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2022-06-11
Accordo militare Nicaragua-Mosca. Biden si trova i nemici sotto il naso
Vladimir Putin e il presidente del Nicaragua Daniel Ortega (Ansa)
Crescono i problemi latinoamericani per Joe Biden. Il Nicaragua ha autorizzato lo schieramento sul proprio territorio di aerei, navi e piccoli contingenti della Federazione russa: ufficialmente l’obiettivo è quello di garantire attività di addestramento, rafforzare la sicurezza interna e svolgere funzioni di polizia. Sebbene il ministero degli Esteri russo abbia parlato di una «procedura di routine», è chiaro che, con questa mossa, Mosca punta a consolidare la propria penetrazione in America Latina. Del resto, i suoi rapporti con Managua sono storicamente abbastanza stretti. Le due capitali collaborano già da tempo in materia di addestramento militare, mentre la Russia ha in passato garantito al Nicaragua assistenza finanziaria.
La notizia del dispiegamento di truppe russe arriva inoltre nella stessa settimana in cui gli Stati Uniti hanno ospitato la nona edizione del Summit of the Americas. Un evento che avrebbe dovuto rilanciare il ruolo di Washington in America Latina e che si è invece risolto in un mezzo fallimento. I leader di svariati Paesi (tra cui Messico, El Salvador, Honduras e Guatemala) hanno infatti evitato la partecipazione in risposta alla decisione di Biden di non invitare i presidenti di Venezuela, Cuba e Nicaragua in quanto dittature. Il che, sia chiaro, avrebbe anche potuto avere un senso, visto il dichiarato impegno dell’attuale inquilino della Casa Bianca contro le autocrazie. Il paradosso sta tuttavia nel fatto che, proprio nelle scorse settimane, Biden ha revocato le restrizioni che Donald Trump aveva imposto al regime castrista, allentando inoltre la pressione statunitense sul governo di Nicolas Maduro con l’obiettivo di trarne benefici sul piano energetico. Insomma, la logica pare latitare di questi tempi alla Casa Bianca. Per Biden si pone quindi un duplice problema.
In primis c’è il nodo della crisi migratoria al confine meridionale degli Stati Uniti: una crisi che ad aprile ha raggiunto livelli record. Ebbene, a marzo dell’anno scorso, Biden aveva incaricato Kamala Harris di affrontare la questione attraverso uno sforzo diplomatico proprio con i Paesi dell’America Centrale (da cui arriva la gran parte dei flussi): un incarico in cui la vicepresidente ha tuttavia fallito miserevolmente. Il secondo nodo, lo accennavamo, è la perdita di influenza nel Sudamerica da parte degli Stati Uniti. Oltre al Nicaragua, la Russia intrattiene stretti legami anche con Venezuela e Cuba. Mosca vanta connessioni con Caracas innanzitutto nel settore petrolifero. Era inoltre il 2018, quando i russi inviarono nel Paese due bombardieri strategici Tu-160, mentre l’anno dopo vi schierarono mercenari del Wagner Group a tutela della sicurezza di Maduro: quel Maduro che ha dato il proprio endorsement all’invasione russa dell’Ucraina. E che, mentre si teneva l’ultima edizione del Summit of the Americas, è stato ricevuto ufficialmente da Tayyip Erdogan in Turchia. Anche i rapporti tra Mosca e L’Avana restano solidi: tanto che, ad aprile, i russi hanno donato quasi 20.000 tonnellate di grano a Cuba.
Tuttavia la penetrazione di Mosca non è l’unico problema che Biden deve affrontare in America Latina. Sotto questo aspetto, un altro attore ancor più preoccupante è la Cina.
Il presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, avrebbe innanzitutto intenzione di siglare un accordo di libero scambio con Pechino entro il prossimo anno. In secondo luogo, una recente analisi di Reuters ha mostrato che, da quando Biden è entrato in carica, il Dragone ha acquisito un significativo vantaggio commerciale in America Latina a discapito degli Stati Uniti. Un vantaggio commerciale che i cinesi poi traducono ovviamente in influenza politica.
In questo quadro, Pechino sta cercando di spingere i Paesi latinoamericani che riconoscono formalmente Taiwan a rompere i rapporti diplomatici con l’isola: come sottolineato da The Diplomat, negli ultimi cinque anni, Taipei ha perso quattro alleati in America Centrale: Panama (nel 2017), El Salvador (nel 2018), la Repubblica Dominicana (nel 2018) e lo stesso Nicaragua (nel 2021). In tal senso, come in Nord Africa, uno degli strumenti principali che finora Pechino ha usato per estendere la propria influenza in America Latina è stato, oltre a prestiti ed investimenti, quello della diplomazia vaccinale. Un altro fronte sarà presto rappresentato dalla crisi alimentare, innescata dal conflitto in Ucraina: una crisi che rischia di avere impatti drammatici sull’America Latina. Biden ha pertanto intenzione di annunciare 331 milioni di dollari per contrastare il fenomeno in loco.
Dal canto suo, Pechino non resterà prevedibilmente con le mani in mano e potrebbe ricorrere alla diplomazia dei fertilizzanti (come ha già fatto di recente in Algeria).
Più in generale, è pur vero che il presidente americano ha appena reso noto un piano di cooperazione economica rivolto all’America Latina per contrastare l’avanzata cinese. Tuttavia, secondo quanto riferito da Reuters, il suo «Americas Partnership for Economic Prosperity» risulterebbe un progetto ancora piuttosto astratto, che non garantirebbe tra l’altro concrete riduzioni tariffarie ai Paesi partecipanti. Non è quindi chiaro in che modo l’attuale Casa Bianca speri di recuperare realmente soft power in America Latina, mentre l’asse sino-russo si muove spregiudicatamente non soltanto in loco, ma anche in Africa e Medio Oriente. Biden sta finendo con le spalle al muro a causa della sua stessa confusa irresolutezza. O agisce prontamente. O per l’Occidente tutto si profilano guai seri.
«Putin continuerà così per un anno»
Le forze russe proseguono l’offensiva nel Donbass, puntando alla conquista dell’intera regione di Lugansk. Le operazioni militari infuriano soprattutto nell’area di Severodonetsk. In particolare, il governatore di Lugansk, Serhiy Haidai, ha detto che nei pressi della città i russi stanno «distruggendo tutto sul loro cammino», aggiungendo che «le battaglie sono in corso per ogni casa e ogni strada» e denunciando la distruzione del locale Palazzo del Ghiaccio. «Uno dei simboli di Severodonetsk è stato distrutto. Il Palazzo del Ghiaccio è andato a fuoco. Pattinaggio artistico, hockey, pallavolo, scuola di sport, concerti, quasi cinquant’anni di storia dello sport e sviluppo culturale», ha affermato il governatore. Dal canto suo, il comandante ceceno, Apti Alaudinov, ha ammesso dei problemi nell’avanzata russa in città, mentre nel centro di Donetsk si è verificata ieri una forte esplosione.
In tutto questo, il vice capo dell’intelligence militare di Kiev, Vadym Skibitsky, ha detto al Guardian che le forze ucraine sono in difficoltà, auspicando pertanto l’invio di nuove armi da parte dell’Occidente. «La dirigenza del Cremlino probabilmente cercherà di congelare la guerra per un po’ per convincere l’Occidente a revocare le sanzioni, ma poi continuerà l’aggressione», ha inoltre dichiarato la direzione dell’intelligence ucraina. «Le risorse economiche della Russia consentiranno al Paese occupante di continuare la guerra al ritmo attuale per un altro anno», ha aggiunto.
Nel mentre, la vicepremier ucraina, Iryna Vereshchuk, ha affermato che la Russia starebbe bloccando l’evacuazione da Kherson e dalle aree in parte occupate della regione di Zaporizhzhia. Dal canto suo, il ministro dell’Interno ucraino, Denys Monastyrsky, ha per il momento escluso un attacco di truppe russe contro Kiev. «Non c’è pericolo di un attacco a Kiev oggi», ha detto. «Non c’è alcun assembramento di truppe vicino al confine bielorusso, ma comprendiamo che domani sarà possibile qualunque scenario». Il sindaco di Kharkiv, Igor Terekhov, ha invece sottolineato che sulla sua città si stanno registrando bombardamenti di maggiore potenza, per quanto di numero inferiore rispetto al passato.
L’ambasciatore statunitense presso l’Osce, Michael Carpenter, ha frattanto dichiarato che Mosca «sta preparando il terreno per l’annessione» della regione di Kherson alla Federazione russa, «aspettando il momento opportuno per farlo». «Kherson è il laboratorio degli orrori del Cremlino. Ogni giorno che Kherson rimane sotto il controllo della Russia, il Cremlino lavora per portare avanti il suo piano per sostituire il governo democratico di Kherson, la stampa libera e la società civile con uno stato di polizia in stile Cremlino che umilia e brutalizza la popolazione locale», ha altresì affermato.
In tutto questo, il Regno Unito ha detto di temere un’epidemia di colera a Mariupol. «L’Ucraina ha subito una grave epidemia di colera nel 1995 e da allora ha subito epidemie minori, specialmente intorno alla costa del Mar d’Azov, che include Mariupol», ha affermato il ministero della Difesa di Londra. «I servizi medici a Mariupol sono probabilmente già vicini al collasso: una grave epidemia di colera a Mariupol aggraverà ulteriormente la situazione», ha proseguito, denunciando poi scarsità di medicinali anche a Kherson. L’allarme colera è stato altresì lanciato dal primo cittadino di Mariupol, Vadym Boichenko. «C’è un focolaio di dissenteria e colera», ha dichiarato, specificando di temere migliaia di vittime.
Il sindaco di Mykolaiv, Oleksandr Senkevych, ha frattanto affermato che uno dei principali porti locali per lo stoccaggio del grano è stato duramente colpito dalle truppe di Mosca. «Nella città», ha anche detto il primo cittadino, «è rimasta la metà della popolazione. Stando al consumo dell’acqua e alla quantità della spazzatura in città possiamo stimare che circa 280.000 delle 480.000 persone che ci vivevano hanno lasciato la città. Vorremmo anche ricevere i dati degli operatori telefonici in modo da poter avere i dati più precisi».
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Washington alle prese con la grana America Latina: non solo il piano anti immigrazione di Kamala Harris si è rivelato un fallimento, ma avanza anche l’influenza del Dragone. Che sfrutta la diplomazia del vaccino.L’allarme dei servizi segreti di Kiev: servono armi dall’Occidente. Le forze armate del Cremlino puntano alla conquista dell’intero Lugansk. Scoppia il colera a Mariupol.Lo speciale contiene due articoli.Crescono i problemi latinoamericani per Joe Biden. Il Nicaragua ha autorizzato lo schieramento sul proprio territorio di aerei, navi e piccoli contingenti della Federazione russa: ufficialmente l’obiettivo è quello di garantire attività di addestramento, rafforzare la sicurezza interna e svolgere funzioni di polizia. Sebbene il ministero degli Esteri russo abbia parlato di una «procedura di routine», è chiaro che, con questa mossa, Mosca punta a consolidare la propria penetrazione in America Latina. Del resto, i suoi rapporti con Managua sono storicamente abbastanza stretti. Le due capitali collaborano già da tempo in materia di addestramento militare, mentre la Russia ha in passato garantito al Nicaragua assistenza finanziaria. La notizia del dispiegamento di truppe russe arriva inoltre nella stessa settimana in cui gli Stati Uniti hanno ospitato la nona edizione del Summit of the Americas. Un evento che avrebbe dovuto rilanciare il ruolo di Washington in America Latina e che si è invece risolto in un mezzo fallimento. I leader di svariati Paesi (tra cui Messico, El Salvador, Honduras e Guatemala) hanno infatti evitato la partecipazione in risposta alla decisione di Biden di non invitare i presidenti di Venezuela, Cuba e Nicaragua in quanto dittature. Il che, sia chiaro, avrebbe anche potuto avere un senso, visto il dichiarato impegno dell’attuale inquilino della Casa Bianca contro le autocrazie. Il paradosso sta tuttavia nel fatto che, proprio nelle scorse settimane, Biden ha revocato le restrizioni che Donald Trump aveva imposto al regime castrista, allentando inoltre la pressione statunitense sul governo di Nicolas Maduro con l’obiettivo di trarne benefici sul piano energetico. Insomma, la logica pare latitare di questi tempi alla Casa Bianca. Per Biden si pone quindi un duplice problema.In primis c’è il nodo della crisi migratoria al confine meridionale degli Stati Uniti: una crisi che ad aprile ha raggiunto livelli record. Ebbene, a marzo dell’anno scorso, Biden aveva incaricato Kamala Harris di affrontare la questione attraverso uno sforzo diplomatico proprio con i Paesi dell’America Centrale (da cui arriva la gran parte dei flussi): un incarico in cui la vicepresidente ha tuttavia fallito miserevolmente. Il secondo nodo, lo accennavamo, è la perdita di influenza nel Sudamerica da parte degli Stati Uniti. Oltre al Nicaragua, la Russia intrattiene stretti legami anche con Venezuela e Cuba. Mosca vanta connessioni con Caracas innanzitutto nel settore petrolifero. Era inoltre il 2018, quando i russi inviarono nel Paese due bombardieri strategici Tu-160, mentre l’anno dopo vi schierarono mercenari del Wagner Group a tutela della sicurezza di Maduro: quel Maduro che ha dato il proprio endorsement all’invasione russa dell’Ucraina. E che, mentre si teneva l’ultima edizione del Summit of the Americas, è stato ricevuto ufficialmente da Tayyip Erdogan in Turchia. Anche i rapporti tra Mosca e L’Avana restano solidi: tanto che, ad aprile, i russi hanno donato quasi 20.000 tonnellate di grano a Cuba. Tuttavia la penetrazione di Mosca non è l’unico problema che Biden deve affrontare in America Latina. Sotto questo aspetto, un altro attore ancor più preoccupante è la Cina. Il presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, avrebbe innanzitutto intenzione di siglare un accordo di libero scambio con Pechino entro il prossimo anno. In secondo luogo, una recente analisi di Reuters ha mostrato che, da quando Biden è entrato in carica, il Dragone ha acquisito un significativo vantaggio commerciale in America Latina a discapito degli Stati Uniti. Un vantaggio commerciale che i cinesi poi traducono ovviamente in influenza politica. In questo quadro, Pechino sta cercando di spingere i Paesi latinoamericani che riconoscono formalmente Taiwan a rompere i rapporti diplomatici con l’isola: come sottolineato da The Diplomat, negli ultimi cinque anni, Taipei ha perso quattro alleati in America Centrale: Panama (nel 2017), El Salvador (nel 2018), la Repubblica Dominicana (nel 2018) e lo stesso Nicaragua (nel 2021). In tal senso, come in Nord Africa, uno degli strumenti principali che finora Pechino ha usato per estendere la propria influenza in America Latina è stato, oltre a prestiti ed investimenti, quello della diplomazia vaccinale. Un altro fronte sarà presto rappresentato dalla crisi alimentare, innescata dal conflitto in Ucraina: una crisi che rischia di avere impatti drammatici sull’America Latina. Biden ha pertanto intenzione di annunciare 331 milioni di dollari per contrastare il fenomeno in loco. Dal canto suo, Pechino non resterà prevedibilmente con le mani in mano e potrebbe ricorrere alla diplomazia dei fertilizzanti (come ha già fatto di recente in Algeria). Più in generale, è pur vero che il presidente americano ha appena reso noto un piano di cooperazione economica rivolto all’America Latina per contrastare l’avanzata cinese. Tuttavia, secondo quanto riferito da Reuters, il suo «Americas Partnership for Economic Prosperity» risulterebbe un progetto ancora piuttosto astratto, che non garantirebbe tra l’altro concrete riduzioni tariffarie ai Paesi partecipanti. Non è quindi chiaro in che modo l’attuale Casa Bianca speri di recuperare realmente soft power in America Latina, mentre l’asse sino-russo si muove spregiudicatamente non soltanto in loco, ma anche in Africa e Medio Oriente. Biden sta finendo con le spalle al muro a causa della sua stessa confusa irresolutezza. O agisce prontamente. O per l’Occidente tutto si profilano guai seri. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/accordo-militare-nicaragua-mosca-2657489720.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="putin-continuera-cosi-per-un-anno" data-post-id="2657489720" data-published-at="1654886705" data-use-pagination="False"> «Putin continuerà così per un anno» Le forze russe proseguono l’offensiva nel Donbass, puntando alla conquista dell’intera regione di Lugansk. Le operazioni militari infuriano soprattutto nell’area di Severodonetsk. In particolare, il governatore di Lugansk, Serhiy Haidai, ha detto che nei pressi della città i russi stanno «distruggendo tutto sul loro cammino», aggiungendo che «le battaglie sono in corso per ogni casa e ogni strada» e denunciando la distruzione del locale Palazzo del Ghiaccio. «Uno dei simboli di Severodonetsk è stato distrutto. Il Palazzo del Ghiaccio è andato a fuoco. Pattinaggio artistico, hockey, pallavolo, scuola di sport, concerti, quasi cinquant’anni di storia dello sport e sviluppo culturale», ha affermato il governatore. Dal canto suo, il comandante ceceno, Apti Alaudinov, ha ammesso dei problemi nell’avanzata russa in città, mentre nel centro di Donetsk si è verificata ieri una forte esplosione. In tutto questo, il vice capo dell’intelligence militare di Kiev, Vadym Skibitsky, ha detto al Guardian che le forze ucraine sono in difficoltà, auspicando pertanto l’invio di nuove armi da parte dell’Occidente. «La dirigenza del Cremlino probabilmente cercherà di congelare la guerra per un po’ per convincere l’Occidente a revocare le sanzioni, ma poi continuerà l’aggressione», ha inoltre dichiarato la direzione dell’intelligence ucraina. «Le risorse economiche della Russia consentiranno al Paese occupante di continuare la guerra al ritmo attuale per un altro anno», ha aggiunto. Nel mentre, la vicepremier ucraina, Iryna Vereshchuk, ha affermato che la Russia starebbe bloccando l’evacuazione da Kherson e dalle aree in parte occupate della regione di Zaporizhzhia. Dal canto suo, il ministro dell’Interno ucraino, Denys Monastyrsky, ha per il momento escluso un attacco di truppe russe contro Kiev. «Non c’è pericolo di un attacco a Kiev oggi», ha detto. «Non c’è alcun assembramento di truppe vicino al confine bielorusso, ma comprendiamo che domani sarà possibile qualunque scenario». Il sindaco di Kharkiv, Igor Terekhov, ha invece sottolineato che sulla sua città si stanno registrando bombardamenti di maggiore potenza, per quanto di numero inferiore rispetto al passato. L’ambasciatore statunitense presso l’Osce, Michael Carpenter, ha frattanto dichiarato che Mosca «sta preparando il terreno per l’annessione» della regione di Kherson alla Federazione russa, «aspettando il momento opportuno per farlo». «Kherson è il laboratorio degli orrori del Cremlino. Ogni giorno che Kherson rimane sotto il controllo della Russia, il Cremlino lavora per portare avanti il suo piano per sostituire il governo democratico di Kherson, la stampa libera e la società civile con uno stato di polizia in stile Cremlino che umilia e brutalizza la popolazione locale», ha altresì affermato. In tutto questo, il Regno Unito ha detto di temere un’epidemia di colera a Mariupol. «L’Ucraina ha subito una grave epidemia di colera nel 1995 e da allora ha subito epidemie minori, specialmente intorno alla costa del Mar d’Azov, che include Mariupol», ha affermato il ministero della Difesa di Londra. «I servizi medici a Mariupol sono probabilmente già vicini al collasso: una grave epidemia di colera a Mariupol aggraverà ulteriormente la situazione», ha proseguito, denunciando poi scarsità di medicinali anche a Kherson. L’allarme colera è stato altresì lanciato dal primo cittadino di Mariupol, Vadym Boichenko. «C’è un focolaio di dissenteria e colera», ha dichiarato, specificando di temere migliaia di vittime. Il sindaco di Mykolaiv, Oleksandr Senkevych, ha frattanto affermato che uno dei principali porti locali per lo stoccaggio del grano è stato duramente colpito dalle truppe di Mosca. «Nella città», ha anche detto il primo cittadino, «è rimasta la metà della popolazione. Stando al consumo dell’acqua e alla quantità della spazzatura in città possiamo stimare che circa 280.000 delle 480.000 persone che ci vivevano hanno lasciato la città. Vorremmo anche ricevere i dati degli operatori telefonici in modo da poter avere i dati più precisi».
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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