2023-04-08
Addio al Piero Angela del pianoforte che dava del tu a Beethoven e Chopin
Il critico Piero Rattalino si è spento a 92 anni dopo l’ennesima lezione-concerto. Lascia un’eredità sconfinata di provocazioni contro il mito dell’impeccabilità e la follia dei concorsi. Ramin Bahrami: «Ancora una volta perdo un padre».Quando la musica è finita, Piero Rattalino stava insegnando. Continuava a farlo, a dispetto dei suoi 92 anni e di vari acciacchi, dal momento in cui si era accorto di essere un pianista di talento, ma con una vocazione travolgente per l’educazione. Se n’è andato spiegando la Grande Sonata «Patetica» n.8 Op.13 di quel «figlio di buona donna» (erano amici) di Ludwig van Beethoven, nella Rocca Sforzesca di Imola, come forse era giusto che toccasse al più grande divulgatore musicale italiano, segnato da una passione quasi monomaniacale per il pianoforte. Understatement piemontese, simile a quello di un altro Piero illustre come Angela - era originario di Fossano (Cuneo) - «studioso, divulgatore, provocatore, mente lucidissima in un fisico da anni sofferente», lo ricorda la Fondazione Accademia incontri con il Maestro, sede della sua ultima lezione-concerto. Ma forse la definizione fulminante e definitiva l’aveva già data la moglie - pianista, ça va sans dire - Ilia Kim: «Uomo che pensa diverso». A far innamorare la musicista, venuta da Seul, era bastata la scintilla della curiosità che brillava sempre negli occhi dello strabordante critico musicale, rendendo la differenza d’età tra i due un dettaglio insignificante. «Ero convinto che avesse stretto un patto con il diavolo», racconta alla Verità Nicola Cattò, direttore della rivista Musica, di cui Rattalino era una colonna dal 1977. «Di fronte alla malattia, aveva conservato fino all’ultimo una capacità di leggere il presente e di anticipare il futuro che avevano del miracoloso. Ha inventato praticamente da zero, almeno in Italia, il concetto di “storia dell’interpretazione”, rompendo le rigidità della musicologia allora imperante. Negli ultimi anni aveva centrato la sua riflessione soprattutto sulla crisi della musica dal vivo, insistendo sulla necessità di una rivoluzione sociale e culturale che all’elemento del docere sostituisse la narrazione e l’emozione». Mentre l’ingegnere Paolo Fazioli non dimentica gli incoraggiamenti ricevuti all’inizio della sua avventura come costruttore di altissima gamma («L’Italia, culla del pianoforte, non aveva una marca di livello mondiale, ora ce l’ha»). «Rattalino», ci confida Fazioli, «era il sacerdote di questo strumento. Ogni volta che ci parlava ne scoprivamo la sacralità e l’umanità».Primo di cinque figli, dell’educazione cattolica della madre (terziaria francescana) la pratica religiosa non gli era rimasta, ma la fede in Dio e nella Provvidenza sì («Tutte le volte che ho avuto un problema mi ha aiutato»). Allievo di Carlo Vidusso («Studiare il pianoforte con lui era come studiare composizione con John Cage. Detestava il sentimento e il colore»), Piero Rattalino per 20 anni è stato un pianista, per 42 un docente di Conservatorio (si era dimenticato di andare in pensione), anche se già a 23 si era messo a scrivere per non smettere mai più, e a 38 aveva iniziato a dare un nuovo senso al ruolo del direttore artistico. «L’insegnamento del pianoforte», spiegava, «non è diverso dagli altri ambiti. O si istruisce una certa materia o per mezzo di quella si educa alla vita». E lui, che si sentiva educatore e non istruttore, aveva scelto la seconda via: «Mi servo del pianoforte per educare alla musica, della musica per educare all’arte e dell’arte per educare alla vita». Basta afferrare a caso uno dei volumi della sua produzione sconfinata (ci lascia in eredità una sessantina di libri e un numero imprecisabile di recensioni, programmi di sala e interviste, oltre allo speciale Con le note sbagliate, di cui si può ancora godere su RaiPlay) per scovare delle perle illuminanti. Chi è, ad esempio, il vero concertista? «Uno che di fronte a una platea gremita suona meglio che a casa sua, perché è intimamente convinto di essere ben al di là di quel limite da cui comincia il diritto di suonare in pubblico». Cos’è il successo? «Avere l’approvazione del 70-80% della sala e la riprovazione di tutti gli altri. Bisogna spaccare il pubblico, non puntare alla maggioranza bulgara». La Sonata n.26 «Gli addii» dell’amato Beethoven? «È la Parabola del figliol prodigo, vista con gli occhi di chi è andato via». La musica di Fryderyk Chopin, di cui scrisse anche un diario in prima persona? «Malaticcia, come lui. Di certo non eroica». Il diciottenne Maurizio Pollini che trionfò proprio al Concorso di Varsavia del 1960? «A giudicare dal programma, un serio candidato al manicomio o alla vittoria». Ed è proprio sulle competizioni pianistiche (e non solo) che c’è da divertirsi. «I concorsi non servono», provocava, «fanno solo accumulare titoli. La dimostrazione? Un’enorme quantità di vincitori di premi, anche piuttosto importanti, non fa carriera». Tutta colpa dell’accademismo e del falso mito dell’impeccabilità. «Non viene valutato ciò che il concertista è in grado di trasmettere al pubblico, ma quello che comunica alla giuria. Il mediocre non disturba nessuno, prende 7 e va avanti. Il creativo, per le stesse ragioni, prende sia 10, sia 3».Quando l’onere di sedersi in commissione toccava a lui, aveva un metodo infallibile: «Porto dei libri, mi distraggo volontariamente. Se succede qualcosa, l’orecchio mi fa smettere di leggere. Altrimenti la musica rimane in sottofondo e do un bel 7». E proprio così, nella routine degli esami di ammissione al Conservatorio di Milano, avviene l’incontro con il pianista Ramin Bahrami, fuggito dalla rivoluzione islamica in Iran, che imprigionerà e ucciderà suo padre. «Suonava malissimo», sentenziò, «come uno che parla una lingua senza conoscerla bene. Ma si restava colpiti dalla sua personalità». È l’inizio di un cammino intenso e burrascoso. «Per farlo arrivare a un tollerabile rispetto dei segni d’espressione ci volevano le cannonate». Fino alla resa finale: «Con Ramin ho vinto tutte le battaglie, ma fortunatamente ho perso la guerra. Gli ho solo insegnato a sopportare il morso. E spero che continui a essere com’è, artista puro e indomabile».«Per la seconda volta nella vita perdo un padre», confida alla Verità lo stesso Bahrami. «Mi ha donato la sua immensa conoscenza dello strumento e, per certi versi, mi ha adottato. Aveva un cuore enorme: nessuno sa che assunse mia madre come domestica per impedire che lasciasse l’Italia. E pochi conoscono la sua ironia fuori dal comune. Un giorno mi ficcò su un treno e mi spedì a fare un’audizione al Teatro Massimo Bellini di Catania (che ha ricordato «l’insigne studioso» con una nota commossa, ndr), di cui era direttore artistico. Mi ritrovai tra le ballerine, un pubblico urlante di 2.000 persone e Mara Venier, per uno speciale Mediaset di cui non sapevo nulla. Era un genio italiano, non potete scordarvi di lui...».
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.