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2021-07-05
Allarme materie prime. Ripresa economica a rischio
È bastato un tweet del big dell'auto elettrica, Elon Musk, per gettare un'ombra sulla ripresa economica mondiale. L'uscita dalla crisi avrà un costo altissimo che per alcuni Paesi. E non è detto che non si lasci addirittura dietro una scia di aziende morte. «I prezzi aumentano per la pressione dei costi della catena di approvvigionamento in tutta l'industria. Soprattutto delle materie prime», ha scritto il patron di Tesla. Bloomberg gli ha fatto eco titolando in modo allarmistico: «L'economia mondiale è improvvisamente a corto di tutto».
Colossi dell'auto che si fermano mettendo i dipendenti in cassa integrazione, fabbriche di elettrodomestici che ritardano le consegne, cantieri che marciano al rallentatore, nuove commesse che saltano, vecchi ordinativi rinviati. Perfino Apple, che ha un'efficiente gestione della catena produttiva in grado di lanciare simultaneamente i suoi prodotti in tutto il mondo, si sarebbe trovata in difficoltà. Cosa sta succedendo? Ecco le parole di Pietro Salini, amministratore delegato di Webuild, colosso delle costruzioni di grandi opere, in una recente intervista: «C'è il rischio che si fermino i cantieri proprio nel momento in cui devono essere avviati». È un rischio legato alle materie prime, diventate improvvisamente introvabili e costosissime.
Mancano rame, ferro, acciaio, semiconduttori, plastica, le preziose terre rare fondamentali per la tecnologia. Ma anche legname, cartone per imballaggi, e poi mais, caffè, frumento, soia. Nessun comparto produttivo è risparmiato dalla carestia di materiali e prodotti essenziali. Per capire come si è arrivati a questo dobbiamo tornare al lockdown, quando i valori delle materie prime sono crollati del 20-30% per il blocco generalizzato delle imprese. La Cina, che è stata la prima a uscire dalla pandemia, ha approfittato del crollo dei prezzi per fare scorte in anticipo sul resto del mondo. Così le imprese degli altri Paesi, abituate a fare poco magazzino, si sono trovate a secco di materie prime quando l'economia ha ripreso a marciare.
A questa miopia strategica si è sommata la speculazione. Le commodity, prezzate in dollari, sono diventate un investimento profittevole per chi le acquista in euro. Infine, come se non bastasse, è arrivata una chicca normativa. L'Organizzazione marittima internazionale ha imposto a tutte le navi di abbassare la quota di zolfo nell'olio combustibile: da gennaio 2020 si è passati dal 3,5% allo 0,5%. Molte navi container sono state rottamate, altre riconvertite, e il costo è stato scaricato sui prezzi. Il trasporto di merci per mare è decollato in un anno di oltre il 600%, come rileva il Dry Baltic index, l'indice che sintetizza gli oneri di nolo marittimo. La somma di questi fattori ha mandato in tilt il mercato globale. E parafrasando quello che dice Salini, nel momento in cui l'economia potrebbe decollare manca il carburante.
Per un Paese trasformatore come l'Italia, che è uscito da settori strategici come la chimica e l'acciaio e che deve importare quasi tutto, il problema è serio. Soprattutto se vengono a mancare le materie prime fondamentali per la transizione green e digitale che per il governo di Mario Draghi, in linea con l'Europa, sono i pilastri della ripresa economica. Parliamo di rame, litio, silicio, cobalto, terre rare, nickel, stagno, zinco, indispensabili nel sistema produttivo sostenibile. L'International energy agency ha stimato che la domanda di minerali per veicoli elettrici a batteria crescerà almeno di 30 volte entro il 2040. I prezzi di litio e cobalto, componenti vitali in molti prodotti (cellulari, monitor, turbine eoliche, pannelli fotovoltaici, come pure per il settore militare con radar e laser), sono schizzati a livelli mai visti.
Il costo delle materie prime rappresenta il 50-70% del valore totale delle batterie al litio. Il cobalto è aumentato del 40% solo nel 2021. Lo stagno, usato per le microsaldature nel settore elettronico, ha avuto un incremento del 133% e il rame del 115%. Il rodio, una «terra rara» usata per le marmitte catalitiche, ha avuto un rincaro del 447% mentre il neodimio, essenziale per produrre super-magneti per i sistemi di illuminazione e l'industria plastica, del 74%. Alcuni metalli come l'indio e il gallio sono necessari anche per la produzione di semiconduttori, cardine del mondo tecnologico.
Per capire la situazione critica in cui si trova l'Europa, basta pensare che i tre maggiori produttori di litio, cobalto e terre rare controllano i tre quarti della produzione mondiale. Dal Congo arriva il 70% della produzione mondiale di cobalto, da Australia e Cile circa il 73% di litio e dalla Cina il 60% delle terre rare. Pechino ha un posizione di assoluto dominio, non solo per far fronte alla produzione domestica ma anche perché è riuscita a garantirsi i diritti di estrazione nei Paesi ricchi di risorse. La Cina ha un ruolo di preminenza pure nella lavorazione e raffinazione. Il 98% delle terre rare importate dall'Europa vengono da là.
L'Unione Europea sta cercando di aumentare la propria autonomia sviluppando il riciclo dei materiali e definendo partnership con Paesi produttori in Africa. Inoltre sono state costituite l'Alleanza delle materie prime e l'European battery alliance per la produzione di batterie per i veicoli elettrici. A questa partecipano 12 Stati tra cui l'Italia con l'obiettivo di smarcarsi dal dominio cinese e sostenere le industrie europee nel processo di transizione energetica. Il nostro Paese è impegnato con 12 imprese e due centri di ricerca.
Ma in Italia ci sono anche metalli preziosi come l'antimonio in Toscana e il titanio in Liguria. In un convegno nel 2013, l'allora responsabile per le materie prime nella Commissione europea, Mattia Pellegrini, riferendosi all'Italia diceva: «Abbiamo una cassaforte piena di ricchezza sepolta nel terreno e non la tiriamo fuori. Si tratta dei più grandi bacini europei e i secondi a livello mondiale di antimonio e titanio, elementi chiave in ambito tecnologico, che non vengono estratti ma anzi importati dall'estero».
Da allora la situazione non è cambiata. L'Italia continua a importare ciò che possiede. Il perché è il fuoco di sbarramento ecologista che pur di non trivellare le nostre terre, preferisce ignorare i sistemi di estrazione fortemente inquinanti in Paesi africani o asiatici e i danni all'ambiente, oltre agli alti costi, del trasporto di tali materie prime. Bisogna chiedersi per quanto tempo ancora riusciremo a chiudere gli occhi di fronte a questa contraddizione.
«Abbiamo i soldi del Recovery e le richieste con il 110%, ma le imprese sono al palo»

Gabriele Buia (Ansa)
Carenze di materie prime, ritardi nelle consegne e forte rialzo dei prezzi stanno provocando effetti gravi sul settore delle costruzioni e rischiano di compromettere la ripresa economica post pandemia. «Ci troviamo nella assurda situazione di avere fondi a disposizione grazie al Piano di ripresa e resilienza e una legislazione fiscalmente favorevole con il super bonus del 110%, ma di non poter far fronte alla domanda per mancanza di materiali. I cantieri si stanno fermando e le imprese rischiano di chiudere. Il governo deve intervenire». Gabriele Buia, presidente dell'Ance, l'associazione che riunisce le imprese di costruzione, lancia l'allarme: «Da mesi stiamo segnalando al governo la preoccupante situazione che si è creata».
Che accade nel settore delle costruzioni?
«Le faccio un esempio. L'acciaio scarseggia e quel poco che si trova ha prezzi insostenibili. Solo a maggio il ferro acciaio tondo per cemento armato ha avuto un rincaro, rispetto al mese precedente, del 15,4%. Da novembre 2020 fino a giugno il rincaro è del 230%. Incrementi eccezionali nei prezzi si riscontrano anche in Germania con un +84,8% e in Francia con +81,8%. E le previsioni per i prossimi mesi indicano che l'ondata rialzista continuerà. Il fenomeno non riguarda solo i prodotti siderurgici, ma anche altri materiali primari per l'edilizia come i polietileni, aumentati di oltre il 120% tra novembre 2020 e maggio 2021, il rame balzato del 47% e il bitume del 21,9%».
È in atto una forte speculazione, è chiaro. Chi c'è dietro? Chi ci sta guadagnando?
«Paesi come la Cina e gli Stati Uniti hanno fatto incetta di materie prime come rame, silicio, ferro in vista della ripartenza dell'economia, che ora utilizzano lasciando al resto del mercato una quota minima e facendo alzare i prezzi. Nei due Paesi c'è stato un improvviso incremento della domanda del settore delle costruzioni. Questo rimbalzo ha innescato un effetto al rialzo sul prezzo delle materie prime e di tutta la filiera mondiale dell'acciaio. Bisogna ricordare che la Cina rappresenta il 50% della produzione e del consumo mondiale di acciaio e, in particolare, le costruzioni in questo Paese ne assorbono il 40%. Il tutto si inserisce in un contesto di mercato anomalo a seguito della crisi pandemica, caratterizzato da una scarsità di offerta dovuta alle ripetute chiusure industriali e commerciali».
L'Italia sconta anche la mancanza di produzione.
«È il nostro tallone d'Achille. Anche in Germania i prezzi sono aumentati, ma calmierati dalla produzione interna. L'Italia invece è carente di materie prime ed è costretta a importarle. Per l'acciaio l'Ilva sottoproduce. Stiamo diventando un Paese di servizi più che di produzione e subiamo maggiormente le speculazioni».
È un paradosso: arrivano le risorse finanziare per spingere la ripresa ma mancano le materie prime da utilizzare.
«Proprio così. Ci sono i soldi, gli enti locali pianificano e aumentano gli investimenti per le opere pubbliche, ma le aziende non sanno come farvi fronte per mancanza di materiali. Anche le attrezzature scarseggiano, a partire dai ponteggi. E per i contratti stipulati in passato non possiamo aggiornare i prezzi nonostante l'impennata del costo dei materiali da costruzione».
C'è il rischio che tante aziende pur di lavorare falliscano?
«I contratti vengono stipulati in anticipo di mesi o anni. Sia nelle opere pubbliche sia nel mercato privato, le clausole contrattuali non ammettono la revisione prezzi. Aumenti così eccezionali non possono essere ricondotti al rischio d'impresa e non si può pensare che siano sostenuti solo dalle aziende. Dovrebbe intervenire il governo».
Il governo? In che modo?
«Abbiamo chiesto una norma per ammortizzare le oscillazioni di prezzi dei materiali in base a un monitoraggio trimestrale. Se gli aumenti sono superiori all'8% i committenti dovrebbero intervenire con compensazioni alle imprese, viceversa se i prezzi sono in diminuzione sarà l'impresa a restituire. Anche il bonus del 110% sulle ristrutturazioni va modificato».
Anche se sta funzionando?
«Il periodo di attuazione è limitato alla fine del 2022 per i condomini. Si sta creando un collo di bottiglia perché c'è una corsa alle ristrutturazioni in quanto non è chiaro se ci sarà una proroga. E anche qui le imprese edili sono in difficoltà. È fondamentale allungare la scadenza degli incentivi per diluire l'effetto domanda. Anche perché si aggiunge un problema nei trasporti».
Di che tipo?
«I tempi delle forniture si allungano. Alcune materie prime hanno consegne di qui a sei mesi e il ritardo si ripercuote inevitabilmente sui tempi della consegna del lavoro e quindi sugli obblighi contrattuali che in queste condizioni non potranno essere rispettati e non certo per colpa delle imprese. La conseguenza è un rincaro anche nei trasporti. Il costo di un container dalla Cina fino a qualche mese fa era pari a circa 1.500 dollari: ora è salito a 8.000. Attorno alle materie prime si è creata una spirale di prezzi che sembra inarrestabile e rischia di compromettere il rimbalzo dell'economia».
«L’Italia dipende troppo dalle altre potenze»

Achille Fornasini (YouTube)
«Il vero problema è che l'Europa e soprattutto il nostro Paese dipendono troppo dagli altri. Abbiamo perso settori importanti e oggi paghiamo le conseguenze di politiche industriali sbagliate. Il risultato è che la ripresa economica sarà onerosa». Achille Fornasini è professore di analisi tecnica dei mercati finanziari all'Università di Brescia e collabora con l'ufficio studi di Anima Confindustria sull'analisi economica e finanziaria delle materie prime a livello globale.
Quali settori merceologici risentiranno maggiormente dell'aumento dei prezzi delle materie prime?
«L'effetto più dirompente si sta avendo e si avrà sulle piccole e medie imprese manifatturiere che operano nel campo dell'edilizia e delle costruzioni, ma anche nei comparti della meccanica e del legno. In questi settori si rischia la continuità aziendale a causa delle forniture negate dai grossisti, dell'esaurimento delle scorte e dei tempi di consegna lunghissimi».
Come mai l'Europa non è stata veloce a prevedere che la Cina avrebbe fatto incetta di materie prime?
«La Cina ha approfittato del lockdown globale per accaparrarsi non solo le materie prime per accompagnare la ripresa, ma anche abbondanti scorte strategiche. Un'azione ben orientata da uno Stato consapevole e lungimirante nel quale le decisioni non devono fare i conti né con le insipienze di governi ancora alle prese con la pandemia, né tanto meno con euroburocrazie troppo lontane dalle esigenze delle imprese».
Come si può uscire da questa spirale rialzista dei prezzi?
«L'aumento dei prezzi è alimentato dalla domanda innescata dalle strategie di politica industriale dei nuovi Paesi emergenti, dall'incremento del petrolio, indispensabile fonte energetica per la produzione di molte materie prime, e dal boom dei noli mercantili, decuplicati in un solo anno. La situazione è del tutto inedita e pertanto mancano riferimenti storici che possano aiutare nell'individuare le modalità di uscita dalla spirale rialzista. Nessuna autorità sovranazionale è in grado di intervenire per attenuare la tensione. Se ne uscirà quando la logistica internazionale tornerà fluida e quando, con gradualità, le aziende manifatturiere, prese in contropiede dal Covid-19, avranno ricostituito i magazzini per troppo tempo gestiti con logiche just-in-time».
Quali sono le previsioni per i prossimi mesi?
«Le prospettive non possono che essere articolate. Per alcuni metalli si profila la persistenza di prezzi alti a causa della loro scarsa disponibilità e del gap ormai conclamato tra produzione e consumo: è il caso del rame e dello stagno, per esempio. Ciò significa che è destinato a continuare l'impatto su cash flow e marginalità delle imprese impegnate nella trasformazione di metalli non ferrosi e di semilavorati d'acciaio. Tenuto conto di quanto sta avvenendo sui mercati internazionali, si può invece presumere che prezzi dei polimeri e del legno siano destinati a flettere. Decisive, infine, saranno le decisioni dell'Opec riguardo al greggio, che dovrebbe tuttavia assestarsi intorno agli 80 dollari al barile».
C'è il rischio di compromettere la ripresa economica?
«L'economia industriale, che si pensava ormai soppiantata da quella digitale, in uscita dalla pandemia è tornata protagonista e si trova ora alle prese con due minacce: il boom dei prezzi delle materie prime e i rincari straordinari dei costi di trasporto. Ma il vero problema è che l'Europa e soprattutto il nostro Paese dipendono troppo dagli altri. Abbiamo perso gran parte della chimica e dell'acciaio, che un tempo ci consentivano persino di essere esportatori. Oggi paghiamo le conseguenze della perdita di quella centralità e restare agganciati alla ripresa economica sarà certamente molto più oneroso».
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Mancano rame, ferro, acciaio, semiconduttori, plastica e terre rare: durante il lungo lockdown, la Cina ha fatto man bassa a prezzi stracciati. Anche i costi di trasporto sono schizzati alle stelle.Gabriele Buia, presidente dell'Ance, l'associazione che riunisce le imprese di costruzione, lancia l'allarme: «Da mesi stiamo segnalando al governo la preoccupante situazione che si è creata».Il docente e analista Achille Fornasini: «Il rilancio economico sarà oneroso. Non avremmo dovuto privarci di chimica e acciaio».Lo speciale contiene tre articoli.È bastato un tweet del big dell'auto elettrica, Elon Musk, per gettare un'ombra sulla ripresa economica mondiale. L'uscita dalla crisi avrà un costo altissimo che per alcuni Paesi. E non è detto che non si lasci addirittura dietro una scia di aziende morte. «I prezzi aumentano per la pressione dei costi della catena di approvvigionamento in tutta l'industria. Soprattutto delle materie prime», ha scritto il patron di Tesla. Bloomberg gli ha fatto eco titolando in modo allarmistico: «L'economia mondiale è improvvisamente a corto di tutto». Colossi dell'auto che si fermano mettendo i dipendenti in cassa integrazione, fabbriche di elettrodomestici che ritardano le consegne, cantieri che marciano al rallentatore, nuove commesse che saltano, vecchi ordinativi rinviati. Perfino Apple, che ha un'efficiente gestione della catena produttiva in grado di lanciare simultaneamente i suoi prodotti in tutto il mondo, si sarebbe trovata in difficoltà. Cosa sta succedendo? Ecco le parole di Pietro Salini, amministratore delegato di Webuild, colosso delle costruzioni di grandi opere, in una recente intervista: «C'è il rischio che si fermino i cantieri proprio nel momento in cui devono essere avviati». È un rischio legato alle materie prime, diventate improvvisamente introvabili e costosissime. Mancano rame, ferro, acciaio, semiconduttori, plastica, le preziose terre rare fondamentali per la tecnologia. Ma anche legname, cartone per imballaggi, e poi mais, caffè, frumento, soia. Nessun comparto produttivo è risparmiato dalla carestia di materiali e prodotti essenziali. Per capire come si è arrivati a questo dobbiamo tornare al lockdown, quando i valori delle materie prime sono crollati del 20-30% per il blocco generalizzato delle imprese. La Cina, che è stata la prima a uscire dalla pandemia, ha approfittato del crollo dei prezzi per fare scorte in anticipo sul resto del mondo. Così le imprese degli altri Paesi, abituate a fare poco magazzino, si sono trovate a secco di materie prime quando l'economia ha ripreso a marciare. A questa miopia strategica si è sommata la speculazione. Le commodity, prezzate in dollari, sono diventate un investimento profittevole per chi le acquista in euro. Infine, come se non bastasse, è arrivata una chicca normativa. L'Organizzazione marittima internazionale ha imposto a tutte le navi di abbassare la quota di zolfo nell'olio combustibile: da gennaio 2020 si è passati dal 3,5% allo 0,5%. Molte navi container sono state rottamate, altre riconvertite, e il costo è stato scaricato sui prezzi. Il trasporto di merci per mare è decollato in un anno di oltre il 600%, come rileva il Dry Baltic index, l'indice che sintetizza gli oneri di nolo marittimo. La somma di questi fattori ha mandato in tilt il mercato globale. E parafrasando quello che dice Salini, nel momento in cui l'economia potrebbe decollare manca il carburante. Per un Paese trasformatore come l'Italia, che è uscito da settori strategici come la chimica e l'acciaio e che deve importare quasi tutto, il problema è serio. Soprattutto se vengono a mancare le materie prime fondamentali per la transizione green e digitale che per il governo di Mario Draghi, in linea con l'Europa, sono i pilastri della ripresa economica. Parliamo di rame, litio, silicio, cobalto, terre rare, nickel, stagno, zinco, indispensabili nel sistema produttivo sostenibile. L'International energy agency ha stimato che la domanda di minerali per veicoli elettrici a batteria crescerà almeno di 30 volte entro il 2040. I prezzi di litio e cobalto, componenti vitali in molti prodotti (cellulari, monitor, turbine eoliche, pannelli fotovoltaici, come pure per il settore militare con radar e laser), sono schizzati a livelli mai visti. Il costo delle materie prime rappresenta il 50-70% del valore totale delle batterie al litio. Il cobalto è aumentato del 40% solo nel 2021. Lo stagno, usato per le microsaldature nel settore elettronico, ha avuto un incremento del 133% e il rame del 115%. Il rodio, una «terra rara» usata per le marmitte catalitiche, ha avuto un rincaro del 447% mentre il neodimio, essenziale per produrre super-magneti per i sistemi di illuminazione e l'industria plastica, del 74%. Alcuni metalli come l'indio e il gallio sono necessari anche per la produzione di semiconduttori, cardine del mondo tecnologico. Per capire la situazione critica in cui si trova l'Europa, basta pensare che i tre maggiori produttori di litio, cobalto e terre rare controllano i tre quarti della produzione mondiale. Dal Congo arriva il 70% della produzione mondiale di cobalto, da Australia e Cile circa il 73% di litio e dalla Cina il 60% delle terre rare. Pechino ha un posizione di assoluto dominio, non solo per far fronte alla produzione domestica ma anche perché è riuscita a garantirsi i diritti di estrazione nei Paesi ricchi di risorse. La Cina ha un ruolo di preminenza pure nella lavorazione e raffinazione. Il 98% delle terre rare importate dall'Europa vengono da là. L'Unione Europea sta cercando di aumentare la propria autonomia sviluppando il riciclo dei materiali e definendo partnership con Paesi produttori in Africa. Inoltre sono state costituite l'Alleanza delle materie prime e l'European battery alliance per la produzione di batterie per i veicoli elettrici. A questa partecipano 12 Stati tra cui l'Italia con l'obiettivo di smarcarsi dal dominio cinese e sostenere le industrie europee nel processo di transizione energetica. Il nostro Paese è impegnato con 12 imprese e due centri di ricerca. Ma in Italia ci sono anche metalli preziosi come l'antimonio in Toscana e il titanio in Liguria. In un convegno nel 2013, l'allora responsabile per le materie prime nella Commissione europea, Mattia Pellegrini, riferendosi all'Italia diceva: «Abbiamo una cassaforte piena di ricchezza sepolta nel terreno e non la tiriamo fuori. Si tratta dei più grandi bacini europei e i secondi a livello mondiale di antimonio e titanio, elementi chiave in ambito tecnologico, che non vengono estratti ma anzi importati dall'estero». Da allora la situazione non è cambiata. L'Italia continua a importare ciò che possiede. Il perché è il fuoco di sbarramento ecologista che pur di non trivellare le nostre terre, preferisce ignorare i sistemi di estrazione fortemente inquinanti in Paesi africani o asiatici e i danni all'ambiente, oltre agli alti costi, del trasporto di tali materie prime. 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I cantieri si stanno fermando e le imprese rischiano di chiudere. Il governo deve intervenire». Gabriele Buia, presidente dell'Ance, l'associazione che riunisce le imprese di costruzione, lancia l'allarme: «Da mesi stiamo segnalando al governo la preoccupante situazione che si è creata». Che accade nel settore delle costruzioni? «Le faccio un esempio. L'acciaio scarseggia e quel poco che si trova ha prezzi insostenibili. Solo a maggio il ferro acciaio tondo per cemento armato ha avuto un rincaro, rispetto al mese precedente, del 15,4%. Da novembre 2020 fino a giugno il rincaro è del 230%. Incrementi eccezionali nei prezzi si riscontrano anche in Germania con un +84,8% e in Francia con +81,8%. E le previsioni per i prossimi mesi indicano che l'ondata rialzista continuerà. Il fenomeno non riguarda solo i prodotti siderurgici, ma anche altri materiali primari per l'edilizia come i polietileni, aumentati di oltre il 120% tra novembre 2020 e maggio 2021, il rame balzato del 47% e il bitume del 21,9%». È in atto una forte speculazione, è chiaro. Chi c'è dietro? Chi ci sta guadagnando? «Paesi come la Cina e gli Stati Uniti hanno fatto incetta di materie prime come rame, silicio, ferro in vista della ripartenza dell'economia, che ora utilizzano lasciando al resto del mercato una quota minima e facendo alzare i prezzi. Nei due Paesi c'è stato un improvviso incremento della domanda del settore delle costruzioni. Questo rimbalzo ha innescato un effetto al rialzo sul prezzo delle materie prime e di tutta la filiera mondiale dell'acciaio. Bisogna ricordare che la Cina rappresenta il 50% della produzione e del consumo mondiale di acciaio e, in particolare, le costruzioni in questo Paese ne assorbono il 40%. Il tutto si inserisce in un contesto di mercato anomalo a seguito della crisi pandemica, caratterizzato da una scarsità di offerta dovuta alle ripetute chiusure industriali e commerciali». L'Italia sconta anche la mancanza di produzione. «È il nostro tallone d'Achille. Anche in Germania i prezzi sono aumentati, ma calmierati dalla produzione interna. L'Italia invece è carente di materie prime ed è costretta a importarle. Per l'acciaio l'Ilva sottoproduce. Stiamo diventando un Paese di servizi più che di produzione e subiamo maggiormente le speculazioni». È un paradosso: arrivano le risorse finanziare per spingere la ripresa ma mancano le materie prime da utilizzare. «Proprio così. Ci sono i soldi, gli enti locali pianificano e aumentano gli investimenti per le opere pubbliche, ma le aziende non sanno come farvi fronte per mancanza di materiali. Anche le attrezzature scarseggiano, a partire dai ponteggi. E per i contratti stipulati in passato non possiamo aggiornare i prezzi nonostante l'impennata del costo dei materiali da costruzione». C'è il rischio che tante aziende pur di lavorare falliscano? «I contratti vengono stipulati in anticipo di mesi o anni. Sia nelle opere pubbliche sia nel mercato privato, le clausole contrattuali non ammettono la revisione prezzi. Aumenti così eccezionali non possono essere ricondotti al rischio d'impresa e non si può pensare che siano sostenuti solo dalle aziende. Dovrebbe intervenire il governo». Il governo? In che modo? «Abbiamo chiesto una norma per ammortizzare le oscillazioni di prezzi dei materiali in base a un monitoraggio trimestrale. Se gli aumenti sono superiori all'8% i committenti dovrebbero intervenire con compensazioni alle imprese, viceversa se i prezzi sono in diminuzione sarà l'impresa a restituire. Anche il bonus del 110% sulle ristrutturazioni va modificato». Anche se sta funzionando? «Il periodo di attuazione è limitato alla fine del 2022 per i condomini. Si sta creando un collo di bottiglia perché c'è una corsa alle ristrutturazioni in quanto non è chiaro se ci sarà una proroga. E anche qui le imprese edili sono in difficoltà. È fondamentale allungare la scadenza degli incentivi per diluire l'effetto domanda. Anche perché si aggiunge un problema nei trasporti». Di che tipo? «I tempi delle forniture si allungano. Alcune materie prime hanno consegne di qui a sei mesi e il ritardo si ripercuote inevitabilmente sui tempi della consegna del lavoro e quindi sugli obblighi contrattuali che in queste condizioni non potranno essere rispettati e non certo per colpa delle imprese. La conseguenza è un rincaro anche nei trasporti. Il costo di un container dalla Cina fino a qualche mese fa era pari a circa 1.500 dollari: ora è salito a 8.000. Attorno alle materie prime si è creata una spirale di prezzi che sembra inarrestabile e rischia di compromettere il rimbalzo dell'economia». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/allarme-materie-prime-ripresa-rischio-2653671406.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="litalia-dipende-troppo-dalle-altre-potenze" data-post-id="2653671406" data-published-at="1625411706" data-use-pagination="False"> «L’Italia dipende troppo dalle altre potenze» Achille Fornasini (YouTube) «Il vero problema è che l'Europa e soprattutto il nostro Paese dipendono troppo dagli altri. Abbiamo perso settori importanti e oggi paghiamo le conseguenze di politiche industriali sbagliate. Il risultato è che la ripresa economica sarà onerosa». Achille Fornasini è professore di analisi tecnica dei mercati finanziari all'Università di Brescia e collabora con l'ufficio studi di Anima Confindustria sull'analisi economica e finanziaria delle materie prime a livello globale. Quali settori merceologici risentiranno maggiormente dell'aumento dei prezzi delle materie prime? «L'effetto più dirompente si sta avendo e si avrà sulle piccole e medie imprese manifatturiere che operano nel campo dell'edilizia e delle costruzioni, ma anche nei comparti della meccanica e del legno. In questi settori si rischia la continuità aziendale a causa delle forniture negate dai grossisti, dell'esaurimento delle scorte e dei tempi di consegna lunghissimi». Come mai l'Europa non è stata veloce a prevedere che la Cina avrebbe fatto incetta di materie prime? «La Cina ha approfittato del lockdown globale per accaparrarsi non solo le materie prime per accompagnare la ripresa, ma anche abbondanti scorte strategiche. Un'azione ben orientata da uno Stato consapevole e lungimirante nel quale le decisioni non devono fare i conti né con le insipienze di governi ancora alle prese con la pandemia, né tanto meno con euroburocrazie troppo lontane dalle esigenze delle imprese». Come si può uscire da questa spirale rialzista dei prezzi? «L'aumento dei prezzi è alimentato dalla domanda innescata dalle strategie di politica industriale dei nuovi Paesi emergenti, dall'incremento del petrolio, indispensabile fonte energetica per la produzione di molte materie prime, e dal boom dei noli mercantili, decuplicati in un solo anno. La situazione è del tutto inedita e pertanto mancano riferimenti storici che possano aiutare nell'individuare le modalità di uscita dalla spirale rialzista. Nessuna autorità sovranazionale è in grado di intervenire per attenuare la tensione. Se ne uscirà quando la logistica internazionale tornerà fluida e quando, con gradualità, le aziende manifatturiere, prese in contropiede dal Covid-19, avranno ricostituito i magazzini per troppo tempo gestiti con logiche just-in-time». Quali sono le previsioni per i prossimi mesi? «Le prospettive non possono che essere articolate. Per alcuni metalli si profila la persistenza di prezzi alti a causa della loro scarsa disponibilità e del gap ormai conclamato tra produzione e consumo: è il caso del rame e dello stagno, per esempio. Ciò significa che è destinato a continuare l'impatto su cash flow e marginalità delle imprese impegnate nella trasformazione di metalli non ferrosi e di semilavorati d'acciaio. Tenuto conto di quanto sta avvenendo sui mercati internazionali, si può invece presumere che prezzi dei polimeri e del legno siano destinati a flettere. Decisive, infine, saranno le decisioni dell'Opec riguardo al greggio, che dovrebbe tuttavia assestarsi intorno agli 80 dollari al barile». C'è il rischio di compromettere la ripresa economica? «L'economia industriale, che si pensava ormai soppiantata da quella digitale, in uscita dalla pandemia è tornata protagonista e si trova ora alle prese con due minacce: il boom dei prezzi delle materie prime e i rincari straordinari dei costi di trasporto. Ma il vero problema è che l'Europa e soprattutto il nostro Paese dipendono troppo dagli altri. Abbiamo perso gran parte della chimica e dell'acciaio, che un tempo ci consentivano persino di essere esportatori. Oggi paghiamo le conseguenze della perdita di quella centralità e restare agganciati alla ripresa economica sarà certamente molto più oneroso».
La Juventus resta sotto il controllo di Exor. Il gruppo ha chiarito con un comunicato la propria posizione sull’offerta di Tether. «La Juventus è un club storico e di successo, di cui Exor e la famiglia Agnelli sono azionisti stabili e orgogliosi da oltre un secolo», si legge nella nota della holding, che conferma come il consiglio di amministrazione abbia respinto all’unanimità l’offerta per l’acquisizione del club e ribadito il pieno impegno nel sostegno al nuovo corso dirigenziale.
A rafforzare il messaggio, nelle stesse ore, è arrivato anche un intervento diretto di John Elkann, diffuso sui canali ufficiali della Juventus. Un video breve, meno di un minuto, ma importante. Elkann sceglie una veste informale, indossa una felpa con la scritta Juventus e parla di identità e di responsabilità. Traduzione per i tifosi che sognano nuovi padroni o un ritorno di Andrea Agnelli: il mercato è aperto per Gedi, ma non per la Juve. Il video va oltre le parole. Chiarisce ciò che viene smentito e ciò che resta aperto. Elkann chiude alla vendita della Juventus. Ma non chiude alla vendita di giornali e radio.
La linea, in realtà, era stata tracciata. Già ai primi di novembre, intervenendo al Coni, Elkann aveva dichiarato che la Juve non era in vendita, parlando del club come di un patrimonio identitario prima ancora che industriale. Uno dei nodi resta il prezzo. L’offerta attribuiva alla Juventus una valutazione tra 1,1 e 1,2 miliardi, cifra che Exor giudica distante dal peso economico reale (si mormora che Tether potrebbe raddoppiare l’offerta). Del resto, la Juventus è una società quotata, con una governance strutturata, ricavi di livello europeo e un elemento che in Italia continua a fare la differenza: lo stadio di proprietà. L’Allianz Stadium non è solo un simbolo. Funziona come asset industriale. È costato circa 155 milioni di euro, è entrato in funzione nel 2011 e oggi gli analisti di settore lo valutano tra 300 e 400 milioni, considerando struttura, diritti e capacità di generare ricavi. L’impianto produce flussi stabili, consente pianificazione e riduce l’esposizione ai risultati sportivi di breve periodo.
I numeri di bilancio completano il quadro. Nei cicli più recenti la Juventus ha generato ricavi operativi tra 400 e 450 milioni di euro, collocandosi tra i principali club europei per fatturato, come indicano i report Deloitte football money league. Prima della pandemia, i ricavi da stadio oscillavano tra 60 e 70 milioni di euro a stagione, ai vertici della Serie A. Su queste basi, applicando multipli utilizzati per club con brand globale e asset infrastrutturali, negli ambienti finanziari la valutazione industriale della Juventus viene collocata tra 1,5 e 2 miliardi di euro, al netto delle variabili sportive.
Il confronto con il mercato rafforza questa lettura. Il Milan è stato ceduto a RedBird per circa 1,2 miliardi di euro, senza stadio di proprietà e con una governance più complessa. Quel prezzo resta un riferimento nel calcio italiano. Se quella è stata la valutazione di un top club privo dell’asset stadio, risulta difficile immaginare che la Juventus possa essere trattata allo stesso livello senza che il socio di controllo giudichi l’operazione penalizzante.
A incidere è anche il profilo dell’offerente. Tether, principale emittente globale di stablecoin, opera in un perimetro regolatorio diverso da quello degli intermediari tradizionali, seguito con attenzione anche da Consob. Dopo l’ultimo aumento di capitale bianconero, Standard & Poor’s ha declassato la capacità di Usdt di mantenere l’ancoraggio al dollaro. Sul piano reputazionale pesa, inoltre, il giudizio dell’Economist (del gruppo Exor), secondo cui la stablecoin è diventata uno strumento utilizzato anche nei circuiti dell’economia sommersa globale, cioè sul mercato nero.
Intorno alla Juventus circolano anche altre ipotesi. Si parla di Leonardo Maria Del Vecchio, erede del fondatore di Luxottica e azionista di EssilorLuxottica attraverso la holding di famiglia Delfin, dopo l’offerta presentata su Gedi, e di un possibile interesse indiretto di capitali mediorientali. Al momento, però, mancano cifre e progetti industriali strutturati. Restano solo indiscrezioni.
Sullo sfondo continua intanto a emergere il nome di Andrea Agnelli. L’ex presidente dei nove scudetti ha concluso la squalifica e raccoglie il consenso di una parte ampia della tifoseria, che lo sogna come possibile punto di ripartenza. L’ipotesi che circola immagina un ritorno sostenuto da imprenditori internazionali, anche mediorientali, in un contesto in cui il fondo saudita Pif, guidato dal principe ereditario Mohammed bin Salman e già proprietario del Newcastle, si è imposto come uno dei principali attori globali del calcio.
Un asse che non si esaurisce sul terreno sportivo. Lo stesso filone saudita riaffiora nel dossier Gedi, ormai entrato nella fase conclusiva. La presenza dell’imprenditore greco Theodore Kyriakou, fondatore del gruppo Antenna, rimanda a un perimetro di relazioni che incrocia capitali internazionali e investimenti promossi dal regno saudita. In questo quadro, Gedi - che comprende Repubblica, Stampa e Radio Deejay - è l’unico asset destinato a cambiare mano, mentre Exor ha tracciato una linea netta: il gruppo editoriale segue una strada propria, la Juventus resta fuori (al momento) da qualsiasi ipotesi di cessione.
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Finanziere puro. John Elkann, abilissimo a trasformare stabilimenti e impianti, operai e macchinari, sudore e fatica in figurine panini da comprare e vendere. Ma quando si tratta di gestire aziende «vere», quelle che producono, vincono o informano, la situazione si complica. È un po’ come vedere un mago dei numeri alle prese con un campo di calcio per stabilirne il valore e stabilire il valore dei soldi. Ma la palla… beh, la palla non sempre entra in porta. Peccato. Andrà meglio la prossima volta.
Prendiamo Ferrari. Il Cavallino rampante, che una volta dominava la Formula 1, oggi ha perso la capacità di galoppare. Elkann vende il 4% della società per circa 3 miliardi: applausi dagli azionisti, brindisi familiare, ma la pista? Silenziosa. Il titolo è un lontano ricordo. I tifosi hanno esaurito la pazienza rifugiandosi nell’ironia: «Anche per quest’anno vinceremo il Mondiale l’anno prossimo». E cosi gli azionisti. Da quando Elkann ha collocato quelle azioni il titolo scende e basta. Era diventato il gioiello di Piazza Affari. Dopo il blitz di Elkann per arricchire Exor il lento declino.
E la Juventus? Sotto Andrea Agnelli aveva conquistato nove scudetti di fila, un record che ha fatto parlare tutta Italia. Oggi arranca senza gloria. Racconta Platini di una breve esibizione dell’erede di Agnelli in campo. Pochi minuti e si fa sostituire. Rifiata, chiede di rientrare. Il campione francese lo guarda sorridendo: «John, questo è calcio non è basket». Elkann osserva da lontano, contento dei bilanci Exor e delle partecipazioni finanziarie, mentre tifosi e giornalisti discutono sulle strategie sportive. La gestione lo annoia, ma la rendita finanziaria quella è impeccabile.
Gedi naviga tra conti in rosso e sfide editoriali perdenti. Cairo, dall’altra parte, rilancia il Corriere della Sera con determinazione e nuovi investimenti. Elkann sorride: non è un problema gestire giornali, se sai fare finanza. La lezione è chiara: le aziende si muovono, ma i capitali contano di più.
Stellantis? La storia dell’auto italiana. La storia della dinastia. Ora un condominio con la famiglia Peugeot. Elkann lascia fare, osserva i mercati e, quando serve, vende o alleggerisce le partecipazioni. Anche qui, la gestione operativa non è il punto forte: ciò che conta è il risultato finanziario, non il numero di auto prodotte o le fabbriche gestite.
E gli investimenti? Alcuni brillano, altri richiedono pazienza. Philips è un esempio recente: un investimento ambizioso che riflette la strategia di diversificazione di Exor, con qualche rischio incorporato. Ma se si guarda al quadro generale, Elkann ha accumulato oltre 4 miliardi di liquidità entro metà 2025, grazie a vendite mirate e partnership strategiche. Una cifra sufficiente per pensare a nuove acquisizioni e opportunità, senza perdere il sorriso.
Perché poi quello che conta per John è altro. Il gruppo Exor continua a crescere in valore. Gli azionisti vedono il titolo passare da un minimo storico di 13,44 euro nel 2011 a circa 72 euro oggi, e sorridono. La famiglia Elkann Agnelli si gode i frutti degli investimenti, mentre il mondo osserva: Elkann è il finanziere perfetto, sa fare ciò che conta davvero, cioè far crescere la ricchezza e proteggere gli asset della famiglia.
In fondo, Elkann ci ricorda che la finanza ha il suo fascino anche quando la gestione aziendale è complicata: vendere, comprare, accumulare, investire con giudizio (e un pizzico di fortuna) può essere altrettanto emozionante che vincere scudetti, titoli di Formula 1 o rilanciare giornali. Il sorriso di chi ha azioni Exor vale più di qualsiasi trofeo, e dopotutto, questo è il suo segreto.
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Piero Cipollone (Ansa)
Come spiega il politico europeo i «soldi verranno recuperati attraverso quello che è il signoraggio all’euro digitale». Invece «per quanto riguarda sistema bancario e gli altri fornitori di servizi di pagamento, la stima è che possa essere fra i quattro e sei miliardi di euro per quattro anni», ricorda Cipollone. «Tenete conto che, rispetto a quello che spendono le banche per i sistemi It, questa è una cifra minima. Parliamo di circa il 3,5% di quello che spendono le banche annualmente per implementare i loro sistemi. Quindi non è un costo». Inoltre, aggiunge, «va detto che le banche saranno compensate» con una remunerazione molto simile a come quando si fa «una transazione normale con carta».
Cipollone ha anche descritto una sequenza temporale condizionata dall’iter legislativo europeo e dalla necessità di predisporre un’infrastruttura operativa completa prima di qualunque emissione. «Se per la fine del 2026 avremo in piedi la legislazione a quel punto pensiamo di essere in grado di costruire tutta la macchina entro la prima metà del 2027 e quindi, a settembre del 27, di cominciare una fase di sperimentazione, il “Pilot”. Per poi partire con il lancio effettivo nel 2029».
Per l’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, l’euro digitale è particolarmente importante per l’Europa «perché via via che si espande lo spazio digitale dei pagamenti, su questo spazio la presenza di operatori europei è quasi nulla». Insomma, «più si espande lo spazio dei pagamenti digitali, più la nostra dipendenza da pochi e importanti operatori stranieri diventa più profonda», ricorda Cipollone. «Le parole chiave sono “pochi” e “non europei”, perché pochi richiama il concetto di scarsa concorrenza, stranieri non europei richiama il concetto di dipendenza strategica da altri operatori. Noi non abbiamo nulla contro operatori stranieri che lavorino nell’area dell’euro. Il problema è che noi vorremmo che l’area dell’euro avesse una sua infrastruttura autonoma, indipendente, che non dipenda dalle decisioni degli altri».
Cipollone ribadisce poi la posizione della Bce sul contante: resta centrale perché «estremamente semplice da usare», quindi inclusivo, utilizzabile ovunque e «sicuro» perché «senza alcun rischio associato». Il problema, però, è che nell’economia sempre più digitale il contante diventa meno spendibile: «Sta diventando sempre meno utilizzabile nell’economia». Da qui l’argomento «di mandato»: se manca un equivalente del contante online, si toglie ai cittadini la possibilità di usare moneta di banca centrale nello spazio digitale; «è come discriminare contro la moneta pubblica». Quindi la Bce deve «estendere una specie di contante digitale» con funzioni analoghe al contante, ma adatto ai pagamenti digitali.
Il politico ieri ad Atreju ha anche parlato di metallo giallo ricordando che le riserve auree delle banche centrali sono cresciute fino a circa 36.000 tonnellate. Come ha spiegato l’esperto, queste riserve «hanno un fondamento storico importante» perché, quando c’era la convertibilità, «servivano come riserva rispetto alle banconote». Oggi, con le monete a corso legale, «la credibilità del valore della moneta è affidata a quella della Banca centrale nell’essere capace di controllare i prezzi», ma «una eco di questa convertibilità è rimasta»: oro e valute restano riserve di valore contro rischi rilevanti.
Come ha spiegato, le Banche centrali comprano oro soprattutto come difesa «contro l’inflazione» e contro «i rischi nei mercati finanziari», e perché «le riserve sono una garanzia della capacità del Paese di far fronte a possibili shock esterni». Per questi motivi, «l’oro è tornato di moda».
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