamente monitorato. Non vi è alcun dubbio che la Russia - come altre potenze che intraprenderanno un approccio pragmatico simile al suo, del resto - dovrà valutare costantemente la sincerità e l’efficacia di questa collaborazione attraverso risultati concreti».
Se la stabilità in Afghanistan dovesse crollare e i talebani tentassero di espandere la loro influenza oltre confine, quali sarebbero le conseguenze per la Russia?
«La preoccupazione principale deriva dalle attività terroristiche e insurrezionali nella regione, inclusi i legami tra vari gruppi estremisti e le loro influenze sui territori confinanti con la Russia. Negli anni Novanta, la Russia ha affrontato gravi problemi di terrorismo nel Caucaso del Nord, soprattutto in Cecenia e Daghestan. Sebbene non ci siano prove di un coinvolgimento diretto dei talebani in queste regioni, ci sono stati collegamenti tra i combattenti ceceni e gruppi estremisti in Afghanistan, che ha ospitato vari jihadisti. Gli estremisti attivi in Russia hanno avuto legami con al-Qaeda e altri movimenti jihadisti globali, influenzando significativamente la sicurezza e la politica internazionale. Anche se i legami sono spesso indiretti, l’ideologia e le tattiche si condizionano reciprocamente. La principale preoccupazione della Russia è che un Afghanistan instabile sotto il controllo talebano possa diventare un santuario per ulteriori gruppi jihadisti, con influenze destabilizzanti nei Paesi dell’Asia centrale confinanti con la Russia».
Continua a leggereRiduci
La lunga scia di attentati in territorio russo ha convinto il governo a lanciare segnali agli ex studenti coranici. Una scelta incauta, considerando che i loro alleati qaedisti sono da sempre una spina nel fianco del Cremlino.L’analista Lara Ballurio spiega gli obiettivi dello zar: «Intende stabilizzare la regione usando un approccio pragmatico».Lo speciale contiene due articoli.Vladimir Putin qualche giorno fa ha dichiarato all’agenzia Interfax che «i talebani sono al potere in Afghanistan, e in questo senso sono degli alleati nella lotta al terrorismo». Poi alla Tass ha ribadito il concetto: «Abbiamo ripetutamente ricevuto segnali dal movimento talebano che sono pronti a lavorare con noi sulla strada dell’antiterrorismo». La Russia negli ultimi dieci anni è stata più volte colpita da attacchi terroristici commessi da cellule locali dell’Isis e lo stesso presidente russo, seppur esagerando, ha detto che il Servizio per la sicurezza della Federazione russa, meglio noto con la sigla Fsb, «negli ultimi ha sventato più di 200 attacchi». Tuttavia non è stato in grado di fare nulla lo scorso marzo, quando l’Iskp ha colpito il cuore di Mosca, beffando le agenzie di intelligence locali nonostante fossero state avvisate di un imminente attacco terroristico di grande portata. Ma cosa può davvero guadagnare la Russia da un accordo con i talebani, noti per non rispettare mai i patti scritti e firmati? La Cina ne sa qualcosa, avendo investito centinaia di milioni di dollari nelle miniere afghane senza riuscire a sfruttarle a causa dell’instabilità del Paese e della corruzione dilagante che porta i governatori locali a taglieggiare chiunque tenti di fare affari. Vale lo stesso discorso fatto per gli Usa, ossia poco o nulla, con l’aggravante che al-Qaeda (l’alleato principale dei talebani) è molto presente in Asia centrale e attraverso le sue propaggini ha fondato il cosiddetto «Emirato del Caucaso» da sempre una spina nel fianco di Putin. Per l’analista Sophia Nina Burna-Asefi «l’interesse della Russia per l’Afghanistan può essere interpretato anche come una reazione alle pressioni occidentali. Quando si tratta di questioni di sicurezza nella sua sfera di influenza, Mosca tende ad agire in modo indipendente dall’Occidente e in collaborazione con la Cina. Mentre la Russia è operativa a livello pratico, contribuendo con esercitazioni di pattugliamento del confine in Asia centrale, la Cina adotta un approccio più distante e diplomatico. Tuttavia, nessuno dei due Paesi desidera assumere il ruolo lasciato dall’Occidente in Afghanistan dopo il ritiro degli Stati Uniti nel 2021. Come la storia insegna: un impegno militare diretto sarebbe un errore e sia la Russia che la Cina ne sono ben consapevoli». La Russia ha intensificato i suoi sforzi nella regione fin dal 2014, in seguito all’annessione della Crimea e, l’anno successivo, al lancio della Belt and road initiative da parte della Cina. Il principale canale della Russia per impegnarsi con l’Afghanistan è stato attraverso le sue organizzazioni regionali. Le tre organizzazioni che svolgono un ruolo chiave nell’architettura di sicurezza regionale guidata dalla Russia includono la Csto, la Shanghai cooperation organization (Sco), un’organizzazione per la sicurezza e la difesa che conta otto membri (Cina, India, Kazakistan, Kirghizistan, Russia, Pakistan, Tagikistan, Uzbekistan, Iran) con l’Afghanistan come stato osservatore, e il «formato di Mosca» delle consultazioni di pace regionali sull’Afghanistan, che coinvolge incontri tra i ministri degli Esteri e i consiglieri per la Sicurezza nazionale di Russia, Cina, Pakistan, Afghanistan, Iran, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan. Ed è proprio da questi ultimi tre Paesi insieme al Daghestan e alla Cecenia, che tra il 2012 e il 2017 almeno 8.500 combattenti si sono uniti alle fila di gruppi jihadisti in Siria, principalmente con l’Isis e altri gruppi minori legati ad al-Qaeda. Molti sono deceduti, alcuni sono ancora sul campo di battaglia, mentre altri (circa 900) sono tornati in patria attraverso l’Afghanistan che non ha mai fatto nulla per fermare il transito degli jihadisti. Questi combattenti temprati dalla battaglia e competenti svolgono ruoli importanti all’interno dell’Isis e di al-Qaeda come fabbricanti di bombe, propagandisti e comandanti sul campo, e minacciano il Cremlino. Che per proteggersi dagli jihadisti prova a fare accordi con i talebani. Insomma, non certo un segnale di forza.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/anche-putin-si-riavvicina-kabul-2668786481.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="mosca-non-vuole-problemi-in-asia-centrale" data-post-id="2668786481" data-published-at="1721584712" data-use-pagination="False"> «Mosca non vuole problemi in Asia centrale» Nel riquadro Lara Ballurio. Sullo sfondo il Cremlino (Ansa) Lara Ballurio è una giornalista e analista specializzata in Russia e Asia centrale. L’abbiamo intervistata. Vladimir Putin ha recentemente dichiarato che i talebani sono alleati della Federazione russa nella lotta al terrorismo. Ci aiuti a comprendere meglio il contesto. «Può sorprendere sentire una dichiarazione del genere, ma le parole di Putin arrivano in un momento in cui la stabilità in Afghanistan è cruciale per l’intera comunità internazionale. La Russia ha sempre adottato un approccio pragmatico nel collaborare con vari attori, inclusi i talebani, per affrontare le minacce terroristiche e garantire la sicurezza regionale. Putin sembra voler sottolineare che i talebani, dopo aver ripreso il controllo dell’Afghanistan nel 2021, sono diventati il governo de facto del paese. Questo, secondo il presidente della Federazione russa, implica riconoscere che, nonostante siano stati precedentemente classificati come un’organizzazione terroristica, ora - secondo la logica del pragmatismo politico - è necessario collaborare con loro per mantenere la stabilità in Afghanistan. Questo approccio mette in primo piano obiettivi pratici e immediati, come la sicurezza e la stabilità, piuttosto che aderire rigidamente a una politica che potrebbe risultare inefficace nelle circostanze attuali. La Russia, oggi più che mai, come molte altre nazioni è interessata a evitare il proliferare di gruppi terroristici e a garantire una certa stabilità nella regione. Pertanto, si pone ora la sfida di come rapportarsi con il nuovo governo talebano». Quali potrebbero essere le implicazioni di questa alleanza? «Le implicazioni sono diverse. Da un lato, potrebbe facilitare la cooperazione nella condivisione di informazioni e nelle operazioni contro gruppi terroristici come l’Isis, che rappresenta una minaccia sia per la Russia sia per l’Afghanistan. Questo potrebbe contribuire a una maggiore sicurezza regionale e a una riduzione delle attività terroristiche transfrontaliere. Dall’altro lato, questa dichiarazione potrebbe suscitare critiche da parte di coloro che vedono i talebani stessi come una fonte di instabilità e violenza, ricordando che sono stati banditi come organizzazione terroristica in Russia. Questa alleanza potrebbe anche complicare le relazioni della Russia con altri Paesi che non riconoscono i talebani come un governo legittimo e che continuano a considerarli un’organizzazione terroristica. Tuttavia, dal punto di vista di Putin, collaborare con il governo attuale dell’Afghanistan è una strategia necessaria per contenere la diffusione del terrorismo. Inoltre, questa alleanza potrebbe rafforzare l’influenza della Russia in Asia centrale, un’area che, come sappiamo, è di grande importanza strategica per Mosca, consolidando così il suo ruolo di attore chiave nella sicurezza regionale». Putin ha menzionato che i talebani hanno espresso la volontà di lavorare con la Russia nella lotta al terrorismo. Possiamo fidarci di questi segnali? «Premesso che stiamo parlando di Putin e di un gruppo che lui stesso ha definito terroristico, la fiducia in questi segnali è relativa e dipende in gran parte dalla verifica pratica delle intenzioni dichiarate dai talebani. Storicamente, i talebani hanno avuto relazioni complesse con vari gruppi terroristici. Oltre alla Russia, molti Paesi, tra cui gli Stati Uniti e membri dell’Unione europea, hanno designato i talebani come un’organizzazione terroristica a causa delle loro attività violente, dei legami con al-Qaeda e dell’uso di tattiche terroristiche durante la loro insurrezione contro il governo afghano e le forze internazionali. Pertanto, il loro impegno per la stabilità e la lotta contro il terrorismo dovrà essere attentamente monitorato. Non vi è alcun dubbio che la Russia - come altre potenze che intraprenderanno un approccio pragmatico simile al suo, del resto - dovrà valutare costantemente la sincerità e l’efficacia di questa collaborazione attraverso risultati concreti». Se la stabilità in Afghanistan dovesse crollare e i talebani tentassero di espandere la loro influenza oltre confine, quali sarebbero le conseguenze per la Russia? «La preoccupazione principale deriva dalle attività terroristiche e insurrezionali nella regione, inclusi i legami tra vari gruppi estremisti e le loro influenze sui territori confinanti con la Russia. Negli anni Novanta, la Russia ha affrontato gravi problemi di terrorismo nel Caucaso del Nord, soprattutto in Cecenia e Daghestan. Sebbene non ci siano prove di un coinvolgimento diretto dei talebani in queste regioni, ci sono stati collegamenti tra i combattenti ceceni e gruppi estremisti in Afghanistan, che ha ospitato vari jihadisti. Gli estremisti attivi in Russia hanno avuto legami con al-Qaeda e altri movimenti jihadisti globali, influenzando significativamente la sicurezza e la politica internazionale. Anche se i legami sono spesso indiretti, l’ideologia e le tattiche si condizionano reciprocamente. La principale preoccupazione della Russia è che un Afghanistan instabile sotto il controllo talebano possa diventare un santuario per ulteriori gruppi jihadisti, con influenze destabilizzanti nei Paesi dell’Asia centrale confinanti con la Russia».
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
Continua a leggereRiduci
Ecco #DimmiLaVerità del 10 dicembre 2025. Con il nostro Alessandro Rico analizziamo gli ostacoli che molti leader europei mettono sulla strada della pace in Ucraina.
L’intesa riguarda l’acquisto di un’area di 15.000 metri quadrati dal Consorzio ZAI e prevede un investimento complessivo di circa 20 milioni di euro. Si tratta di un progetto greenfield, cioè realizzato ex novo, che darà vita a un centro di manutenzione pensato fin dall’origine per rispondere alle esigenze della logistica ferroviaria europea e alla crescita del traffico merci su rotaia.
Il nuovo impianto sarà concepito secondo un modello open access, dunque accessibile a locomotive di diversi costruttori. L’hub ospiterà cinque binari dedicati alla manutenzione leggera e un binario riservato al tornio per la riprofilatura delle ruote, consentendo di effettuare test e interventi su locomotive multisistema e in corrente continua, compatibili con i principali sistemi di segnalamento europei. L’obiettivo è garantire elevati livelli di affidabilità e disponibilità operativa dei mezzi attraverso ispezioni programmate e interventi rapidi lungo l’intero ciclo di vita dei veicoli.
La scelta di Verona si lega alla centralità del corridoio Verona–Brennero, infrastruttura destinata a un deciso aumento della capacità ferroviaria con l’apertura della Galleria di Base del Brennero, prevista per il 2032. Il nuovo hub si inserirà inoltre in una rete già consolidata, integrandosi con il Rail Service Center di Siemens Mobility a Novara, operativo dal 2015 sul corridoio TEN-T Reno-Alpi e oggi punto di riferimento per la manutenzione di oltre 120 locomotive di operatori europei.
«Questo investimento rappresenta un ulteriore passo nel nostro impegno a favore di un trasporto merci sempre più sostenibile», ha dichiarato Pierfrancesco De Rossi, Ceo di Siemens Mobility in Italia. Secondo De Rossi, il nuovo hub di Verona è «una scelta strategica che conferma la fiducia di Siemens Mobility nel Paese e nel suo ruolo centrale nello sviluppo del settore», con l’obiettivo di rafforzare la posizione dell’Italia nella rete logistica europea e sostenere il passaggio verso modalità di trasporto meno impattanti.
Il progetto nasce dall’integrazione delle competenze delle due aziende. Siemens Mobility porterà a Verona l’esperienza maturata nella manutenzione delle locomotive dedicate al trasporto merci, mentre RAILPOOL contribuirà con il know-how sviluppato a livello europeo, facendo leva su sei officine di proprietà e su una rete di supporto che può contare su oltre 4.500 parti di ricambio disponibili a magazzino.
«Con il nuovo centro di manutenzione di Verona ampliamo il nostro potenziale manutentivo in una delle aree logistiche più strategiche d’Europa», ha spiegato Alberto Lacchini, General Manager di RAILPOOL Italia. Si tratta, ha aggiunto, di un investimento che riflette «un impegno di lungo periodo nel fornire soluzioni di leasing affidabili e complete», in grado di rispondere a esigenze operative in continua evoluzione.
La collaborazione tra Siemens Mobility e RAILPOOL si inserisce in un percorso avviato nel 2024, quando le due società hanno sottoscritto un accordo quadro per la fornitura a RAILPOOL di circa 250 locomotive, incluse le varianti multisistema Vectron oggi operative in 16 Paesi lungo i principali corridoi ferroviari europei.
Sul valore dell’investimento è intervenuta anche Barbara Cimmino, vice presidente di Confindustria per l’Export e l’Attrazione degli Investimenti e presidente dell’Advisory Board Investitori Esteri. «L’investimento di Siemens Mobility in Veneto è un segnale significativo per la competitività italiana», ha affermato, sottolineando come il progetto confermi la centralità del Paese nella logistica ferroviaria europea e nei processi di transizione sostenibile. Un’iniziativa che, secondo Cimmino, evidenzia il contributo degli investitori internazionali nel rafforzare le filiere strategiche e la capacità dell’Italia di offrire ecosistemi solidi e competenze tecniche avanzate.
Per Siemens Mobility, la manutenzione delle locomotive resta una delle attività centrali anche in Italia, all’interno di una rete globale che comprende oltre 100 sedi in più di 30 Paesi e circa 7.000 specialisti. L’apertura del nuovo hub di Verona consolida questo presidio e rafforza il ruolo del Paese come snodo industriale e logistico in una fase di forte crescita del trasporto merci su ferro.
Continua a leggereRiduci