
La 194 impedisce l'interruzione della gravidanza a casa con la pillola Ru486, ma questo non ne fa una buona legge.Numerose sono state, com'è noto, le prese di posizione provenienti dal mondo cattolico contro la recente modifica delle linee guida circa l'impiego della pillola abortiva Ru486, nel senso che la sua assunzione possa avvenire in regime di «day hospital» senza più comportare, quindi, la necessità della degenza per almeno tre giorni. Fra tali prese di posizione, però (ivi comprese le ultime, costituite dagli articoli comparsi il 22 e il 23 agosto scorsi sull'Avvenire, a firma, rispettivamente, di Eugenia Roccella e Assuntina Morresi, il primo, e di Marcello Palmieri, il secondo), se ne cercherebbe invano una che ribadisse con forza, in primo luogo, quello che dovrebbe continuare a costituire uno dei principali, se non anche il principale in assoluto, tra i cosiddetti «principi non negoziabili»: vale a dire la inaccettabilità in sé, da un punto di vista cattolico, dell'interruzione volontaria della gravidanza se non nel caso, già da sempre riconosciuto, che, in mancanza di essa, la donna correrebbe un immediato e non altrimenti evitabile pericolo per la propria vita. Si è preferito, infatti, il più delle volte, porre in primo piano l'asserita incompatibilità delle nuove linee guida con la disciplina dettata dalla legge 194/1978 e la connessa conseguenza di un aumento dei rischi che la nuova normativa comporterebbe per la salute fisica e psichica della donna. Ora, che tale incompatibilità sia realmente sussistente e renda quindi formalmente illegittima la modifica in questione, anche a prescindere dalla effettività o meno dei paventati, maggiori pericoli per la salute della donna, appare difficilmente contestabile. Basti, al riguardo, rilevare che, secondo quanto testualmente ed inderogabilmente previsto dall'art. 8 della citata legge 194/1978, «l'interruzione della gravidanza è praticata... presso un ospedale generale», ovvero presso «ospedali pubblici specializzati» o altri presidii sanitari che la stessa norma considera ad essi equiparabili. E per «interruzione della gravidanza» non può che intendersi l'intero processo che si conclude con l'espulsione del feto. Ne consegue che anche quest'ultima fase deve aver luogo in ambito ospedaliero, indipendentemente dalla circostanza che l'interruzione sia prodotta chirurgicamente o farmacologicamente, salva, naturalmente, l'ipotesi che sia la donna, di sua volontà (ed assumendosene, quindi, tutte le responsabilità), a lasciare in anticipo la struttura ospedaliera. Quello che lascia, però, interdetti, nell'atteggiamento del mondo cattolico (o, almeno, della maggior parte di quanti ne assumono in qualche modo, a vario titolo, la rappresentanza), è la sostanziale accettazione dell'idea che, in fin de' conti, la legge 194 (a suo tempo oggetto, come si ricorderà, anche di un tentativo di abrogazione per via referendaria, poi non andato a buon fine), costituisca ormai «il meno peggio» e che, pertanto, altro non ci si possa proporre se non che essa venga almeno scrupolosamente osservata. Ciò essenzialmente nel presupposto che la stessa legge, rispetto alle altre normative in materia di aborto vigenti nella maggior parte dei paesi europei, limiterebbe maggiormente la possibilità di ricorrere all'interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni e la subordinerebbe, inoltre, all'obbligatorio, preventivo intervento dei consultori familiari, finalizzato – si pensa – a dissuadere, per quanto possibile, la donna dal proposito di abortire. Peccato che si tratti, però, di un presupposto che, ad un esame appena più approfondito della legge, si rivela del tutto infondato. Anzitutto, infatti, non è affatto vero (contrariamente a quanto si crede comunemente) che l'interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, secondo quanto previsto dall'art. 4 della legge, richieda l'oggettiva esistenza, per la donna, di un «serio pericolo per la sua salute fisica o psichica». La norma, infatti, si limita a chiedere che la donna «accusi circostanze» tali da dar luogo, secondo lei, al suddetto pericolo. Dopodiché, quand'anche il consultorio familiare o il medico di fiducia (al quale, in alternativa, l'interessata può rivolgersi), escludano l'«urgenza» dell'intervento e, quindi, automaticamente, la sussistenza del «serio pericolo» per la salute della donna, quest'ultima ha comunque diritto al rilascio di un documento attestante lo stato di gravidanza e l'avvenuta richiesta di interruzione della medesima; documento che deve anche contenere l'invito a soprassedere per sette giorni, trascorsi i quali esso costituisce titolo per ottenere senz'altro l'esecuzione dell'intervento presso una delle sedi autorizzate. Nella sostanza, quindi, la disciplina vigente in Italia non si differenzia da quella vigente nella maggior parte degli altri paesi europei (tra essi, in particolare, la Spagna, la Francia, la Germania, l'Austria, la Svizzera), secondo la quale, più semplicemente (e, se vogliamo, meno ipocritamente) la donna ha in ogni caso il diritto di interrompere la gravidanza entro un termine variante tra le dodici e le quattordici settimane dal suo inizio, senza necessità di addurre alcuna specifica ragione ma alla sola condizione, in estrema sintesi, che la relativa richiesta sia stata sottoposta all'esame di un sanitario abilitato e che questi abbia fornito alla richiedente tutte le informazioni del caso. Neppure è vero, poi, che la donna debba in ogni caso rivolgersi al consultorio familiare quando intenda interrompere la gravidanza entro i primi tre mesi dal suo inizio. La donna, infatti (come già si è accennato) ha, per legge, la facoltà di rivolgersi, in alternativa, soltanto al proprio medico di fiducia, il quale, a differenza del consultorio, non ha l'obbligo di «aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza» e di «metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre», ma soltanto quello di «valutare le circostanze che la determinano a chiedere l'interruzione della gravidanza» e di «informarla sui diritti a lei spettanti e sugli interventi di carattere sociale cui può far ricorso, nonché sui consultori e le strutture socio-sanitarie». In conclusione, dunque, ben venga il riconoscimento che, nell'attuale contesto politico-sociale, sarebbe del tutto irrealistico prospettarsi la possibilità di un'abrogazione o anche solo di una modifica in senso più restrittivo dell'attuale normativa italiana sull'aborto, ma non si faccia credere, a quanti vogliano dirsi cattolici, che essa sia in sé e per sé accettabile, neppure come «male minore» rispetto alla media delle legislazioni estere.
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