2022-12-24
Allungare la guerra sostenendo Kiev non conviene soprattutto all’Europa
«Il logoramento è stato dannoso per l’Ucraina e l’Occidente, oltre che per la Russia», scrive «Foreign Affairs». La pressione economica è insufficiente per porre fine a un conflitto. E slogan e ideologie non bastano a vincere.Poco meno di un anno dopo siamo sempre lì: sotto le bombe. Mesi fa ci veniva ripetuto con martellante insistenza il ritornello secondo cui inviare più armi all’Ucraina avrebbe avvicinato la fine del conflitto. In effetti le armi - benché non troppo performanti, a quanto risulta - le abbiamo inviate e ci siamo impegnati a inviarle per tutto il 2023, ma ovviamente la guerra non è terminata. Non ci sarà nemmeno la tregua di Natale, e quel che lascia più sconcertati, oggi, è la totale assenza di un piano politico per la sospensione delle ostilità. Volodymir Zelensky, nei giorni scorsi, si è mosso da Kiev per recarsi - con il solito abito di scena militaresco - in visita a Washington. Ha ricevuto grandi applausi (addirittura venti standing ovation, riporta entusiasta la stampa amica) al Congresso americano, tuttavia a parte gli slogan e la retorica non pare esserci granché di nuovo sotto il sole.Qual è infatti il bilancio della visita Oltreoceano? Un bel mucchio di titoli di giornale, fra cui spicca il virgolettato zelenskiano secondo cui «Putin è come Hitler» e «deve essere fermato prima che invada altri Stati». Sono esattamente le stesse frasi snocciolate durante i collegamenti da remoto del presidente ucraino nei mesi passati. Per altro, se ben ricordate, il paragone fra la Russia e la Germania nazista fece irritare non poco (e giustamente) il governo israeliano. Si tratta, ovviamente, della consueta retorica del nemico assoluto che va sconfitto a tutti i costi in nome della libertà e della democrazia. Banalità, sotto un certo punto di vista. Tocca però notare che è proprio questa visione del conflitto a imprigionarci: con il nemico assoluto, con Hitler, non è dato venire a patti. L’unica cosa da fare - almeno così teorizza l’Occidente dalla fine della seconda guerra mondiale - è disintegrare il Male affinché il Bene trionfi.Peccato che la politica internazionale funzioni secondo altre logiche. Clausewitz spiegava che la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, punto fermo da cui consegue che - a un certo punto - il conflitto si deve arrestare una volta raggiunti gli obiettivi politici prefissi. Se ciò non avviene, la guerra comincia a diventare controproducente non solo sul piano umano ma - appunto - anche su quello politico. Il grosso guaio, nel caso dello scontro ucraino, sta nel fatto che né l’Europa né tantomeno l’Italia hanno un obiettivo politico. Finora sono andate a ruota degli Stati Uniti, le cui mire ci sovrastano e contemporaneamente ci schiacciano.Lo ha scritto senza mezzi termini la prestigiosa rivista Foreign Affairs per la penna di Vladislav Zubok, professore di Storia internazionale alla London school of economics. La sua analisi è impietosa. La «dura guerra di logoramento è già stata enormemente dannosa per l’Ucraina e l’Occidente, oltre che per la Russia», scrive l’autorevole commentatore. «Oltre sei milioni di ucraini sono stati costretti a fuggire, l’economia ucraina è in caduta libera e la diffusa distruzione delle infrastrutture energetiche del Paese minaccia una catastrofe umanitaria questo inverno». Kiev, nota Zubok, si mantiene soltanto grazie agli aiuti di Usa e Ue. E all’Europa in particolare tocca pagarne lo scotto. Anche se qualcuno - tipo Michele Serra su Repubblica - sostiene che tutto sommato siamo rimasti al caldo e le bollette sono aumentate meno del previsto (lo vada a raccontare a qualche imprenditore e veda le reazioni), il quadro complessivo non è incoraggiante. «I costi dell’energia in Europa sono aumentati drammaticamente a causa dell’interruzione dei normali flussi di petrolio e gas. Nel frattempo, nonostante le significative battute d’arresto, le forze russe si sono riorganizzate e non sono crollate». Non solo: «Molti hanno predetto con sicurezza che il commercio e l’industria russi sarebbero stati schiacciati dal peso delle sanzioni imposte dai governi occidentali», scrive Zubok. «Una pressione economica così estrema, è stato suggerito, potrebbe essere sufficiente per costringere Mosca a ritirarsi dall’Ucraina. Ma la pressione economica è raramente sufficiente per porre fine a una guerra. L’economia russa si è ridotta nel 2022, ma solo del tre per cento, molto meno di quanto alcuni avevano previsto, e il suo sistema finanziario si è dimostrato sostenibile e macroeconomicamente stabile. La Russia è tagliata fuori da molte catene di approvvigionamento occidentali, ma ha un surplus di conto corrente estremamente ampio, che consente alle aziende e al governo del Paese di trovare molto di ciò di cui hanno bisogno altrove». Ed eccoci al punto. A parere dell’analista della London school of economics, «ciò che manca è un piano politico coerente per porre fine alle sofferenze e per rassicurare gli ucraini che la Russia non inizierà una nuova guerra alla prima occasione, anche se Putin rimane al potere». Come si può raggiungere questo obiettivo? Soltanto seguendo la strada che in molti, anche in Italia, chiedono di percorrere. «Ciò richiederà ai russi di accettare una sconfitta, ma richiederà anche agli ucraini di accettare che la vittoria completa potrebbe essere irraggiungibile», certifica Zubok. «Se questi obiettivi devono essere raggiunti, le popolazioni occidentali dovranno accettare la fine dello status di paria della Russia e il suo «ritorno in Europa», fornendo credibili garanzie di sicurezza a Kiev. In altre parole, l’Occidente deve formulare una visione politica importante che ovvi al desiderio dell’Ucraina e dei suoi più fedeli sostenitori di distruggere e neutralizzare la Russia». L’alternativa è chiara e drammatica: «Una guerra di logoramento, il pericolo di un’escalation e di una catastrofe e un travagliato dopoguerra».Forse, a questo punto, l’Italia non ha più il potere di influenzare le decisioni sul conflitto e le eventuali trattative. Chissà, probabilmente non lo ha mai avuto, ma va detto che nemmeno ha provato a costruire un sentiero alternativo. Ci siamo legati al destino altrui e ora non ci resta che sperare. Continuando a inviare armi, la guerra non finirà nel breve periodo. E nel lungo periodo non si metterà affatto bene, tanto per noi quanto per Kiev. C’era una sola lezione da apprendere e non l’abbiamo imparata: slogan e ideologie non bastano a vincere le guerre.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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