2024-10-18
Cresce il numero dei cattolici. La spinta arriva dall’Africa che però il Papa ha «punito»
Nonostante i numeri, il continente nero avrà un solo cardinale nel prossimo concistoro. Una ritorsione per le resistenze alle benedizioni gay. Francesco guarda più a Est.«L’Africa salverà la Chiesa». Questa profezia fatta alcuni anni fa dal cardinale guineano Robert Sarah sembra confermata dai dati della mappatura della Chiesa cattolica nel mondo, che l’Agenzia Fides ha pubblicato in vista della novantottesima Giornata missionaria mondiale che si celebrerà domenica prossima.I numeri fotografano, alla data del 31 dicembre 2022, la presenza di circa un miliardo e quattrocento milioni di cattolici nel mondo, con un aumento di oltre 13 milioni rispetto all’anno precedente in quattro dei cinque continenti e un calo nella ipersecolarizzata, Europa (meno 474.000). A crescere di più è l’Africa (con oltre 7 milioni di nuovi cattolici), seguita dall’America (più 5,9 milioni), dall’Asia (più 889.000) e dall’Oceania (più 123.000). Laddove il numero totale dei vescovi nel mondo è aumentato di 13 unità (superando quota 5.300), è diminuito, in linea con le tendenze degli ultimi anni, il numero totale dei sacerdoti, con un calo consistente nel Vecchio continente, mentre aumenti significativi si registrano ancora in Africa e in Asia. Diminuiscono, invece, ovunque i religiosi non sacerdoti. L’Africa è, poi, in controtendenza (più 1.358) sia per quanto riguarda il dato sulle religiose - la cui diminuzione globale è in atto da tempo e registra il picco più negativo nella solita Europa (meno 7.012 unità) - sia per quanto riguarda il numero (+726) dei seminaristi maggiori, diocesani e religiosi, che nel resto del mondo sono sempre meno numerosi.Nell’insieme si rafforza, dunque, il ruolo giocato dalla Chiesa africana che, dimostrandosi forte e vitale, incarna la missione essenziale affidatale dagli ultimi Papi: come Paolo VI che, rivolgendosi ai vescovi africani riuniti a Kampala, già nel 1969 dichiarò che «la nuova patria di Cristo è l’Africa»; e come Benedetto XVI chem in un’omelia del 4 ottobre 2009, disse che, per il suo profondo senso di Dio, «l’Africa è depositaria di un tesoro inestimabile per il mondo intero» e «rappresenta un immenso “polmone” spirituale, per un’umanità che appare in crisi di fede e di speranza».A fronte di questo ruolo cruciale giocato nella Chiesa universale, colpisce osservare come il continente africano continui a essere, in proporzione, sottorappresentato quanto a incarichi di rilievo: basti pensare che dei ventuno prossimi cardinali appena nominati da papa Francesco nel prossimo concistoro (la riunione del collegio consultivo dei cardinali della Chiesa, ndr) previsto a dicembre, nel giorno dell’Immacolata, soltanto uno è africano: monsignor Ignace Bessi Dogbo, arcivescovo di Abidjan, in Costa d’Avorio. L’altro futuro cardinale proveniente dall’Africa, il missionario francese Jean-Paul Vesco, attualmente arcivescovo di Algeri, non è infatti di origine africana.Analisti vaticani fanno notare che nella decisione del Papa hanno pesato una serie di criteri, in primis quello geopolitico (di qui, ad esempio, la scelta di creare cardinale l’arcivescovo di Teheran-Ispahan), ma anche quello della lealtà nei confronti dello stesso Pontefice, nonché un certo orientamento. A tal proposito viene spontaneo chiedersi se la Chiesa d’Africa, nonostante la crescita che emerge evidente dal rapporto di Fides, non sia stata in qualche modo «dimenticata» per la sua ritrosia ad accettare quella «colonizzazione ideologica» - per citare lo stesso papa Francesco - sui temi etici imposti dalla vulgata odierna. Uno su tutti, la definizione di «matrimonio»: davanti alla pressione per normalizzare le unioni omosessuali, i vescovi africani hanno sempre fatto resistenza. Come quando, lo scorso dicembre, uscì Fiducia supplicans, la dichiarazione con cui il prefetto del dicastero per la Dottrina della fede, Víctor Manuel Fernández, apriva alla benedizione delle coppie dello stesso sesso. In quella occasione gli episcopati africani (con l’eccezione dei vescovi europei del Nordafrica) restarono fermi nel ribadire la loro opposizione e, anzi, ebbe un effetto «muro» la lettera - pubblicata con il consenso del Papa - del presidente del Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar, cardinale Fridolin Ambongo Besungu, in cui si ribadiva che «riti e preghiere che potrebbero offuscare la definizione di matrimonio - come unione esclusiva, stabile e indissolubile tra un uomo e una donna, aperta alla procreazione - sono considerati inaccettabili».In una riflessione fatta in quei giorni per spiegare il suo sostegno ai vescovi africani, il cardinale Sarah aveva ricordato che «la Chiesa d’Africa è la voce dei poveri, dei semplici e dei piccoli. Ha il compito di annunciare la Parola di Dio ai cristiani occidentali che, perché ricchi, dotati di molteplici competenze nelle scienze filosofiche, teologiche, bibliche e canoniche, si credono evoluti, moderni e sapienti nella sapienza del mondo. Ma ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini». Proseguiva il presule: «Non sorprende, quindi, che i vescovi dell’Africa, nella loro povertà, siano oggi annunciatori di questa verità divina di fronte al potere e alla ricchezza di alcuni episcopati occidentali».Una cosa ora è certa: con i dati appena usciti che la confermano come l’unica realtà in forte ascesa nel mondo cattolico, la voce della Chiesa d’Africa sarà ancora più importante da ascoltare.
C’è anche un pezzo d’Italia — e precisamente di Quarrata, nel cuore della Toscana — dietro la storica firma dell’accordo di pace per Gaza, siglato a Sharm el-Sheikh alla presenza del presidente statunitense Donald Trump, del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, del turco Recep Tayyip Erdogan e dell’emiro del Qatar Tamim bin Hamad al-Thani. I leader mondiali, riuniti per «un’alba storica di un nuovo Medio Oriente», come l’ha definita lo stesso Trump, hanno sottoscritto l’intesa in un luogo simbolo della diplomazia internazionale: il Conference Center di Sharm, allestito interamente da Formitalia, eccellenza del Made in Italy guidata da Gianni e Lorenzo David Overi, oggi affiancati dal figlio Duccio.
L’azienda, riconosciuta da anni come uno dei marchi più prestigiosi dell’arredo italiano di alta gamma, è fornitrice ufficiale della struttura dal 2018, quando ha realizzato anche l’intero allestimento per la COP27. Oggi, gli arredi realizzati nei laboratori toscani e inviati da oltre cento container hanno fatto da cornice alla firma che ha segnato la fine di due anni di guerra e di sofferenza nella Striscia di Gaza.
«Tutto quello che si vede in quelle immagini – scrivanie, poltrone, arredi, pelle – è stato progettato e realizzato da noi», racconta Lorenzo David Overi, con l’orgoglio di chi ha portato la manifattura italiana in una delle sedi più blindate e tecnologiche del Medio Oriente. «È stato un lavoro enorme, durato oltre un anno. Abbiamo curato ogni dettaglio, dai materiali alle proporzioni delle sedute, persino pensando alle diverse stature dei leader presenti. Un lavoro sartoriale in tutto e per tutto».
Gli arredi sono partiti dalla sede di Quarrata e dai magazzini di Milano, dove il gruppo ha recentemente inaugurato un nuovo showroom di fronte a Rho Fiera. «La committenza è governativa, diretta. Aver fornito il centro che ha ospitato la COP27 e oggi anche il vertice di pace è motivo di grande orgoglio», spiega ancora Overi, «È come essere stati, nel nostro piccolo, parte di un momento storico. Quelle scrivanie e quelle poltrone hanno visto seduti i protagonisti di un accordo che il mondo attendeva da anni».
Dietro ogni linea, ogni cucitura e ogni finitura lucidata a mano, si riconosce la firma del design italiano, capace di unire eleganza, funzionalità e rappresentanza. Non solo estetica, ma identità culturale trasformata in linguaggio universale. «Il marchio Formitalia era visibile in molte sale e ripreso dalle telecamere internazionali. È stata una vetrina straordinaria», aggiunge Overi, «e anche un riconoscimento al valore del nostro lavoro, fatto di precisione e passione».
Il Conference Center di Sharm el-Sheikh, un complesso da oltre 10.000 metri quadrati, è oggi un punto di riferimento per la diplomazia mondiale. Qui, tra le luci calde del deserto e l’azzurro del Mar Rosso, l’Italia del saper fare ha dato forma e materia a un simbolo di pace.
E se il mondo ha applaudito alla firma dell’accordo, in Toscana qualcuno ha sorriso con un orgoglio diverso, consapevole che, anche questa volta, il design italiano era seduto al tavolo della storia.
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Silvia Salis (Imagoeconomica)