2023-07-09
Addio Suarez, Picasso nerazzurro
È morto a 88 anni il campione dell’Inter di Angelo Moratti e Helenio Herrera. Asso in campo e signore fuori, fu il primo regista moderno. Dei suoi gol diceva: «Avvengono per caso».L’insostenibile leggerezza di Stanlio. «L’Inter? Un’amante per me irraggiungibile con l’età». «Questo calcio muscolare sembra wresting». Finiva sempre le chiacchierate con una battuta lieve chiusa dalla smorfia del meraviglioso comico, che partiva dalla bocca e arrivava alle tempie. Se avesse avuto in testa una bombetta, Luisito Suárez l’avrebbe fatta ballare come gli avversari dei nerazzurri nell’età dell’oro. Luis Suárez Miramontes se n’è andato a 88 anni senza dribbling, sazio di giorni e di pensione, guardando la bacheca con due Coppe dei Campioni, due Coppe intercontinentali, tre scudetti con l’Inter, due campionati spagnoli con il Barcellona, un titolo europeo con la Spagna e il Pallone d’oro.Il primo regista moderno della storia arrivò in Italia dalla Cataluña, acquisto top di Angelo Moratti che nel 1961 voleva costruire uno squadrone a Milano per vincere tutto. Esattamente come suo figlio Massimo che 37 anni dopo andrà sulle Ramblas a prendere Ronaldo (il fenomeno). Fu pagato 300 milioni, che consentirono al club blaugrana di costruire un nuovo anello al Camp Nou. «Quando non sapete cosa fare date la palla a Suarez», diceva Helenio Herrera alla squadra negli spogliatoi prima delle partite decisive. E poiché davanti aveva geni del palleggio come Mario Corso, Sandro Mazzola, Jair, il consiglio era un’investitura assoluta. Responsabilità da numero uno che Luisito, con quel nomignolo da gelateria, sosteneva con la facilità dei fuoriclasse. Palla a lui, testa alta, lancio da 40 metri che si trasformava in pennellata picassiana per chiunque stesse correndo nella prateria verso la porta avversaria. «Il mio centravanti è lo spazio», scandiva Pep Guardiola prima di accorgersi che Erling Haaland è meglio. Suárez lo aveva capito quando in tv le partite erano in bianco e nero.«Suárez era la mente, Mazzola il braccio. E Corso era Corso». È la fotografia dell’ex presidente Moratti, è una sentenza senza appello che dà il senso della storia a uno squadrone leggendario. Dove lo spagnolo nato a La Coruña nel 1935 fungeva da architetto, da costruttore di gioco e da rifinitore sublime (un po’ Christian Eriksen, ma meglio) quando era necessario. Finita l’era dei titani provò ad allenare ma era troppo signore; l’Inter gli diede per tre volte la chance (1975, 1992, 1995) e per tre volte gliela tolse. Con il passare gli anni si accorgeva di essere troppo raffinato per un calcio adatto ai muscolari del pensiero, più incline agli scacchi mentre imperversava il poker. Allora s’inventò la battuta sull’amante irraggiungibile e salutò la compagnia. Non prima di essersi seduto sulla panchina di Cagliari, Spal, Como e Nazionale spagnola con risultati rivedibili.Disincantato e ironico, era un gran conversatore e un gran conservatore. A chi gli chiedeva quale fosse il segreto dei suoi gol da incursore (arrivava da dietro, un po’ come oggi Nicolò Barella e Adrien Rabiot) rispondeva: «Succede come quando rovesci il vino a tavola. Per caso». E poi via con quella smorfia leggera da Stanlio, come se tutto fosse di passaggio a questo mondo. Come se tutto valesse una finta di corpo a stendere Lodetti del derby.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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