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2022-06-11
Accordo militare Nicaragua-Mosca. Biden si trova i nemici sotto il naso
Vladimir Putin e il presidente del Nicaragua Daniel Ortega (Ansa)
Crescono i problemi latinoamericani per Joe Biden. Il Nicaragua ha autorizzato lo schieramento sul proprio territorio di aerei, navi e piccoli contingenti della Federazione russa: ufficialmente l’obiettivo è quello di garantire attività di addestramento, rafforzare la sicurezza interna e svolgere funzioni di polizia. Sebbene il ministero degli Esteri russo abbia parlato di una «procedura di routine», è chiaro che, con questa mossa, Mosca punta a consolidare la propria penetrazione in America Latina. Del resto, i suoi rapporti con Managua sono storicamente abbastanza stretti. Le due capitali collaborano già da tempo in materia di addestramento militare, mentre la Russia ha in passato garantito al Nicaragua assistenza finanziaria.
La notizia del dispiegamento di truppe russe arriva inoltre nella stessa settimana in cui gli Stati Uniti hanno ospitato la nona edizione del Summit of the Americas. Un evento che avrebbe dovuto rilanciare il ruolo di Washington in America Latina e che si è invece risolto in un mezzo fallimento. I leader di svariati Paesi (tra cui Messico, El Salvador, Honduras e Guatemala) hanno infatti evitato la partecipazione in risposta alla decisione di Biden di non invitare i presidenti di Venezuela, Cuba e Nicaragua in quanto dittature. Il che, sia chiaro, avrebbe anche potuto avere un senso, visto il dichiarato impegno dell’attuale inquilino della Casa Bianca contro le autocrazie. Il paradosso sta tuttavia nel fatto che, proprio nelle scorse settimane, Biden ha revocato le restrizioni che Donald Trump aveva imposto al regime castrista, allentando inoltre la pressione statunitense sul governo di Nicolas Maduro con l’obiettivo di trarne benefici sul piano energetico. Insomma, la logica pare latitare di questi tempi alla Casa Bianca. Per Biden si pone quindi un duplice problema.
In primis c’è il nodo della crisi migratoria al confine meridionale degli Stati Uniti: una crisi che ad aprile ha raggiunto livelli record. Ebbene, a marzo dell’anno scorso, Biden aveva incaricato Kamala Harris di affrontare la questione attraverso uno sforzo diplomatico proprio con i Paesi dell’America Centrale (da cui arriva la gran parte dei flussi): un incarico in cui la vicepresidente ha tuttavia fallito miserevolmente. Il secondo nodo, lo accennavamo, è la perdita di influenza nel Sudamerica da parte degli Stati Uniti. Oltre al Nicaragua, la Russia intrattiene stretti legami anche con Venezuela e Cuba. Mosca vanta connessioni con Caracas innanzitutto nel settore petrolifero. Era inoltre il 2018, quando i russi inviarono nel Paese due bombardieri strategici Tu-160, mentre l’anno dopo vi schierarono mercenari del Wagner Group a tutela della sicurezza di Maduro: quel Maduro che ha dato il proprio endorsement all’invasione russa dell’Ucraina. E che, mentre si teneva l’ultima edizione del Summit of the Americas, è stato ricevuto ufficialmente da Tayyip Erdogan in Turchia. Anche i rapporti tra Mosca e L’Avana restano solidi: tanto che, ad aprile, i russi hanno donato quasi 20.000 tonnellate di grano a Cuba.
Tuttavia la penetrazione di Mosca non è l’unico problema che Biden deve affrontare in America Latina. Sotto questo aspetto, un altro attore ancor più preoccupante è la Cina.
Il presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, avrebbe innanzitutto intenzione di siglare un accordo di libero scambio con Pechino entro il prossimo anno. In secondo luogo, una recente analisi di Reuters ha mostrato che, da quando Biden è entrato in carica, il Dragone ha acquisito un significativo vantaggio commerciale in America Latina a discapito degli Stati Uniti. Un vantaggio commerciale che i cinesi poi traducono ovviamente in influenza politica.
In questo quadro, Pechino sta cercando di spingere i Paesi latinoamericani che riconoscono formalmente Taiwan a rompere i rapporti diplomatici con l’isola: come sottolineato da The Diplomat, negli ultimi cinque anni, Taipei ha perso quattro alleati in America Centrale: Panama (nel 2017), El Salvador (nel 2018), la Repubblica Dominicana (nel 2018) e lo stesso Nicaragua (nel 2021). In tal senso, come in Nord Africa, uno degli strumenti principali che finora Pechino ha usato per estendere la propria influenza in America Latina è stato, oltre a prestiti ed investimenti, quello della diplomazia vaccinale. Un altro fronte sarà presto rappresentato dalla crisi alimentare, innescata dal conflitto in Ucraina: una crisi che rischia di avere impatti drammatici sull’America Latina. Biden ha pertanto intenzione di annunciare 331 milioni di dollari per contrastare il fenomeno in loco.
Dal canto suo, Pechino non resterà prevedibilmente con le mani in mano e potrebbe ricorrere alla diplomazia dei fertilizzanti (come ha già fatto di recente in Algeria).
Più in generale, è pur vero che il presidente americano ha appena reso noto un piano di cooperazione economica rivolto all’America Latina per contrastare l’avanzata cinese. Tuttavia, secondo quanto riferito da Reuters, il suo «Americas Partnership for Economic Prosperity» risulterebbe un progetto ancora piuttosto astratto, che non garantirebbe tra l’altro concrete riduzioni tariffarie ai Paesi partecipanti. Non è quindi chiaro in che modo l’attuale Casa Bianca speri di recuperare realmente soft power in America Latina, mentre l’asse sino-russo si muove spregiudicatamente non soltanto in loco, ma anche in Africa e Medio Oriente. Biden sta finendo con le spalle al muro a causa della sua stessa confusa irresolutezza. O agisce prontamente. O per l’Occidente tutto si profilano guai seri.
«Putin continuerà così per un anno»
Le forze russe proseguono l’offensiva nel Donbass, puntando alla conquista dell’intera regione di Lugansk. Le operazioni militari infuriano soprattutto nell’area di Severodonetsk. In particolare, il governatore di Lugansk, Serhiy Haidai, ha detto che nei pressi della città i russi stanno «distruggendo tutto sul loro cammino», aggiungendo che «le battaglie sono in corso per ogni casa e ogni strada» e denunciando la distruzione del locale Palazzo del Ghiaccio. «Uno dei simboli di Severodonetsk è stato distrutto. Il Palazzo del Ghiaccio è andato a fuoco. Pattinaggio artistico, hockey, pallavolo, scuola di sport, concerti, quasi cinquant’anni di storia dello sport e sviluppo culturale», ha affermato il governatore. Dal canto suo, il comandante ceceno, Apti Alaudinov, ha ammesso dei problemi nell’avanzata russa in città, mentre nel centro di Donetsk si è verificata ieri una forte esplosione.
In tutto questo, il vice capo dell’intelligence militare di Kiev, Vadym Skibitsky, ha detto al Guardian che le forze ucraine sono in difficoltà, auspicando pertanto l’invio di nuove armi da parte dell’Occidente. «La dirigenza del Cremlino probabilmente cercherà di congelare la guerra per un po’ per convincere l’Occidente a revocare le sanzioni, ma poi continuerà l’aggressione», ha inoltre dichiarato la direzione dell’intelligence ucraina. «Le risorse economiche della Russia consentiranno al Paese occupante di continuare la guerra al ritmo attuale per un altro anno», ha aggiunto.
Nel mentre, la vicepremier ucraina, Iryna Vereshchuk, ha affermato che la Russia starebbe bloccando l’evacuazione da Kherson e dalle aree in parte occupate della regione di Zaporizhzhia. Dal canto suo, il ministro dell’Interno ucraino, Denys Monastyrsky, ha per il momento escluso un attacco di truppe russe contro Kiev. «Non c’è pericolo di un attacco a Kiev oggi», ha detto. «Non c’è alcun assembramento di truppe vicino al confine bielorusso, ma comprendiamo che domani sarà possibile qualunque scenario». Il sindaco di Kharkiv, Igor Terekhov, ha invece sottolineato che sulla sua città si stanno registrando bombardamenti di maggiore potenza, per quanto di numero inferiore rispetto al passato.
L’ambasciatore statunitense presso l’Osce, Michael Carpenter, ha frattanto dichiarato che Mosca «sta preparando il terreno per l’annessione» della regione di Kherson alla Federazione russa, «aspettando il momento opportuno per farlo». «Kherson è il laboratorio degli orrori del Cremlino. Ogni giorno che Kherson rimane sotto il controllo della Russia, il Cremlino lavora per portare avanti il suo piano per sostituire il governo democratico di Kherson, la stampa libera e la società civile con uno stato di polizia in stile Cremlino che umilia e brutalizza la popolazione locale», ha altresì affermato.
In tutto questo, il Regno Unito ha detto di temere un’epidemia di colera a Mariupol. «L’Ucraina ha subito una grave epidemia di colera nel 1995 e da allora ha subito epidemie minori, specialmente intorno alla costa del Mar d’Azov, che include Mariupol», ha affermato il ministero della Difesa di Londra. «I servizi medici a Mariupol sono probabilmente già vicini al collasso: una grave epidemia di colera a Mariupol aggraverà ulteriormente la situazione», ha proseguito, denunciando poi scarsità di medicinali anche a Kherson. L’allarme colera è stato altresì lanciato dal primo cittadino di Mariupol, Vadym Boichenko. «C’è un focolaio di dissenteria e colera», ha dichiarato, specificando di temere migliaia di vittime.
Il sindaco di Mykolaiv, Oleksandr Senkevych, ha frattanto affermato che uno dei principali porti locali per lo stoccaggio del grano è stato duramente colpito dalle truppe di Mosca. «Nella città», ha anche detto il primo cittadino, «è rimasta la metà della popolazione. Stando al consumo dell’acqua e alla quantità della spazzatura in città possiamo stimare che circa 280.000 delle 480.000 persone che ci vivevano hanno lasciato la città. Vorremmo anche ricevere i dati degli operatori telefonici in modo da poter avere i dati più precisi».
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Washington alle prese con la grana America Latina: non solo il piano anti immigrazione di Kamala Harris si è rivelato un fallimento, ma avanza anche l’influenza del Dragone. Che sfrutta la diplomazia del vaccino.L’allarme dei servizi segreti di Kiev: servono armi dall’Occidente. Le forze armate del Cremlino puntano alla conquista dell’intero Lugansk. Scoppia il colera a Mariupol.Lo speciale contiene due articoli.Crescono i problemi latinoamericani per Joe Biden. Il Nicaragua ha autorizzato lo schieramento sul proprio territorio di aerei, navi e piccoli contingenti della Federazione russa: ufficialmente l’obiettivo è quello di garantire attività di addestramento, rafforzare la sicurezza interna e svolgere funzioni di polizia. Sebbene il ministero degli Esteri russo abbia parlato di una «procedura di routine», è chiaro che, con questa mossa, Mosca punta a consolidare la propria penetrazione in America Latina. Del resto, i suoi rapporti con Managua sono storicamente abbastanza stretti. Le due capitali collaborano già da tempo in materia di addestramento militare, mentre la Russia ha in passato garantito al Nicaragua assistenza finanziaria. La notizia del dispiegamento di truppe russe arriva inoltre nella stessa settimana in cui gli Stati Uniti hanno ospitato la nona edizione del Summit of the Americas. Un evento che avrebbe dovuto rilanciare il ruolo di Washington in America Latina e che si è invece risolto in un mezzo fallimento. I leader di svariati Paesi (tra cui Messico, El Salvador, Honduras e Guatemala) hanno infatti evitato la partecipazione in risposta alla decisione di Biden di non invitare i presidenti di Venezuela, Cuba e Nicaragua in quanto dittature. Il che, sia chiaro, avrebbe anche potuto avere un senso, visto il dichiarato impegno dell’attuale inquilino della Casa Bianca contro le autocrazie. Il paradosso sta tuttavia nel fatto che, proprio nelle scorse settimane, Biden ha revocato le restrizioni che Donald Trump aveva imposto al regime castrista, allentando inoltre la pressione statunitense sul governo di Nicolas Maduro con l’obiettivo di trarne benefici sul piano energetico. Insomma, la logica pare latitare di questi tempi alla Casa Bianca. Per Biden si pone quindi un duplice problema.In primis c’è il nodo della crisi migratoria al confine meridionale degli Stati Uniti: una crisi che ad aprile ha raggiunto livelli record. Ebbene, a marzo dell’anno scorso, Biden aveva incaricato Kamala Harris di affrontare la questione attraverso uno sforzo diplomatico proprio con i Paesi dell’America Centrale (da cui arriva la gran parte dei flussi): un incarico in cui la vicepresidente ha tuttavia fallito miserevolmente. Il secondo nodo, lo accennavamo, è la perdita di influenza nel Sudamerica da parte degli Stati Uniti. Oltre al Nicaragua, la Russia intrattiene stretti legami anche con Venezuela e Cuba. Mosca vanta connessioni con Caracas innanzitutto nel settore petrolifero. Era inoltre il 2018, quando i russi inviarono nel Paese due bombardieri strategici Tu-160, mentre l’anno dopo vi schierarono mercenari del Wagner Group a tutela della sicurezza di Maduro: quel Maduro che ha dato il proprio endorsement all’invasione russa dell’Ucraina. E che, mentre si teneva l’ultima edizione del Summit of the Americas, è stato ricevuto ufficialmente da Tayyip Erdogan in Turchia. Anche i rapporti tra Mosca e L’Avana restano solidi: tanto che, ad aprile, i russi hanno donato quasi 20.000 tonnellate di grano a Cuba. Tuttavia la penetrazione di Mosca non è l’unico problema che Biden deve affrontare in America Latina. Sotto questo aspetto, un altro attore ancor più preoccupante è la Cina. Il presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, avrebbe innanzitutto intenzione di siglare un accordo di libero scambio con Pechino entro il prossimo anno. In secondo luogo, una recente analisi di Reuters ha mostrato che, da quando Biden è entrato in carica, il Dragone ha acquisito un significativo vantaggio commerciale in America Latina a discapito degli Stati Uniti. Un vantaggio commerciale che i cinesi poi traducono ovviamente in influenza politica. In questo quadro, Pechino sta cercando di spingere i Paesi latinoamericani che riconoscono formalmente Taiwan a rompere i rapporti diplomatici con l’isola: come sottolineato da The Diplomat, negli ultimi cinque anni, Taipei ha perso quattro alleati in America Centrale: Panama (nel 2017), El Salvador (nel 2018), la Repubblica Dominicana (nel 2018) e lo stesso Nicaragua (nel 2021). In tal senso, come in Nord Africa, uno degli strumenti principali che finora Pechino ha usato per estendere la propria influenza in America Latina è stato, oltre a prestiti ed investimenti, quello della diplomazia vaccinale. Un altro fronte sarà presto rappresentato dalla crisi alimentare, innescata dal conflitto in Ucraina: una crisi che rischia di avere impatti drammatici sull’America Latina. Biden ha pertanto intenzione di annunciare 331 milioni di dollari per contrastare il fenomeno in loco. Dal canto suo, Pechino non resterà prevedibilmente con le mani in mano e potrebbe ricorrere alla diplomazia dei fertilizzanti (come ha già fatto di recente in Algeria). Più in generale, è pur vero che il presidente americano ha appena reso noto un piano di cooperazione economica rivolto all’America Latina per contrastare l’avanzata cinese. Tuttavia, secondo quanto riferito da Reuters, il suo «Americas Partnership for Economic Prosperity» risulterebbe un progetto ancora piuttosto astratto, che non garantirebbe tra l’altro concrete riduzioni tariffarie ai Paesi partecipanti. Non è quindi chiaro in che modo l’attuale Casa Bianca speri di recuperare realmente soft power in America Latina, mentre l’asse sino-russo si muove spregiudicatamente non soltanto in loco, ma anche in Africa e Medio Oriente. Biden sta finendo con le spalle al muro a causa della sua stessa confusa irresolutezza. O agisce prontamente. O per l’Occidente tutto si profilano guai seri. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/accordo-militare-nicaragua-mosca-2657489720.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="putin-continuera-cosi-per-un-anno" data-post-id="2657489720" data-published-at="1654886705" data-use-pagination="False"> «Putin continuerà così per un anno» Le forze russe proseguono l’offensiva nel Donbass, puntando alla conquista dell’intera regione di Lugansk. Le operazioni militari infuriano soprattutto nell’area di Severodonetsk. In particolare, il governatore di Lugansk, Serhiy Haidai, ha detto che nei pressi della città i russi stanno «distruggendo tutto sul loro cammino», aggiungendo che «le battaglie sono in corso per ogni casa e ogni strada» e denunciando la distruzione del locale Palazzo del Ghiaccio. «Uno dei simboli di Severodonetsk è stato distrutto. Il Palazzo del Ghiaccio è andato a fuoco. Pattinaggio artistico, hockey, pallavolo, scuola di sport, concerti, quasi cinquant’anni di storia dello sport e sviluppo culturale», ha affermato il governatore. Dal canto suo, il comandante ceceno, Apti Alaudinov, ha ammesso dei problemi nell’avanzata russa in città, mentre nel centro di Donetsk si è verificata ieri una forte esplosione. In tutto questo, il vice capo dell’intelligence militare di Kiev, Vadym Skibitsky, ha detto al Guardian che le forze ucraine sono in difficoltà, auspicando pertanto l’invio di nuove armi da parte dell’Occidente. «La dirigenza del Cremlino probabilmente cercherà di congelare la guerra per un po’ per convincere l’Occidente a revocare le sanzioni, ma poi continuerà l’aggressione», ha inoltre dichiarato la direzione dell’intelligence ucraina. «Le risorse economiche della Russia consentiranno al Paese occupante di continuare la guerra al ritmo attuale per un altro anno», ha aggiunto. Nel mentre, la vicepremier ucraina, Iryna Vereshchuk, ha affermato che la Russia starebbe bloccando l’evacuazione da Kherson e dalle aree in parte occupate della regione di Zaporizhzhia. Dal canto suo, il ministro dell’Interno ucraino, Denys Monastyrsky, ha per il momento escluso un attacco di truppe russe contro Kiev. «Non c’è pericolo di un attacco a Kiev oggi», ha detto. «Non c’è alcun assembramento di truppe vicino al confine bielorusso, ma comprendiamo che domani sarà possibile qualunque scenario». Il sindaco di Kharkiv, Igor Terekhov, ha invece sottolineato che sulla sua città si stanno registrando bombardamenti di maggiore potenza, per quanto di numero inferiore rispetto al passato. L’ambasciatore statunitense presso l’Osce, Michael Carpenter, ha frattanto dichiarato che Mosca «sta preparando il terreno per l’annessione» della regione di Kherson alla Federazione russa, «aspettando il momento opportuno per farlo». «Kherson è il laboratorio degli orrori del Cremlino. Ogni giorno che Kherson rimane sotto il controllo della Russia, il Cremlino lavora per portare avanti il suo piano per sostituire il governo democratico di Kherson, la stampa libera e la società civile con uno stato di polizia in stile Cremlino che umilia e brutalizza la popolazione locale», ha altresì affermato. In tutto questo, il Regno Unito ha detto di temere un’epidemia di colera a Mariupol. «L’Ucraina ha subito una grave epidemia di colera nel 1995 e da allora ha subito epidemie minori, specialmente intorno alla costa del Mar d’Azov, che include Mariupol», ha affermato il ministero della Difesa di Londra. «I servizi medici a Mariupol sono probabilmente già vicini al collasso: una grave epidemia di colera a Mariupol aggraverà ulteriormente la situazione», ha proseguito, denunciando poi scarsità di medicinali anche a Kherson. L’allarme colera è stato altresì lanciato dal primo cittadino di Mariupol, Vadym Boichenko. «C’è un focolaio di dissenteria e colera», ha dichiarato, specificando di temere migliaia di vittime. Il sindaco di Mykolaiv, Oleksandr Senkevych, ha frattanto affermato che uno dei principali porti locali per lo stoccaggio del grano è stato duramente colpito dalle truppe di Mosca. «Nella città», ha anche detto il primo cittadino, «è rimasta la metà della popolazione. Stando al consumo dell’acqua e alla quantità della spazzatura in città possiamo stimare che circa 280.000 delle 480.000 persone che ci vivevano hanno lasciato la città. Vorremmo anche ricevere i dati degli operatori telefonici in modo da poter avere i dati più precisi».
iStock
La nuova applicazione, in parte accessibile anche ai non clienti, introduce servizi innovativi come un assistente virtuale basato su Intelligenza artificiale, attivo 24 ore su 24, e uno screening audiometrico effettuabile direttamente dallo smartphone. L’obiettivo è duplice: migliorare la qualità del servizio clienti e promuovere una maggiore consapevolezza dell’importanza della prevenzione uditiva, riducendo le barriere all’accesso ai controlli iniziali.
Il lancio avviene in un contesto complesso per il settore. Nei primi nove mesi dell’anno Amplifon ha registrato una crescita dei ricavi dell’1,8% a cambi costanti, ma il titolo ha risentito dell’andamento negativo che ha colpito in Borsa i principali operatori del comparto. Lo sguardo di lungo periodo restituisce però un quadro diverso: negli ultimi dieci anni il titolo Amplifon ha segnato un incremento dell’80% (ieri +0,7% fra i migliori cinque del Ftse Mib), al netto dei dividendi distribuiti, che complessivamente sfiorano i 450 milioni di euro. Nello stesso arco temporale, tra il 2014 e il 2024, il gruppo ha triplicato i ricavi, arrivando a circa 2,4 miliardi di euro.
Il progetto della nuova app è stato sviluppato da Amplifon X, la divisione di ricerca e sviluppo del gruppo. Con sedi a Milano e Napoli, Amplifon X riunisce circa 50 professionisti tra sviluppatori, data analyst e designer, impegnati nella creazione di soluzioni digitali avanzate per l’audiologia. L’Intelligenza artificiale rappresenta uno dei pilastri di questa strategia, applicata non solo alla diagnosi e al supporto al paziente, ma anche alla gestione delle esigenze quotidiane legate all’uso degli apparecchi acustici.
Accanto alla tecnologia, resta centrale il ruolo degli audioprotesisti, figure chiave per Amplifon. Le competenze tecniche ed empatiche degli specialisti della salute dell’udito continuano a essere considerate un elemento insostituibile del modello di servizio, con il digitale pensato come strumento di supporto e integrazione, non come sostituzione del rapporto umano.
Fondato a Milano nel 1950, il gruppo Amplifon opera oggi in 26 Paesi con oltre 10.000 centri audiologici, impiegando più di 20.000 persone. La prevenzione e l’assistenza rappresentano i cardini della strategia industriale, e la nuova Amplifon App si inserisce in questa visione come leva per ampliare l’accesso ai servizi e rafforzare la relazione con i pazienti lungo tutto il ciclo di cura.
Il rilascio della nuova applicazione è avvenuto in modo progressivo. Dopo il debutto in Francia, Nuova Zelanda, Portogallo e Stati Uniti, la app è stata estesa ad Australia, Belgio, Germania, Italia, Olanda, Regno Unito, Spagna e Svizzera, con l’obiettivo di garantire un’esperienza digitale omogenea nei principali mercati del gruppo.
Ma l’innovazione digitale di Amplifon non si ferma all’app. Negli ultimi anni il gruppo ha sviluppato soluzioni come gli audiometri digitali OtoPad e OtoKiosk, certificati Ce e Fda, e i nuovi apparecchi Ampli-Mini Ai, miniaturizzati, ricaricabili e in grado di adattarsi in tempo reale all’ambiente sonoro. Entro la fine del 2025 è inoltre previsto il lancio in Cina di Amplifon Product Experience (Ape), la linea di prodotti a marchio Amplifon già introdotta in Argentina e Cile e oggi presente in 15 dei 26 Paesi in cui il gruppo opera.
Già per Natale il gruppo aveva lanciato la speciale campagna globale The Wish (Il regalo perfetto) Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, oggi nel mondo circa 1,5 miliardi di persone convivono con una forma di perdita uditiva (o ipoacusia) e il loro numero è destinato a salire a 2,5 miliardi nel 2050.
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Francesco Borgonovo, Gianluca Zanella e Luigi Grimaldi fanno il punto sul caso Garlasco: tra nuove indagini, DNA, impronte e filoni paralleli, l’inchiesta si muove ormai su più livelli. Un’analisi rigorosa per capire a che punto siamo, cosa è cambiato davvero e quali nodi restano ancora da sciogliere.
Ansa
Ieri abbiamo raccontato che ha intestati circa 90 immobili acquistati alle aste giudiziarie senza dover accendere mutui. Ora La Verità è in grado di svelare che Abu Rawwa per operare ha aperto un’agenzia immobiliare e investe insieme a un giovane palestinese che appartiene a una famiglia molto religiosa e molto attiva nella difesa della causa palestinese. Ben 12 dei 90 immobili di cui è diventato proprietario per via giudiziaria Abu Rawwa, infatti, sono cointestati (al 50%) con Osama Qasim. Otto sono appartamenti. Alloggi residenziali inseriti nello stesso stabile, con metrature diverse e distribuiti su più piani. Blocchi compatti di unità abitative spalmati su tre strade dello stesso comune della provincia di Reggio Emilia: Castellarano.
Il resto delle proprietà non è abitativo. Ci sono due locali di servizio: accessori funzionali alle case. Gli ultimi due immobili sono strutture non ancora definite, volumi ampi, uno dei quali particolarmente esteso: 603 metri quadri. Entrambi i locali non sono pronti per essere abitati, né sono destinati a un uso immediato. Sono spazi da completare o da trasformare. Un’operazione da immobiliaristi.
Abu Rawwa e Qasim compaiono in visure camerali diverse. Il primo è amministratore unico e socio al 100% dell’Immobiliare My home srls, impresa costituita il 6 dicembre 2023 e iscritta al Registro imprese di Modena il 13 dicembre di quello stesso anno. Capitale sociale da 2.000 euro. Attività dichiarata: «Compravendita di beni immobili effettuata su beni propri», con una specificazione ampia che comprende edifici residenziali, non residenziali, strutture commerciali e terreni. La sede legale è a Sassuolo, in circonvallazione Nord Est. Un solo addetto risultante dai dati Inps.
Osama Qasim, nato a Sassuolo il 3 febbraio 1993, è invece amministratore unico della Qasim srls, società costituita il 24 maggio 2022 con capitale sociale da 3.000 euro. Anche qui l’attività prevalente è immobiliare: «Compravendita di beni immobili effettuata su beni propri». La sede è sempre a Sassuolo, in circonvallazione Nord Est, ma il civico è differente. I soci sono tre: Osama (che è il legale rappresentante e nel frattempo gestisce anche una società di ristorazione a Modena) detiene il 20%, Khawla Ghannam (60 anni), la mamma, il 60%, e Zahi Qasim (62 anni), il papà, il 20%. Un nucleo familiare di cui si sono interessati, negli anni, numerosi giornalisti ma anche la polizia. Su Internet si trova ancora un articolo dell’Herald tribune sulla famiglia Qasim, ripreso in Italia dal Secolo XIX, proprio il giornale di Genova. Risale a 20 anni fa, ma è molto interessante. Anche perché ci racconta che la famiglia di Osama è molto religiosa e ha ricevuto nel tempo anche la visita della polizia italiana dopo alcuni attentati dei tagliagole islamici.
Il padre, Zahi, classe 1963, all’epoca era caposquadra in fabbrica a Sassuolo ed era già «uno degli esponenti più impegnati della comunità». Sua moglie, Khawla, era un’insegnante che «parla fluentemente tre lingue». Osama, all’epoca era un bambino di 12 anni. Il cronista scriveva che il fratello, «l’esuberante Ali, un anno, adora gattonare sulle piastrelle della sala, decorata con illustrazioni di proverbi tratti dal Corano». I Qasim non offrirono né cibo, né bevande al giornalista «perché per loro era in corso il Ramadan». «Ci piacerebbe molto essere italiani», aveva dichiarato Ghannam, con indosso «un hijab color porpora». Ed ecco il passaggio più interessante dell’articolo: «La loro vita, sebbene economicamente agiata, è costellata da continui episodi che ricordano loro che non sono pienamente integrati in un Paese che definiscono casa da 20 anni. A seguito degli attentati a Londra di questa estate (del 2005, ndr), Qasim è stato più volte interrogato dalla polizia che gli ha anche perquisito la casa. L’uomo afferma anche che il suo cellulare è sotto controllo. Quando ha invitato a cena alcuni amici di Torino in occasione del Ramadan, la polizia lo ha chiamato per chiedergli chi fossero quelle persone e l’hanno rimproverato di non aver comunicato che avrebbe avuto ospiti. I tentativi di Qasim di comprare un edificio per aprirvi una scuola islamica domenicale sono stati ostacolati per quattro anni dalle istituzioni locali che ritenevano che il luogo non fosse idoneo per via della mancanza di spazi da adibire al parcheggio». Zahi disse: «È chiaro che tutto questo mi dà fastidio: succede perché sono musulmano e non accadrebbe lo stesso se fossi europeo».
Ricordiamo che all’epoca un islamico sospettato di aver preso parte agli attentati di Londra è stato catturato in Italia, dove si era rifugiato. Ghannam ha spiegato che l’inserimento non è stato sempre facile e che «suo figlio è stato spesso preso in giro per il suo nome, Osama, soprattutto dopo gli attentati dell’11 settembre». Quando i Qasim si trasferirono nel loro attuale appartamento, «i vicini italiani si mostrarono freddi e ostili. Tuttavia, il loro atteggiamento è migliorato nel tempo». Zahi ha anche dichiarato di «esser sempre stato trattato con rispetto a lavoro, e gli è stato persino consentito di pregare cinque volte al giorno».
L’articolo contiene anche un’altra notizia interessante: «La famiglia ha una casa a Ramallah e torna laggiù durante le vacanze estive». Anche se la famiglia non si sentiva sicura in Israele: «Ci sono aspetti dell’Islam che vanno bene in Palestina, ma non qui», ha concesso l’uomo con il cronista. Ha anche detto di credere che «gli arresti e il coprifuoco siano soltanto serviti ad aggravare la situazione in Francia». E ha spiegato che «è sbagliato ricorrere alla polizia». Il motivo? «Quando parli con gli altri li fai sentire parte della società. Se li fai sentire emarginati, prima o poi si ribelleranno». Alla fine l’intervistato aveva consegnato al cronista il motto che ripeteva al figlio Osama: «Ignora le offese, lavora più sodo dei tuoi compagni. In fondo i palestinesi sono abituati a essere controllati: pensa solo di essere a Ramallah». Papà Qasim è stato un grande animatore del centro «al Medina» (dell’Associazione della comunità islamica di Sassuolo), fondato nel 1993 da un gruppo di migranti nordafricani, chiuso e poi riaperto varie volte. Qui si riunivano per pregare a turni sino a 600 fedeli per volta. Nel 2018 Zahi, a Casalgrande, è stato tra i promotori del Villaggio islamico, che l’associazione islamica di Sassuolo voleva tirare su nell’area di un ex salumificio. E fu proprio Zahi, col piglio dell’immobiliarista, a spiegare: «Abbiamo comprato l’area per un guadagno, come qualsiasi altro cittadino. A Casalgrande, Veggia e Villalunga abbiamo comprato all’asta circa 6-7 appartamenti».
L’idea di acquistare dai tribunali qualche anno dopo è stata fatta propria dal figlio Osama e da Abu Rawwa. Le indagini della Procura di Genova dovranno stabilire se in questo shopping compulsivo c’entri Hamas.
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Ansa
Tema che dovrebbe stare a cuore di chi si batte per la Palestina, e quindi di tanti ProPal. E invece a quanto pare no. Poco importa se il flusso di denaro che dall’Italia è volato a Gaza avrebbe permesso di acquistare armi e immobili anziché portare cibo e servizi ai civili. La propria solidarietà, più che a quanti avrebbero avuto diritto agli aiuti e a quanto pare non li hanno mai ricevuti, meglio portarla al presidente dei palestinesi in Italia. Colui che nell’ipotesi della procura è l’ideatore di una grande operazione di triangolazione di fondi. E così ieri è scattato il tam tam via social e in 200 si sono radunati davanti al carcere Marassi di Genova per gridare contro quella che viene considerata una vera e propria «offensiva contro tutte le realtà e tutti gli attivisti cosiddetti “ProPal” scatenata dalla propaganda di regime». Tra gli organizzatori del meeting solidale, l’Unione democratica arabo palestinese e Si Cobas Genova che in un post spiega l’architettura che muoverebbe l’indagine della procura.
«Già con la repressione degli ultimi mesi […] è emersa chiaramente la volontà di individuare un nuovo nemico pubblico numero uno nella cosiddetta saldatura tra sinistra radicale e islam. Associare tutta la popolazione che ha manifestato e scioperato contro il genocidio palestinese, e in particolare gli organizzatori di queste mobilitazioni, al terrorismo islamico». Il riferimento è alla revoca del permesso di soggiorno ad Abbas, coordinatore sindacale e destinatario di un foglio di via per due anni da Brescia. Già il 12 dicembre, in occasione del provvedimento, Si Cobas aveva lanciato il medesimo slogan. «La vostra repressione non fermerà le nostre lotte». Ben prima della notizia dell’operazione Domino ma tant’è. L’accusa è buona per tutte le stagioni. E tutte le mobilitazioni. Anche a Piacenza, dove una serie di sigle e associazioni puntano il dito contro la regia di Israele. Tra gli altri Usb, Sgb, Laboratorio popolare della cultura e dell’arte, Collettivo Schiaffo, Resisto, Collettivo 26x1, ControTendenza e Una voce per Gaza. «L’impianto accusatorio - commentano - si basa essenzialmente, come scritto dagli stessi inquirenti, su documenti forniti da Israele», posizione ribadita anche dalle sedi locali di Potere al popolo e Rifondazione comunista in linea con quelle nazionali. «Un’indagine basata su documenti forniti da uno Stato accusato di genocidio dagli organismi internazionali e guidato da un premier condannato e ricercato come criminale di guerra, è in partenza completamente squalificata». Iniziata sabato a Milano poche ore dopo la notizia degli arresti al grido di «Liberi subito» e «La solidarietà non è terrorismo», l’onda delle mobilitazioni in soccorso di Hannoun viaggia in parallelo alle adesioni social, come quella di Alaeddine Kaabouri, consigliere comunale di Thiene, Vicenza, sul suo profilo Instagram. «Criminalizzare tutto questo significa colpire l’idea stessa di solidarietà internazionale e trasformare l’aiuto umanitario in un reato. Sostenere il popolo palestinese non è terrorismo: è un dovere umano e politico».
Intanto, oggi Hannoun incontra il Gip per delle dichiarazioni spontanee. Non si sottoporrà a interrogatorio perché non sono ancora stati recapitati tutti gli atti depositati, spiegano gli avvocati Emanuele Tambuscio e Fabio Sommovigo che tengono a precisare che l’attivista ha sempre operato in maniera tracciabile e con associazioni registrate, molte delle quali anche in Israele. Spiegano inoltre che non sarebbe stato in procinto di fuggire per la Turchia, come sostenuto dalla procura, perché il viaggio sarebbe stato parte di regolari attività di beneficenza. Dal 7 ottobre 2023 non aveva più possibilità di operare dall’Italia e, a causa del blocco dei conti, doveva portare i contanti in Turchia o in Egitto. In difesa del leader dei palestinesi in Italia, ieri è sceso anche il figlio e alcuni suoi familiari, che hanno preso parte ad un corteo sempre attorno al carcere di Genova dove non sono mancati cori anche contro la premier Giorgia Meloni: «Meloni fascista, sei tu la terrorista».
Se i «fondi per Gaza» finiti ad Hamas abbiano aiutato i palestinesi, lo chiarirà la procura ma certo è che nelle piazze a oggi non si scorge cenno alcuno che entri nel merito delle iniziative «finto benefiche» di Hannoun. Che pur essendo attualmente solo «presunte», con tutti i condizionali del caso, qualora dovessero essere confermate, costituirebbero un vero e proprio tradimento del popolo palestinese in nome del quale si continua a scendere in piazza.
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