Don Roberto Regoli, storico del Papato e docente di Storia contemporanea della Chiesa e Storia del Papato all’Università Gregoriana, fin dalle prime ore di pontificato di Leone XIV lei ha detto che la scelta di un nome cui nessuno pensava è stato il primo atto di governo del nuovo Papa, indice del suo programma pastorale e politico: dopo i primi cento giorni conferma questa analisi?
«Confermo. Nel momento in cui Prevost ha scelto di chiamarsi Leone si è posto fuori da tutte le genealogie papali recenti, cioè si è tirato fuori dal gioco delle aspettative (c’era chi voleva un Francesco II, chi un Benedetto XVII, chi un Paolo VII) e ha scelto un nome a cui nessuno pensava, ispirandosi chiaramente a Leone XIII, l’ultimo Papa del XIX secolo. Papa Prevost si pone quale sintesi dei pontificati precedenti, citando nei suoi discorsi Leone XIII e Francesco, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Nel porsi come sintesi e continuità di ciò che precede, in realtà, vuole fare altro, secondo gli obiettivi del suo pontificato. Con la scelta del nome Leone si è smarcato da qualsiasi eredità e può puntare a proporre una sua via, ad esempio superando le diatribe sull’interpretazione del Vaticano II o sugli strascichi degli anni Settanta».
E quale sarebbe il suo programma?
«Nei suoi discorsi di questi primi cento giorni, ha indicato urgenze ecclesiali, come una rinnovata missionarietà (la centralità di Cristo nell’annuncio), le esigenze della comunione e il primato della carità; a livello mondano ha insistito sulla dignità della persona umana con tutte le sue esigenze sociali. Non si è fatto chiudere dentro i confini di qualsiasi tifoseria ed è andato per la sua strada, così come alludeva proprio con il nuovo nome Leone l’8 maggio scorso. Un nome di indipendenza, ma nei legami della comunione. In questo senso, si nota un governo che vuole fare sintesi, accompagnando, ma pure decidendo con prudenza. Ora aspettiamo i primi documenti del pontificato e le prime decisioni di governo rilevanti per vedere il programma in atto».
Da subito Leone XIV si è presentato come l’uomo del Vangelo, ha parlato di «pace» intesa come la pace del Cristo risorto, interpretando così un termine comune alla politica in chiave teologica: questo orizzonte spirituale può dirsi la cifra del suo pontificato?
«Indubbiamente. Sin da quando si è affacciato alla loggia delle benedizioni su piazza San Pietro, ha dato questo orizzonte spirituale al pontificato. Questa impostazione lo può rendere criptico ai non credenti, perché il suo discorso è totalmente teologico e particolarmente cristocentrico, e chi è a digiuno di questi approcci non trova le sicurezze di un linguaggio mondano o politico. In questi primi mesi il discorso papale è molto rivolto all’interno della Chiesa e pure quando parla delle questioni internazionali torna ad argomentazioni religiose. Sta rinsaldando le file interne al cattolicesimo. È un Papa di ricomposizione e rimotivazione».
Quale continuità intravede tra il papato di Francesco e quello di Leone? E quali discontinuità?
«Qui citerei un confratello agostiniano di papa Leone XIV, Luis Marín de San Martín, che ha parlato di “continuità nella discontinuità”: si ritrovano le parole d’ordine del pontificato precedente, ma anche risemantizzate. Ad esempio, i termini “sinodalità” e “sinodale”, ma con quale significato? Con quello di stile ecclesiale, secondo una ecclesiologia di comunione, come ha esplicitato il papa alla Segreteria del Sinodo dei vescovi lo scorso 26 giugno. E, parlando ai cardinali il 10 maggio precedente, aveva congiunto la sinodalità alla collegialità. Si risente Paolo VI. Si vede un lavoro di consapevole cucitura del tessuto della Chiesa. Si nota uno stile di governo. Come ha detto un altro suo fratello agostiniano, Josef Sciberras: “Un governo collegiale, ma con una guida salda, pienamente consapevole della responsabilità del ministero petrino di garantire l’unità e confermare tutti nella Fede”».
Cosa caratterizza l’azione pastorale del nuovo pontefice?
«Si trova molto il discorso del cuore a cuore, ma non quello del sentimentalismo e dell’emozionalismo che attraversa le società occidentali ed ecclesiali e che infantilizza uomini e donne. Si tratta di ben altro: di voler facilitare l’incontro tra il cuore del credente e il cuore di Cristo. Esempi chiari si sono avuti nei discorsi papali pronunciati durante il Giubileo dei giovani e in modo mirabile nella veglia notturna a Tor Vergata, quando il silenzio e l’adorazione eucaristica hanno unito il Papa e i giovani in una preghiera intima con Dio, nonostante ci fosse un milione di persone. La cura pastorale in ultimo riguarda l’annuncio evangelico».
Con Evangelii Gaudium Francesco aveva indicato le linee guida per annunciare il Vangelo nel mondo attuale: quale metodo di evangelizzazione coglie nel suo successore?
«Un metodo semplice e per niente sorprendente: un cammino di coerenza evangelica. Leone XIV l’ha detto chiaramente ai giovani del Giubileo: “Noi non solo riceviamo una cultura, ma la trasformiamo attraverso scelte di vita”. Il Vangelo vissuto può trasformare la cultura, la società, la politica, l’economia. Il Papa crede che il cattolicesimo possa ancora incidere sui processi relazionali e sociali. E così non si arrende al relativismo e ai giovani parla di verità, di quella che non illude. Propone un cattolicesimo per niente timido, ma non per questo arrogante e parla anche di amicizia come via per cambiare il mondo. In ultimo un cattolicesimo gentile, ma saldo e coraggioso».
Durante il Giubileo dei giovani si è vista una Chiesa che non vuole rinunciare alla sua presenza pubblica, come voleva Giovanni Paolo II, di cui Leone ha ripreso una delle frasi più belle rivolgendosi ai ragazzi («è Gesù che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande, per migliorare voi stessi e la società, rendendola più umana e fraterna»): quello di Wojtyla sarà anche il modello di Prevost?
«Leone XIV non propone il modello di una Chiesa insicura ed incerta, ma la rilancia nello spazio pubblico per annunciare Cristo. Giovanni Paolo II è stato il Papa delle piazze e dello slancio missionario. Prevost l’ha ripreso volutamente in mondovisione e ha incoraggiato i giovani con le stesse parole d’ordine. Propone la bellezza dell’esperienza della fede in Cristo, che vivifica tutte le relazioni. È la pastorale del cuore, centrata sulla verità di Cristo e la sua capacità di trasformare ogni durezza di vita. È un discorso che riguarda la redenzione di ogni persona».
Anche se per le sue origini europee e la sua vasta esperienza internazionale da priore generale degli agostiniani Prevost non può essere ridotto a un unico passaporto, resta il fatto che è il primo Papa americano nella storia della Chiesa. Quale sarà la sua relazione con Washington?
«La relazione tra Vaticano e Washington interessa tutti, soprattutto dopo le tensioni nell’ultimo tratto del pontificato di Francesco: ad entrambi conviene avere reciproche buone relazioni. Non solo relazioni, ma buone e cordiali. Si tratta di due potenze di diverso ordine, ma che hanno un impatto globale. E la Santa Sede ha il peso del suo soft power, dell’autorevolezza morale sulla scena internazionale. Inoltre, il cattolicesimo ha un peso significativo negli Usa: cattolici ricoprono ruoli importanti nella Corte Suprema (ben sei giudici su nove sono cattolici, compreso il presidente) e all’interno dell’amministrazione Trump (si pensi al vicepresidente, Vance). Papa Prevost è figlio di questo cattolicesimo, ma padre di tutti i cattolici nel mondo e dunque avere buone relazioni non significherà mai né sudditanza, né finta lontananza per non far pesare le sue origini. Si tratterà di un lavoro di sana collaborazione. D’altra parte la Chiesa cattolica non ha alleati permanenti, ma interessi permanenti e su questi ultimi ci si confronterà».
Una delle prime controversie che Leone ha dovuto affrontare è stato l’attacco israeliano alla parrocchia della Sacra Famiglia a Gaza, cui è seguita una telefonata con il premier Netanyahu. Sul conflitto russo-ucraino ha parlato con Putin: contatti diretti che nel precedente pontificato non avevamo visto. Leone come sta posizionando la Chiesa nel mondo, in particolare in materia di relazioni internazionali e di diplomazia pontificia?
«Si nota un nuovo protagonismo della Segreteria di Stato, ed è evidente una coerenza di discorso pubblico tra il Papa e i suoi uffici curiali. Le parole impiegate sono pesate e ripetute. Si tratta di una linea diplomatica che precede l’elezione dello stesso Prevost, che nella sua vita si è occupato prettamente di questioni ecclesiali più che di politiche internazionali. All’interno di questa dinamica il Papa non teme di esporsi, avviando contatti diretti e personali con i protagonisti della scena internazionale, fino addirittura ad offrire il Vaticano come luogo di trattative di pace. Gli orizzonti della diplomazia pontificia sono evidenti e coerenti nel tempo. Come ha detto lo stesso Leone: il Papa passa, la Curia resta».
«L’Unione europea sta conducendo un attacco all’umanità». Non ha usato mezzi termini Fernand Kartheiser, parlamentare europeo lussemburghese di Adr (Alternative democratic reform party) e diplomatico di professione, parlando a un incontro internazionale svoltosi nei giorni scorsi a Londra per fare il punto sulla crisi della libertà di espressione nel Vecchio continente.
A margine della riunione ci ha spiegato - offrendo il punto di vista di un insider che non teme di esporsi - che cosa sta diventando questa Unione, come provochi e usi le crisi per portare avanti un piano di dominio degli Stati nazionali e quanto stia standardizzando i nostri comportamenti attraverso la censura (esemplare in tal senso la recente retata condotta in Germania dalle autorità fra 170 cittadini colpevoli di aver criticato i politici sui social) e l’appoggio di media asserviti.
Lei si è fatto un’idea del perché si continui a portare avanti il piano Rearm Europe nonostante i pesanti tagli alla spesa sociale che comporta?
«Perché stanno cercando pretesti per portare l’Ue a essere uno Stato federale. È una strategia di accaparramento del potere: fanno credere di avere un nemico e di essere costretti a riarmarsi, per avere una politica di Difesa e più in generale un sistema decisionale comune. La Russia serve a questo visto che, secondo me, non rappresenta alcuna minaccia reale per l’Ue: c’è un conflitto in Ucraina che va risolto andando alle cause locali ma non c’è una ideologia espansionistica da cui difendersi, eppure il pericolo viene creato artificialmente e promosso dai media mainstream. E comunque, se anche ci fosse realmente una minaccia, andrebbe risolta per via diplomatica, con un rafforzamento delle misure di fiducia e trattati di limitazione degli armamenti. Di questo però nessuno parla perché non è funzionale ai piani di riarmo, il cui principale obiettivo è trasformare l’Unione europea in uno Stato: per farlo serve una crisi e la crisi viene alimentata descrivendo la Russia come un possibile invasore».
L’idea ventilata di un esercito europeo è praticabile?
«Per il momento è troppo difficile per vari motivi, inclusa la resistenza dei parlamenti di alcuni Paesi. L’interesse primario è creare le strutture politiche che permettano all’Ue di usare gli eserciti nazionali e avere una sufficiente capacità di Difesa per condurre una guerra imponente».
Questa entità comune allargherà la propria sfera decisionale in altri campi?
«È molto possibile: se i nostri Paesi perdessero la propria autonomia strategica - gli interessi in materia di sicurezza dell’Italia sono diversi da quelli di Svezia o Danimarca - perderebbero la capacità di prendere decisioni, perché avremmo un Consiglio di difesa comunitario che determinerebbe quali sono gli interessi dell’Unione. Come italiani rischiereste di essere trascinati in conflitti non vostri e così toccherebbe agli altri. È al contempo una perdita di identità nazionale e di capacità di ciascuno Stato di definire il proprio interesse strategico: verremmo tutti ridotti a fornitori di armi e soldati a qualche organismo decisionale europeo che nessuno di noi sarebbe in grado di controllare democraticamente».
E come spiegare l’insistenza sul Green deal europeo che sta danneggiando molti comparti?
«In Europa assistiamo a deindustrializzazione, perdita di competitività, aziende che se ne vanno per la burocrazia e la “pressione verde”: è il risultato di un’agenda puramente ideologica che aveva come obiettivo la creazione di una maggioranza di sinistra nel Parlamento europeo. D’altronde gli attuali leader Ue, come Ursula von der Leyen, vengono proprio dalla sinistra verde. Il Green deal è stato presentato come un progetto che avrebbe generato impiego e ci avrebbe reso più competitivi: assurdità. Semmai è vero il contrario: stiamo diventando ogni giorno più poveri, perdiamo la nostra base industriale, facciamo scappare lavoratori qualificati, non sviluppiamo le nostre fonti di energia ma al contrario ci isoliamo a causa di costi energetici troppo elevati».
Perché accusa l’Ue di condurre un attacco all’umanità?
«Perché vedo una tendenza generale, ispirata dall’ideologia di sinistra, che vuole limitare la nostra libertà in svariati campi: dalla indipendenza accademica e universitaria, alla creatività in campo artistico, al settore legale - basti pensare al reato di ostruzionismo previsto dalla nuova legge francese sul “diritto a morire”, che considera un ostacolo chi cerca di impedire che una persona attui il suicidio assistito. Per non parlare della libertà di parola, laddove attraverso il Digital services act (Dsa) si stabilisce una vera e propria censura».
Come si manifesta in concreto?
«Uniformando: quando riduci la libertà di parola, omologhi le informazioni date da giornali, libri o tv, reprimi la creatività intellettuale e cominci a imporre parole come “islamofobia”, proibendo alle persone di usare i termini che preferiscono, significa che vuoi conformare le masse: non hai più un individuo originale che si differenzia per le sue caratteristiche, positive o negative che siano, ma comportamenti uniformi da parte delle persone. Questa combinazione fa sì che la nostra capacità di analisi dei fatti e la nostra dimensione morale siano sempre più limitate. Ed essere messi tutti allo stesso livello ci rende una folla facilmente controllabile».
Oggi la censura passa anche attraverso le categorizzazioni: due settimane fa lei è stato espulso dal gruppo dei Conservatori e riformisti europei per essere stato in Russia. Cosa è successo?
«Essendo un diplomatico di professione credo nel dialogo come forma di soluzione dei conflitti: sono andato a Mosca per un incontro con i leader della commissione Affari esteri dei due rami del Parlamento e con il governo russo e ho avuto discussioni interessanti e costruttive: abbiamo toccato questioni molto spinose, ho espresso le mie critiche per i crimini di guerra e la preoccupazione per la protezione dei civili e ho trovato i russi molto aperti. Ma il mio gruppo politico ha deciso che con loro non si può parlare e mi ha cacciato: credo che questo atteggiamento non permetta di fare progressi e resto convinto che cercare di stabilire relazioni e negoziare resti la via migliore».
Nessuna solidarietà dagli iscritti al gruppo?
«Era un voto aperto e su un’ottantina di membri molti non si sono presentati mentre alcuni di quelli che hanno votato per l’espulsione mi hanno detto che stanno con me ma che non hanno potuto fare altrimenti per le pressioni avute dai rispettivi partiti».
Quali le reali implicazioni del Dsa?
«Questa norma censoria ha conseguenze anche all’esterno dell’Unione, visto che le piattaforme internet - per definizione globali - rischiano pesanti sanzioni se non cassano contenuti ritenuti illegali o politicamente scorretti. L’Ue non nasconde neanche che la sua intenzione è regolamentare tutto il Web, ben oltre i propri confini. Quanto questo sia realistico nell’America di Donald Trump, in Cina o in Russia non lo so, ma l’influenza europea è enorme ed è cruciale che tutti gli europei, parlamentari e non, si battano per abolire il Dsa».
Una grande legge di libertà, uguaglianza e fraternità per poter disporre della propria morte. È con questa enfasi che in Franciaè stata presentata dai suoi promotori - presidente Emmanuel Macron in testa - la proposta di legge sul fine vita. Approvato nelle scorse settimane a larga maggioranza dall’Assemblea nazionale, il testo che disciplina «l’aiuto a morire» ora proseguirà il suo iter legislativo in Senato. In Italia, invece, una legge del centrodestra andrà in Aula - da calendario - il 17 luglio al Senato. Per la prossima settimana è convocato il comitato ristretto che dovrebbe presentare un testo.
La realtà del provvedimento definito da Macron di «dignità e umanità» è però ben diversa e tra quanti si battono per evidenziarla c’è la Fondazione Jérôme Lejeune, che prosegue l’opera del noto genetista francese, scomparso nel 1994, scopritore della causa della sindrome di Down. Attuale presidente della Fondazione è Jean Marie Le Méné, che in una recente audizione alla commissione affari sociali dell’Assemblea nazionale ha denunciato l’ingiustizia della nuova norma sul fine vita. A La Verità, Le Méné mostra l’altra storia, di agghiacciante disumanità, dietro una misura le cui evidenti derive etiche e civili sono un monito per gli Stati - Italia inclusa - che si preparano a legiferare in materia.
Cosa prevede il testo che adesso approderà in Senato? Quali i rischi pone per le persone più fragili?
«Stabilisce il principio dell’autosomministrazione della sostanza letale, ovvero il suicidio assistito. Alla persona “idonea al diritto all’assistenza a morire” spetterà iniettarsi la sostanza da sola. Se impossibilitata, potrà chiedere a un assistente di farlo per suo conto, attuando l’eutanasia. La legge stabilisce cinque condizioni cumulative: avere almeno 18 anni; essere di nazionalità francese o risiedere stabilmente e legalmente in Francia; essere affetti da una patologia grave e incurabile; presentare una sofferenza fisica o psicologica costante legata a questa condizione, refrattaria al trattamento o insopportabile secondo il malato stesso; essere in grado di esprimere la propria volontà in modo libero e informato. Di fatto, il testo introduce l’eutanasia per tutti, utilizzando criteri estremamente soggettivi giacché l’espressione «peggioramento di uno stato di salute che influisce sulla qualità della vita» è molto vaga. Le persone con disabilità sono quindi ammissibili all’eutanasia come tutti gli altri. La legge non prevede alcuna misura di esclusione.I principali pericoli per le persone disabili sono due: in primo luogo, che l’atto che porta alla morte non sia oggetto di pieno consenso del paziente, soprattutto se affetto da disabilità intellettiva. In secondo luogo, c’è il rischio che la disabilità stessa diventi un motivo sufficiente per essere sottoposti a eutanasia non appena la qualità della vita viene compromessa».
Prima l’inserimento del diritto all’aborto in Costituzione, ora la legalizzazione dell’eutanasia: si direbbe che nella Francia di Macron viga una cultura della morte. Cosa sta succedendo?
«C’è una logica perfetta nel votare contemporaneamente il diritto all’aborto e quello all’eutanasia: in entrambi i casi, l’obiettivo è controllare la vita, nei suoi primi e ultimi istanti. Si sostiene, contro ogni verità scientifica, che all’inizio “non c’è ancora una vita” e che alla fine «non c’è più una vita». Gli argomenti e coloro che li sviluppano sono gli stessi. La filosofia materialista che sta alla base di queste norme è quella dell’assoluta autonomia dell’individuo che dipende solo da se stesso: “Io sono l’artefice di me stesso, la mia vita e la mia morte mi appartengono, non devo rendere conto a nessuno. E lo Stato deve garantirmi, con l’aiuto della medicina, il diritto di scegliere di vivere o di morire, sia per me stesso (eutanasia) che per gli altri (aborto)”».
Ciò che per una società dovrebbe essere una sconfitta - il suicidio dei propri cittadini - diventa una virtù da perseguire ed esaltare. Questa narrazione sarebbe possibile senza un rovesciamento logico e valoriale?
«La clausola di coscienza non consente ai curanti di ritirarsi completamente dal processo di morte, poiché devono trasmettere la richiesta a un altro professionista, il che implica un’evidente complicità e un’inammissibile violazione della libertà del medico. Quanto ai farmacisti che preparano la sostanza letale, non hanno una clausola di coscienza. Il reato di ostruzionismo, che vieta, pena multe e carcere, qualsiasi tentativo di dissuadere qualcuno dal ricorrere al suicidio assistito o all’eutanasia, crea un clima generale di sfiducia, sospetto e dubbio. I parlamentari hanno applicato all’eutanasia la stessa ossessione repressiva prevista per chi ostacola l’aborto, aumentando le pene a 30.000 euro di multa e due anni di reclusione. Requisire i curanti, abbandonare i pazienti e denunciare chi vuole invocare le cure palliative piuttosto che convalidare una richiesta di morte indotta, sono i tre termini che caratterizzano questo rovesciamento dell’etica medica ippocratica».
Studi dimostrano che antidoto alla richiesta di morte sono le cure palliative. Ma la prima conseguenza della legalizzazione di eutanasia e suicidio assistito è proprio la scomparsa di queste terapie.
«È una bugia affermare che i pazienti avranno la possibilità di scegliere, visto che l’intera Francia è ben lontana dal disporre delle cure palliative promesse da decenni. Secondo la Corte dei conti, il 50% dei bisogni rimane insoddisfatto. Paradossalmente, per giustificare l’eutanasia si invoca il fallimento dei servizi pubblici, il che dimostra che l’eutanasia non è la risposta giusta. Inoltre, essendo le cure palliative più costose dell’eutanasia, il loro sviluppo sarà frenato: saranno per i ricchi mentre i poveri avranno l’eutanasia.
È vero che questa legge è voluta dal 90% dei francesi?
«Per i sostenitori dell’eutanasia è necessario farlo credere ma non è vero: sono numeri falsi. Quando si chiede ai francesi - come nel sondaggio Ifop del giugno 2023 - se la legge possa autorizzare i medici a porre fine alla vita di persone affette da malattie insopportabili, la domanda è parziale poiché si parla o di sofferenza o di morte. Si fa credere che l’alternativa all’eutanasia sia il dolore atroce e si omette di dire che la soluzione sono le cure palliative. Questo non è un modo onesto di porre le cose».
A che cosa risponde allora questa proposta di legge? Chi ci guadagna?
«Questa legge è una vittoria per la massoneria, che continua a veicolare la filosofia dei Lumi settecenteschi che ritiene che l’uomo non meriti più rispetto - e semmai ne meriti meno - di altre specie viventi. È dunque una legge puramente ideologica che nulla ha a che fare con il sollievo del dolore e l’accompagnamento dei moribondi. È anche una legge utilitarista: guarda caso questo approccio “ciascuno per sé” arriva nel momento in cui la famiglia tradizionale non è più di moda, la sanità arranca, le pensioni sono in pericolo, gli anziani troppo numerosi e i giovani troppo pochi. Solo la finanza guadagna, in apparenza però, visto che sopprimere i poveri non sopprime la povertà. Proprio come sopprimere i morenti non sopprime né la morte né la paura di morire. Se un Paese vuole sopravvivere, deve rinunciare a ciò che ne uccide l’anima, per ritrovare la speranza».





