2023-06-01
A vincere non sarà il diritto con un successo di Kiev. Bisogna stipulare una tregua
Mosca non potrebbe più chiedere di attuare i sempre disattesi accordi sul Donbass. E se trionfasse il Cremlino, soccomberebbe l’integrità territoriale del Paese invaso. Presidente di sezione a riposo della Corte di cassazione Nessun negoziato e nessuna tregua fino a che, grazie alla vittoriosa controffensiva prossima ventura, le truppe russe non saranno state scacciate dai territori dell’Ucraina da esse occupati, ivi compresa la Crimea. Questa la posizione che, almeno all’apparenza, risulta incrollabilmente assunta dal presidente Volodymyr Zelensky e sulla quale sembrano, sostanzialmente, essersi appiattiti quasi tutti i Paesi aderenti alla Nato, sia pure adottando sistematicamente l’ambigua formula del sostegno all’Ucraina «per tutto il tempo necessario».Che ciò comporti l’ulteriore perdita di decine o forse centinaia di migliaia di vite umane, oltre a danni materiali incalcolabili e al rischio di una escalation del conflitto dagli esiti imprevedibili, sembra che non debba costituire motivo di preoccupazione alcuna. Come pure non sembra che metta in conto il doversi occupare di quello che sarà il trattamento riservato alle popolazioni russofone del Donbass e della Crimea una volta che questi territori, attualmente sotto controllo russo, venissero riconquistati (o, come sostiene la propaganda di Kiev, «liberati») per opera delle forze armate ucraine.Tutto, infatti, dovrebbe passare in seconda linea a fronte dell’esigenza, presentata come assolutamente prioritaria e imprescindibile, che la Russia non possa trarre alcun utile risultato dall’aggressione posta in essere nei confronti dell’Ucraina, come invece avverrebbe - si sostiene - qualora si addivenisse a trattative alle quali la Russia si presentasse nella posizione di vantaggio costituita dalla perdurante occupazione dei suddetti territori.Il principio, in sostanza, che a tutti i costi dovrebbe essere salvaguardato è quello che il diritto, nei rapporti internazionali, non deve mai risultare soccombente rispetto all’uso della forza. Si tratta, per la verità, di un principio che, pur nella sua indubbia validità, non è, tuttavia, così assoluto come lo si vuol presentare. Esso incontra, infatti, il suo limite naturale nella proporzionalità che deve necessariamente sussistere tra l’entità del male da infliggere o da soffrire per riaffermare il diritto offeso dalla forza e il valore del bene costituito da tale riaffermazione, quando, per ottenerla, occorra far ricorso, a propria volta, all’uso della forza. Un limite, quello anzidetto, che trova il suo fondamento non solo nel comune buon senso ma anche nelle norme giuridiche e nelle regole della morale.È appena il caso di ricordare, infatti che il codice penale italiano (non diversamente, nella sostanza, da quelli della generalità degli altri Paesi) prevede che per potersi riconoscere, in favore di chi abbia commesso un reato in danno di un’altra persona, la causa di giustificazione della legittima difesa, occorre che «la difesa sia proporzionata all’offesa». Il che, pur se previsto per i rapporti interpersonali, vale, all’evidenza, anche per quelli internazionali. E quanto alla morale, si legge, ad esempio, nel Catechismo della Chiesa cattolica, al numero 2309, che tra le condizioni che rendono legittimo l’uso della forza militare nei rapporti tra gli Stati vi è quello che «il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare».Anche Pio XII, del resto - come ricordato da Romano Amerio in Iota unum, nel capitolo dedicato alla guerra - ebbe sì ad affermare, in una occasione, che «l’atteggiamento di chi aborre la guerra per le sue atrocità e non anche per la sua ingiustizia prepara la fortuna dell’aggressore», ma precisò anche, in un’altra occasione, che quando i danni prodotti da una guerra, pur condotta per difendersi da un’ingiustizia, «non sono paragonabili a quelli dell’ingiustizia, si può avere l’obbligo di subire l’ingiustizia». Nel caso della guerra russo-ucraina, però, il problema non è soltanto quello della proporzionalità tra il bene perseguito e il male da subire o da produrre ad altri. Ve n’è, infatti, un altro, che si colloca a monte del primo e che può compendiarsi nel seguente interrogativo: l’eventuale (e, peraltro, assai improbabile) successo dell’Ucraina nel tentativo di totale riconquista dei territori occupati dalla Russia sarebbe, perciò, solo da considerare come un assoluto trionfo del diritto sulla forza bruta? La risposta, contrariamente all’opinione corrente, non potrebbe che essere negativa. Se è vero, infatti, che la Russia, con la sua «operazione militare speciale», ha attentato all’integrità territoriale dell’Ucraina in violazione di una ben precisa regola dei rapporti internazionali, che fa espresso divieto di porre in essere tali condotte, è altrettanto vero che, in precedenza, l’Ucraina aveva totalmente disatteso gli accordi di Minsk, stipulati con la Russia e avallati anche dalla Francia e dalla Germania, in forza dei quali le popolazioni russofone del Donbass avrebbero dovuto beneficiare di una serie di garanzie che sono rimaste, invece, del tutto inattuate. Il che ha costituito la causa o, almeno, una delle cause principali, dell’iniziativa assunta dalla Russia.Ciò comporta che, qualora l’attuale conflitto dovesse risolversi solo a seguito della «vittoria» di una parte nei confronti dell’altra, sarebbe comunque il diritto a risultare soccombente rispetto alla forza. Se, infatti, fosse la Russia a prevalere, riuscendo a mantenere a tempo indeterminato il controllo dei territori occupati, soccombente sarebbe il diritto dell’Ucraina (al pari di qualsiasi altro Paese) alla salvaguardia della propria integrità territoriale. Se, viceversa, dovesse prevalere l’Ucraina, riacquistando il controllo di quegli stessi territori, soccombente sarebbe il diritto che la Russia avrebbe avuto (e che mai più potrebbe invocare) a che gli accordi di Minsk venissero attuati, in ossequio al principio, anch’esso fondamentale nei rapporti internazionali, che trova espressione nell’antico e noto brocardo latino pacta sunt servanda (i patti vanno osservati). Conclusione (assimilabile a quelli che don Abbondio chiamava sprezzantemente «i pareri di Perpetua», salvo poi accorgersi che avrebbe fatto bene a seguirli): si smetta di invocare il diritto a sostegno dell’uso della forza come unica via per porre fine alla guerra e si accetti, una buona volta, in nome della ragione, quanto meno la prospettiva di una tregua immediata e senza condizioni che faccia cessare l’«inutile strage» e che, d’altra parte, di per sé, non pregiudicherebbe le aspettative, più o meno legittime, di nessuna delle due parti in causa.
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