
Se libertà è poter essere ciò che siamo, annullare le identità significa negare l’altro da sé.Il vero problema con i discorsi riguardanti il gender è che non dovrebbero essere nemmeno affrontati. Per un motivo perfino banale: complicano inutilmente ciò che complicato non è e non dovrebbe essere; rendono torbido e confuso ciò che altrimenti sarebbe cristallino; creano una giungla d’asfalto burocratica all’interno della quale anche le menti più raffinate si perdono. Tanto è più grande la sofisticazione, tanto più facile risulta smarrirsi e confondersi. Di questo caos è piuttosto emblematico l’articolo di Concita De Gregorio uscito ieri su Repubblica, una sorta di riflessione a posteriori sul caso di Imane Khelif e su quel che ci ha lasciato.Concita esprime un concetto condivisibile e fondante: «È nella differenza che cresce l’eguaglianza. Non importa che tu definisca chi sei, importa che tu sia libero di esserlo». L’editorialista di Repubblica coglie l’assurdità del burocratismo gender, si accorge delle contorsioni sinaptiche - del tutto inutili e dannose - a cui ci obbliga. E infatti scrive: «La storia di Imane Khelif è anche [...] la misura dell’inadeguatezza lessicale di fronte all’incontenibile varietà della realtà e del bisogno piccino, ottuso, che abbiamo di dare a ciascuno un’etichetta. Ci sentiamo più sicuri, così? Definiamo la nostra identità, in assenza di altri metodi e talenti, per appartenenza o distinzione?». Ma ecco, dietro il buonsenso, sorgere la nebbia: «Non sarebbe più semplice invece», si chiede De Gregorio, «togliere confini anziché moltiplicarli e dire c’è posto per tutti, è un posto grande questo». Qui sta tutta la confusione dell’oggi. Un conto è l’ossessione classificatoria dei paladini del gender, un altro conto è l’abbattimento dei confini. Se è vero che la libertà sta nella differenza, è esattamente il confine, il limite, a rendere possibile questa differenza e a restituircene la bellezza. Imane Khelif può trovare la sua bellezza innata proprio nella differenza che la contraddistingue, ma a nessuno - tantomeno a qualche capoccione del Comitato olimpico - è concesso il diritto di distruggere il confine fra i sessi. Il confine, per definizione, è poroso, è la soglia che marca l’identità e rende possibile il dialogo, il confronto. Senza il confine non esiste l’Altro, ma soltanto l’uguale, l’uniforme. Il quale, però, solo apparentemente è liscio e ordinato: sotto la superficie si nasconde il caos più totale, che fuoriesce copioso non appena si rompono gli argini. Il caso Khelif fornisce di tutto questo una prova quasi schiacciante. All’apparenza esso risolve la questione gender stabilendo che le differenze non esistono, che basta un foglio di carta per regolare la realtà. Nella funzione burocratica si impone un ordine che, però, si sbriciola non appena si mette piede nella concretezza del reale. Giusto ieri il Telegraph ha dato notizia di una vicenda abbastanza agghiacciante. «Ai radiologi di diversi ospedali», racconta il giornale britannico, «è stato detto di verificare se tutti i pazienti di età compresa tra i 12 e i 55 anni siano incinti, indipendentemente dal sesso, come stabilito dalle linee guida sull’inclusione». In buona sostanza i tecnici di radiologia, prima di effettuare un esame, dovranno chiedere ai pazienti maschi se siano incinti, perché così stabiliscono le linee guida sulla inclusione. Tali indicazioni, spiega il Telegraph, sono state scritte «dopo un incidente in cui un uomo trans (cioè una donna diventata uomo, ndr) che era inconsapevolmente incinta è stato sottoposto a una Tac». Secondo le linee guida, «il personale deve includere i pazienti transgender, non binari e intersessuali non facendo supposizioni sulle persone».L’inchiesta del Telegraph rivela dettagli raccapriccianti. «Le radiazioni provenienti dalle scansioni a raggi X, così come i trattamenti contro il cancro, possono essere pericolose per i bambini non ancora nati, ma i protocolli progettati per essere inclusivi hanno causato confusione e rabbia tra i pazienti e rappresentano un rischio per la loro sicurezza, secondo il personale del Servizio sanitario nazionale», riporta il quotidiano. «I radiologi hanno rivelato che queste misure hanno costretto uomini ad andarsene dagli appuntamenti e hanno ridotto donne in lacrime a causa di domande invasive sulla fertilità. I radiologi dicono anche che ai pazienti viene chiesto di compilare moduli di gravidanza indicando il loro sesso alla nascita, nome e pronomi preferiti, e di leggere spiegazioni “ridicole” sulle persone che nascono con variazioni nelle caratteristiche sessuali».Deliri come questo esplodono quando si vogliono demolire i confini e si vuole sostituire all’ordine della realtà il caos ideologico, che finge di stabilire un nuovo ordine ma si rivela una coperta troppo corta per nascondere le macerie. La libertà esiste nella differenza, ma appunto le differenze vanno salvaguardate e preservate. Ognuno deve essere libero di manifestare la propria identità, ma non è titolato a sbriciolare l’identità di tutti gli altri: per valorizzare l’eccezione, servono le regole. E quali siano queste regole non sono certo comitati e burocrati a stabilirlo.
L' Altro Picasso, allestimento della mostra, Aosta. Ph: S. Venturini
Al Museo Archeologico Regionale di Aosta una mostra (sino al 19 ottobre 2025) che ripercorre la vita e le opere di Pablo Picasso svelando le profonde influenze che ebbero sulla sua arte le sue origini e le tradizioni familiari. Un’esposizione affascinante, fra ceramiche, incisioni, design scenografico e le varie tecniche artistiche utilizzate dall’inarrivabile genio spagnolo.
Jose Mourinho (Getty Images)
Con l’esonero dal Fenerbahce, si è chiusa la sua parentesi da «Special One». Ma come in ogni suo divorzio calcistico, ha incassato una ricca buonuscita. In campo era un fiasco, in panchina un asso. Amava avere molti nemici. Anche se uno tentò di accoltellarlo.