2023-06-12
Dalle morti agli obiettori. Sull’aborto e la legge 194 sfornano bugie da 45 anni
L’interruzione di gravidanza è stata imposta grazie a numeri gonfiati e fake news. E sulla norma feticcio, gli stessi relatori dicevano: «Vediamo come va e cambiamola».«È molto più facile ingannare la gente, che convincerla che è stata ingannata». Benché datata, la celebre massima di Mark Twain conserva intatta la sua validità. Lo indicano, tra i tanti, gli innumerevoli inganni che, a 45 anni compiuti da poco, la legge 194 del 22 maggio del 1978 sull’aborto procurato continua a simboleggiare. Una norma ormai divenuta intoccabile - ben più della stessa Costituzione - e che, tuttavia, ha avuto una storia assai diversa da quella che si racconta. Prima di tutto perché non avrebbe mai dovuto essere intoccabile, come pensava perfino chi la votò.Emblematiche, al riguardo, le parole pronunciate dallo stesso relatore della legge, l’onorevole Giovanni Berlinguer - fratello minore del più celebre Enrico -, il quale in Parlamento disse che «sarebbe assai opportuno un impegno di tutti i gruppi promotori a riesaminare, dopo un congruo periodo di applicazione, le esperienze positive e negative di questa legge», riconsiderando anche le nuove «acquisizioni scientifiche e giuridiche» con, appunto, l’«impegno a introdurre nella legge le modifiche necessarie». Morale: son trascorsi 45 anni, Berlinguer ci ha lasciati da otto ma la 194 giace ancora lì, intoccabile. E pensare che si tratta di una legge la cui approvazione è avvenuta in un clima che vedeva l’opinione pubblica condizionata da parecchie menzogne.Qualche esempio? Le prime proposte di legge per depenalizzare il fenomeno abortivo in Italia, risalenti al 1971, parlavano di 25.000 donne morte ogni anno per pratiche clandestine. Una stima enorme e ripresa all’epoca sia dai giornaloni, come il Corriere della Sera, sia da rotocalchi come Novella 2000. Ma era una stima falsa. Dall’Annuario statistico del 1974 risultava infatti che le donne in età feconda decedute nel 1972, cioè prima della legge 194, fossero in tutto 15.116. Anche ipotizzando che fossero morte tutte per aborto clandestino, non sarebbero neppure lontanamente state 25.000. In realtà, i dati dicono che furono 409 le donne morte per gravidanza o parto, ergo certamente molte meno - qualche decina - quelle per aborto clandestino. Eppure per queste bufale e strumentalizzazioni non risulta che nessuno abbia chiesto scusa.Forse perché di bufale, sul tema dell’aborto, in quegli anni se ne raccontavano pure molte altre. Tipo quelle degli aborti clandestini. Il Giorno del 7 settembre 1972 riportava un numero di aborti clandestini pari a 3-4 milioni l’anno, mentre il Corriere del 10 settembre 1976 parla di cifre variabili tra 1,5 e 3 milioni, a conferma dell’impossibilità di quantificare realmente fenomeno. Che tuttavia veniva puntualmente raccontato, ecco il punto, nell’ordine dei milioni. Ma come stavano veramente le cose? Secondo il professor Bernardo Colombo, demografo dell’università di Padova, coautore di una ricerca elaborata con gli statistici Franco Bonarini e Fiorenzo Rossi, prima dalla legalizzazione della pratica in Italia gli aborti clandestini erano - al massimo - 100.000; significa che le stime che campeggiavano pagine dei giornali dell’epoca erano gonfiate a dismisura.Tra l’altro, si trattava della stessa strategia di esagerazione sia degli aborti clandestini sia delle donne morte a causa di essi che, prima di arrivare in Italia, era stata collaudata all’estero. Parola del dottor Bernard Nathanson, il medico che prima di divenire militante pro life operò, per anni, come esponente di punta dell’abortismo americano. Ebbene, una volta cambiata idea Nathanson ammise che «il numero delle donne morte per le conseguenze di aborti illegali si aggirava su 200-250 ogni anno» anche se «la cifra che costantemente indicammo ai media era 10.000. Questi falsi numeri penetrarono nelle coscienze degli americani, convincendo molti che era necessario eliminare la legge che proibiva l’aborto». A loro volta gli americani, va detto, non avevano inventato nulla. Semplicemente, avevano applicato una esagerazione propagandistica già sperimentata in Inghilterra, dove il politico David Steel stimava che, prima della legalizzazione avvenuta nel 1967, gli aborti clandestini fossero tra «40.000 e i 200.000 l’anno», mentre erano meno di 15.000. Non si esagera, dunque, se si afferma che la legge 194 sia figlia di fake news clamorose. Il fatto è che, dopo 45 anni, gli abortisti - almeno alcuni - hanno senza dubbio perso il pelo, ma non il vizio. Così tiene ancora banco, per esempio, l’idea che, se l’aborto volontario non fosse legale, la salute della donna sarebbe in pericolo.Peccato che una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Plos One nel 2012 abbia smentito che il divieto di aborti comporti più mortalità materna. Peccato che negli Usa, un anno fa, la Corte Suprema abbia rovesciato la storica sentenza Roe v. Wade del 1973, favorendo il fatto che in circa la metà degli Stati, oggi, vi siano divieti di aborti dopo le 12 settimane di gestazione. Risultato? Nei primi undici mesi successivi alla contestatissima decisione della Corte Suprema di un anno fa, si stimano in America 60.000 aborti in meno; eppure non si segnala, fortunatamente, alcun vero peggioramento della salute materna. Quello che «il rischio di mortalità materna sia quattordici volte maggiore» ove la donna decida di portare a termine la gravidanza anziché abortire è «un mantra», ha sottolineato sul mensile Il Timone Marianna Orlandi, che negli Usa ci vive e lavora come direttore esecutivo dell’Austin Institute, «estrapolato da un paper pubblicato nel 2012, autori Raymond e Grimes, già ampiamente criticato dalla letteratura scientifica». In quel paper, infatti, ha aggiunto Orlandi, «gli autori giunsero a tale conclusione sulla base di dati relativi alle morti e alle complicazioni legate all’aborto del tutto incompleti e imprecisi, ignorando studi scientifici che dimostrano una mortalità materna quattro volte inferiore a un anno dal parto che a un anno dall’aborto».Tornando all’Italia, un altro cavallo di battaglia pro choice è quello secondo cui, per colpa degli obiettori di coscienza, in tante regioni non sia più possibile abortire. La scorsa estate, si ricorderà, a tal proposito si era tirato in ballo il caso delle Marche, regione governata dal centrodestra con «troppi obiettori» e, per questo, finita nel mirino prima della reginetta degli influencer, Chiara Ferragni, e anche di Alessandro Zan del Pd, che in una trasmissione tv era stato tranchant: «Nelle Marche di fatto il diritto di aborto è stato cancellato». Ora, a parte che l’obiezione di coscienza non è un privilegio ma un diritto che la stessa legge 194 sancisce all’articolo 9, non la destra ma l’ultima relazione sull’applicazione di tale norma firmata dal ministro della Salute Roberto Speranza afferma che nelle Marche l’offerta del cosiddetto «servizio di Ivg» è di gran lunga superiore a quella nazionale, con gli aborti effettuabili in quasi il 93% delle strutture sanitarie (92,9%, il dato esatto), mentre la media italiana è del 62%. Non solo, sempre leggendo la relazione del 2022 si scopre come nella regione in questione nel 2020 (ultimo anno di cui si abbiano al momento i dati) siano stati effettuati nel 1.351 aborti, una media di 3,7 al giorno, festivi compresi. Come si faccia a dire, dinnanzi a tali numeri, che «nelle Marche di fatto l’aborto è stato cancellato» è dunque un mistero. Del resto, non è la prima volta che, pur di attaccare l’obiezione di coscienza, la si spara grossa. Nel marzo 2017 si diffuse la notizia di una signora padovana di 41 anni che aveva telefonato a 23 ospedali per abortire, vedendosi sempre sbattere le porta in faccia. La vicenda era stata commentata in prima pagina sul Corriere della Sera da Massimo Gramellini, che aveva denunciato il «calvario laico» della signora. Che però non c’era mai stato, come accertato dalla Procura di Venezia che ha stabilito che in quella storia, se un’ipotesi di reato c’era, era la diffamazione contro la Regione Veneto. Domanda a questo punto d’obbligo: ma se quella in favore dell’aborto legale è davvero una battaglia di civiltà, come mai per portarla avanti si fa da decenni ricorso a strumentalizzazioni, balle e dati gonfiati? Sarebbe bello capirlo.
Roberto Occhiuto (Imagoeconomica)
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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