
La chiusura dei manicomi non ha risolto il problema della gestione e della cura dei soggetti con disturbi psichiatrici gravi. L'antipsichiatria di sinistra che nega i rischi della malattia mentale in nome dell'inclusione.L'Italia, oggi, è l'unico paese al mondo senza più manicomi. La legge 180 del 13 maggio 1978 conosciuta meglio come legge Basaglia è la prima e unica legge quadro che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. Rimasero in piedi da allora gli ospedali psichiatrici giudiziari che presero il posto dei manicomi criminali, ma solo fino al 2015 quando si stabilì di chiudere anche quelli. Oggi l’unico strumento sono le REMS le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. La società italiana di psichiatria l'anno scorso segnalava un enorme aumento degli invii ai Servizi Psichiatrici degli autori di reato che sta spostando i problemi irrisolti delle carceri alle strutture che hanno sostituito gli OPG, le cosiddette REMS, ed alle altre strutture del Dipartimento di Salute Mentale. Purtroppo però le REMS sono sature da anni. Nel 2017 il Consiglio superiore della magistratura denunciava: «Dopo la chiusura degli Opg, le REMS sono piene e i criminali malati mentali restano liberi». Il risultato è che gli autori di reato rimangono liberi per mesi in attesa del posto in REMS e vengono affidati alla ‘vigilanza’ di strutture sanitarie che però non hanno le capacità e gli strumenti di controllo del comportamento violento e sono esposti costantemente al rischio. «Sono centinaia le segnalazioni di fatti violenti ogni giorno, ma migliaia sono quelli non denunciati per palese impossibilità di intervento e di risposta anche da parte degli organi addetti quali magistratura, polizia e carabinieri. Questo crea un contesto invivibile nonostante il personale in servizio, da anni sottovalutato, stia dando il massimo possibile». Così la Sip, Società italiana di psichiatria. Le motivazioni che spinsero a chiudere i manicomi furono principalmente di tipo etico. Nel 1904 la legge Giolitti regolamentò i manicomi definendo le modalità di cura dei malati di mente, chiamati allora «alienati». Di fatto la Legge Giolitti stabiliva come criterio di internamento la pericolosità sociale e il pubblico scandalo. Quindi si veniva ricoverati perché giudicati pericolosi per sé e per gli altri, oppure perché si dava pubblico scandalo.Nei manicomi si ritrovavano rinchiusi insieme non solo i malati mente, ma anche coloro che erano ai margini della società, dai barboni ai piccoli delinquenti, dalle prostitute agli insufficienti mentali, dagli omosessuali agli alcolisti. Vi si praticavano elettroshock e contenzioni, e perfino la lobotomia frontale che rendeva tranquilli i degenti più agitati.Negli anni a seguire, durante il fascismo, i manicomi o frenocomi servirono a eliminare in maniera silenziosa gli oppositori politici.A sancire il ricovero d’urgenza, senza alcuna volontà della persona (TSO), non era solo l’autorità di pubblica sicurezza, ma anche la figura politica con nomina governativa, che dal 1926 sostituì quella del sindaco. Nel postfascismo quindi il manicomio cominciò ad esser visto come uno strumento di regime che andava eliminato. Un processo, un pensiero che nacque negli anni sessanta per poi svilupparsi negli anni settanta. L’idea era quella di trasformare il paziente psichiatrico grave da oggetto pericoloso, incurabile, da allontanare dalla società, a soggetto attore della propria vita con i diritti di cittadinanza, compreso il diritto alla cura, con la quale si può anche guarire. Franco Basaglia il 16 novembre 1961 arriva a Gorizia come nuovo direttore dell’ospedale psichiatrico provinciale. Lì mette in atto le sue teorie che andavano in controtendenza all’epoca e che promuovevano un innovativo metodo di cura e ascolto che sosteneva il rispetto della persona umana, poneva al centro l’individuo e non la malattia, e metteva tra parentesi la diagnosi, restituendo valore e dignità alla storia del singolo. Tra il 1961 e il 1968, Basaglia si circonda di un nutrito gruppo di psichiatri affini alle sue tesi, che si approccia alla malattia mentale con nuovi presupposti: nella struttura gestita dallo psichiatra veneziano, i pazienti vengono lasciati liberi di passeggiare tra il giardino e i diversi edifici, di consumare i pasti all’aperto e di frequentare la società. Nel 1965 l'allora ministro della Sanità, il socialista Luigi Mariotti, denunciò pubblicamente la situazione: «Abbiamo oggi degli ospedali psichiatrici che somigliano a veri e propri lager germanici, […] a delle bolge dantesche. I malati di mente […] sono considerati irrecuperabili e sono anche schedati […] nel casellario giudiziario presso il Tribunale, come se fossero rei comuni. Bisogna introdurre in questo mondo degli elementi che stabiliscano un rapporto nuovo tra malato e medico». Nel 1973 nasce il movimento ‘Psichiatria democratica’. Franco Basaglia muore il 29 agosto 1980, ma due anni prima ottenne la sua vittoria con una legge che prese il suo nome che imponeva appunto la chiusura dei manicomi.La pericolosità di alcuni soggetti gravi però era e resta un fatto e non dovrebbe essere abolita per legge. Una legge che fu fatta per ideologia non seguendo i criteri del buonsenso.Bisogna anche ammettere che però le condizioni di vita all’interno dei manicomi erano peggiori di quelle di un qualsiasi penitenziario. Le terapie applicate erano la segregazione nei letti di contenzione, la camicia di forza, l’elettroshock, le docce fredde, l’insulino-terapia, la lobotomia. Ai tempi nei manicomi non era previsto nessun tipo di colloquio terapeutico, perché il problema psichiatrico era considerato di natura biologica e non psicologica. Ai pazienti era impedito di avere contatti con l’esterno e gli era impedito qualsiasi tipo di rapporto umano.La psichiatria ha fatto passi da gigante nel frattempo, così come tutta la medicina. Eppure invece di riformare queste strutture, migliorarle, si è deciso di abolirle. Unici al mondo ad averlo fatto.Nel frattempo le malattie mentali, anche gravi sono aumentate esponenzialmente. Da uno studio dell’Osservatorio Suicidi della Fondazione Brf - Istituto per la Ricerca in Psichiatria e Neuroscienze emerge che da gennaio 2023 ad agosto 2023 si contano 608 suicidi e 541 casi di tentati suicidi, in aumento vertiginoso rispetto ai dati raccolti nello stesso periodo dell'anno scorso quando i suicidi, sempre ovviamente considerando solo le notizie di cronaca uscite sui giornali, erano stati 351 suicidi e i tentati suicidi 391.Per altro sono sempre di più i giovani a soffrire la malattia mentale che se non curata o curata male spesso degenera in età adulta. Con la chiusura dei manicomi insomma non si è pensato a prevedere delle strutture nuove, diverse, anzi i posti letto e il personale medico è sempre più carente e meno presente sul territorio.«In Italia ci sono solo 325 posti letto di neuropsichiatria infantile», afferma Antonella Costantino, presidente della Società italiana di neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza (Sinpia). Risultato: «Solo un terzo dei ragazzini che hanno bisogno di un ricovero in neuropsichiatria infantile per un disturbo psichiatrico acuto - rileva - riescono ad essere ricoverati effettivamente in questo reparto». L’anno scorso un episodio di cronaca ha riportato il tema dell’istituzione di nuove strutture psichiatriche di nuovo sulle pagine dei giornali. Una psichiatra di Pisa, Barbara Capovani, è stata uccisa da un suo paziente a sprangate. Morta dopo giorni di agonia in ospedale perché in Italia i pazienti psichiatrici socialmente pericolosi possono girare liberamente. Questa è una storia, ma ce ne sono moltissime altre. Eppure quando si riapre il dibattito sulla possibilità di ripensare la legge 180, ci si mette subito dietro le barricate. Da una parte i «fascisti che vogliono riaprire i manicomi» dall’altra parte i soliti buoni con scudi e mantelli pronti a difendere la dignità del malato. Solo che esistono delle evidenze scientifiche e c’è tutta una corrente di psichiatri che ritiene sia il caso di ripensare alla creazione di nuove strutture moderne dove poter curare i casi più difficili. Sul tema ha rilasciato un’interessante intervista Emi Bondi, presidente della società italiana di psichiatria.«L’organizzazione dei Dipartimenti di Salute Mentale – ha spiegato a La Repubblica– deve prevedere modelli organizzativi elastici nei quali, alla tradizionale rete dei servizi (Centri di Salute Mentale, Centri Diurni, Day Hospital, SPDC, Strutture Residenziali) possano affiancarsi strutture ancora più specialistiche dedicate utenti definiti per bisogni specifici (es. esordi psicotici, disturbi di personalità gravi, autori di reato, autismo, disturbi del comportamento alimentare)». Insomma sono gli stessi medici a chiederlo. Non li vogliamo chiamare manicomi, bene, purché se ne parli.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».
Antonio Scoppetta (Ansa)
- Nell’inchiesta spunta Alberto Marchesi, dal passato turbolento e gran frequentatore di sale da gioco con toghe e carabinieri
- Ora i loro legali meditano di denunciare la Procura per possibile falso ideologico.
Lo speciale contiene due articoli
92 giorni di cella insieme con Cleo Stefanescu, nipote di uno dei personaggi tornati di moda intorno all’omicidio di Garlasco: Flavius Savu, il rumeno che avrebbe ricattato il vicerettore del santuario della Bozzola accusato di molestie.
Marchesi ha vissuto in bilico tra l’abisso e la resurrezione, tra campi agricoli e casinò, dove, tra un processo e l’altro, si recava con magistrati e carabinieri. Sostiene di essere in cura per ludopatia dal 1987, ma resta un gran frequentatore di case da gioco, a partire da quella di Campione d’Italia, dove l’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti è stato presidente fino a settembre.
Dopo i problemi con la droga si è reinventato agricoltore, ha creato un’azienda ed è diventato presidente del Consorzio forestale di Pavia, un mondo su cui vegliano i carabinieri della Forestale, quelli da cui provenivano alcuni dei militari finiti sotto inchiesta per svariati reati, come il maresciallo Antonio Scoppetta (Marchesi lo conosce da almeno vent’anni).
Mucche (iStock)
In Danimarca è obbligatorio per legge un additivo al mangime che riduce la CO2. Allevatori furiosi perché si munge di meno, la qualità cala e i capi stanno morendo.
«L’errore? Il delirio di onnipotenza per avere tutto e subito: lo dico mentre a Belém aprono la Cop30, ma gli effetti sul clima partendo dalle stalle non si bloccano per decreto». Chi parla è il professor Giuseppe Pulina, uno dei massimi scienziati sulle produzioni animali, presidente di Carni sostenibili. Il caso scoppia in Danimarca; gli allevatori sono sul piede di guerra - per dirla con la famosissima lettera di Totò e Peppino - «specie quest’anno che c’è stata la grande moria delle vacche». Come voi ben sapete, hanno aggiunto al loro governo (primo al mondo a inventarsi una tassa sui «peti» di bovini e maiali), che gli impone per legge di alimentare le vacche con un additivo, il Bovaer del colosso chimico svizzero-olandese Dsm-Firmenich (13 miliardi di fatturato 30.000 dipendenti), capace di ridurre le flatulenze animali del 40%.





