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2022-08-17
A un anno dalla ritirata disastrosa Biden può saltare sull’Afghanistan
Joe Biden annuncia il ritiro dall'Afghanistan il 31 agosto 2021 (Ansa)
A un anno dalla caduta di Kabul, lo spettro dell’Afghanistan torna a perseguitare Joe Biden e Kamala Harris. I deputati repubblicani della commissione esteri della Camera hanno approntato un rapporto, in cui si enumerano tutte le contraddizioni e gli errori commessi dall’amministrazione Biden nel disastroso ritiro di agosto 2021. Pur non ancora ufficialmente pubblicato, il documento è stato visionato da varie testate giornalistiche, che ne hanno riferito i principali contenuti. La Casa Bianca, neanche a dirlo, ha già accusato il rapporto di faziosità. Come che sia, alcuni dei suoi risultati meritano di essere sottolineati.
In primis, sembrerebbe che, durante le operazioni di evacuazione nel pieno della crisi, sul territorio afgano ci fossero soltanto 36 funzionari del Dipartimento di Stato: praticamente uno ogni 3.444 evacuati. In secondo luogo, il rapporto denuncia che la Casa Bianca non aveva implementato alcun piano per impedire che i commando afgani addestrati dagli americani venissero reclutati da avversarsi degli Stati Uniti (come Cina, Russia e Iran). «Molti dei piani di evacuazione dell’amministrazione Biden sono stati realizzati nella primavera del 2021, alcuni anche prima che il presidente annunciasse il ritiro. E non sono mai stati aggiornati nonostante le conquiste dei talebani sul campo di battaglia, nonostante il deterioramento della situazione della sicurezza», ha affermato il deputato repubblicano, Michael McCaul. Un altro aspetto controverso del report è che i primi progetti di evacuazione dei civili sarebbero stati messi in cantiere dall’ambasciata statunitense a Kabul non prima della metà di giugno 2021: quando, cioè, la situazione generale già mostrava significativi segnali di deterioramento. Un ulteriore elemento sconcertante è che, secondo il rapporto, solo il 25% degli evacuati sarebbe stato costituito da donne: un dato, questo, contestato dalla Casa Bianca, secondo cui la cifra risulterebbe del 43%. È infine emerso che i repubblicani hanno chiesto di interrogare una trentina di funzionari coinvolti nelle operazioni di evacuazione: una richiesta a cui l’amministrazione Biden si sarebbe tuttavia sottratta.
Insomma, questo rapporto sembra proprio smentire l’ormai logora vulgata, secondo cui, con l’arrivo di Biden, gli «adulti» sarebbero tornati alla Casa Bianca. Il disastro dell’evacuazione afgana ha dimostrato in realtà l’esatto contrario. E attenzione: la faccenda non può essere semplicisticamente derubricata a una questione di incapacità. Si tratta, in realtà, di un problema molto più profondo e strutturale, che chiama in causa significative divisioni in seno alla stessa amministrazione. Proprio sul dossier afgano emersero dissidi tra il Pentagono e il Dipartimento di Stato tra agosto e settembre 2021. Dissidi che, pur mutatis mutandis, ritroviamo oggi nella gestione di altri fronti caldi (dalla Russia alla Cina): dissidi, amplificati dalla totale mancanza di leadership dell’attuale inquilino della Casa Bianca.
Ma c’è un secondo aspetto da sottolineare. Qualora fosse confermato che solo il 25% degli evacuati erano donne, ciò dimostrerebbe la totale ipocrisia dell’impegno femminista tanto professato dall’attuale amministrazione americana, a partire dalla stessa Kamala Harris. Ad agosto 2019, durante le primarie dem, costei promise che avrebbe difeso i diritti conseguiti dalle donne afgane. Peccato che, quando scoppiò la crisi l’anno scorso, la vicepresidente si inabissò in un silenzio quasi totale (interrotto ogni tanto solo da qualche tweet generico). E adesso si scopre che forse, durante l’evacuazione, ad essere soccorsi sono stati prevalentemente uomini. Eppure si sapeva benissimo a che cosa sarebbero andate incontro le donne afgane sotto un governo in mano ai talebani. La vicepresidente (e nota paladina femminista) non ha niente da dire?
Infine, la storia che Biden fosse vincolato all’accordo di Donald Trump del febbraio 2020 con i «barbuti» è soltanto un alibi traballante. L’attuale presidente avrebbe potuto o stralciare o modificare quell’intesa. La realtà è che non lo ha fatto per esigenze di consenso interno, vista l’elevata impopolarità del conflitto afgano tra gli elettori americani. Peccato per lui che il risultato sia rivelato un boomerang. L’evacuazione è stata talmente disastrosa che, da allora, la popolarità interna del presidente ha iniziato progressivamente a declinare, mentre i repubblicani hanno già detto che, se riconquisteranno la Camera a novembre, avvieranno inchieste sul dossier (una strada, questa, che potrebbe portare anche a un impeachment presidenziale). Non solo: il caos afgano ha indebolito anche la deterrenza statunitense nei confronti di Cina e Russia, le quali da allora si sono fatte non a caso più arroganti e bellicose. In quel momento, le relazioni transatlantiche toccarono probabilmente il punto più basso della loro storia, visto che Biden - pressato dalle minacce dei talebani - si rifiutò di ritardare il completamento dell’evacuazione, come gli avevano invece chiesto gli alleati del G7: il che determinò uno sfilacciamento del blocco euroatlantico di cui paghiamo ancora oggi le amare conseguenze. Ci avevano detto che, con Biden, l’America avrebbe fatto il suo ritorno. E invece questo presidente ha soltanto indebolito l’Occidente.
Kiev reagisce in Crimea, russi in fuga
La tensione resta alta in Ucraina. Il ministero della Difesa russo ha affermato che un magazzino militare vicino alla città di Dzhankoi, nella parte settentrionale della Crimea, ha registrato un’esplosione a causa di un «sabotaggio»: si conterebbero almeno due feriti. Altre esplosioni si sono verificate in una base militare russa nei pressi di Sinferopoli. Il Guardian ha riferito che, secondo i media di Mosca, molti cittadini russi starebbero abbandonando la Crimea in queste ore (si parla di quasi 40.000 automobili l’altro ieri). Secondo il New York Times l’azione sarebbe stata compiuta da forze di élite ucraine, altre fonti fanno riferimento a missili a lungo raggio forniti dagli americani.
Per Mosca, un ulteriore sabotaggio è stato condotto ai danni delle linee elettriche collegate alla centrale nucleare russa di Kursk. «Sono stati fatti saltare in aria sei pilastri di linee elettriche ad alta tensione [...], attraverso i quali la centrale nucleare di Kursk fornisce energia agli impianti», ha dichiarato l’Fsb. Poco dopo, il Kyiv Independent ha riferito che individui non identificati avrebbero fatto esplodere una linea ferroviaria nella regione di Kursk, usata da treni merci. Le forze di Mosca, dal canto loro, hanno condotto attacchi missilistici nella regione ucraina di Zhytomyr: attacchi che sarebbero partiti dal territorio bielorusso. Secondo le autorità ucraine, la città di Nikopol, situata nei pressi della centrale nucleare di Zaporizhzhia, è stata nuovamente colpita da missili russi: si registrano almeno un morto e dieci feriti. Nel frattempo, l’Ucraina ha ricevuto altri sei obici dalla Lettonia, mentre il governo di Mosca ha firmato contratti da otto miliardi di dollari per la produzione di missili balistici intercontinentali Sarmat e di sistemi di difesa aerea. Dal canto suo, il ministro della Difesa russo, Sergej Shoigu, ha dichiarato che Mosca «non ha bisogno» di fare ricorso ad armi nucleari.
Le fibrillazioni aumentano anche sul fronte politico-diplomatico. Vladimir Putin ha accusato gli Stati Uniti di voler prolungare il conflitto in Ucraina, sostenendo polemicamente che Washington avrebbe intenzione di creare un sistema simile alla Nato nell’Indo-Pacifico. Non solo: il capo del Cremlino ha anche tacciato gli americani di «provocazione pianificata» in riferimento a Taiwan. Lo scorso 4 febbraio, Putin e Xi Jinping emisero un comunicato congiunto, in cui il leader cinese sosteneva la Russia contro la Nato e il leader russo spalleggiava le rivendicazioni di Pechino su Taipei. La Finlandia, dal canto suo, ha annunciato ieri una limitazione al numero di visti rilasciati ai russi.
In tutto questo, l’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yurash, ha fatto sapere che il programma di una visita di papa Francesco in Ucraina risulterebbe ancora «oggetto di negoziato». Il diplomatico ha espresso in particolare l’auspicio che il pontefice si rechi a Kiev e a Bucha. Sempre ieri, Volodymyr Zelensky ha avuto una telefonata con l’omologo francese, Emmanuel Macron. «L’ho informato sulla situazione al fronte e sul terrorismo nucleare russo alla centrale nucleare di Zaporizhzhia», ha twittato il presidente ucraino, invocando un incremento delle sanzioni a Mosca. Macron ha detto di condividere l’ipotesi di una missione dell’Aiea per esaminare la situazione a Zaporizhazhia. Ankara ha intanto smentito di aver siglato un nuovo contratto con la Russia per l’acquisto di un altro sistema missilistico S-400: la Turchia prosegue dunque nel suo equilibrismo tra Washington e Mosca.
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Nuove rivelazioni spiegano come l’addio sia avvenuto senza programmazione, con pochissimi funzionari in loco e abbandonando le donne ai «barbuti». I repubblicani raccolgono altro materiale per l’impeachment.Crimea: migliaia di civili in auto dalla penisola verso la Russia. Per il «Nyt» raid compiuti dalle forze speciali ucraine. Mosca firma i contratti per i missili intercontinentali.Lo speciale contiene due articoli.A un anno dalla caduta di Kabul, lo spettro dell’Afghanistan torna a perseguitare Joe Biden e Kamala Harris. I deputati repubblicani della commissione esteri della Camera hanno approntato un rapporto, in cui si enumerano tutte le contraddizioni e gli errori commessi dall’amministrazione Biden nel disastroso ritiro di agosto 2021. Pur non ancora ufficialmente pubblicato, il documento è stato visionato da varie testate giornalistiche, che ne hanno riferito i principali contenuti. La Casa Bianca, neanche a dirlo, ha già accusato il rapporto di faziosità. Come che sia, alcuni dei suoi risultati meritano di essere sottolineati. In primis, sembrerebbe che, durante le operazioni di evacuazione nel pieno della crisi, sul territorio afgano ci fossero soltanto 36 funzionari del Dipartimento di Stato: praticamente uno ogni 3.444 evacuati. In secondo luogo, il rapporto denuncia che la Casa Bianca non aveva implementato alcun piano per impedire che i commando afgani addestrati dagli americani venissero reclutati da avversarsi degli Stati Uniti (come Cina, Russia e Iran). «Molti dei piani di evacuazione dell’amministrazione Biden sono stati realizzati nella primavera del 2021, alcuni anche prima che il presidente annunciasse il ritiro. E non sono mai stati aggiornati nonostante le conquiste dei talebani sul campo di battaglia, nonostante il deterioramento della situazione della sicurezza», ha affermato il deputato repubblicano, Michael McCaul. Un altro aspetto controverso del report è che i primi progetti di evacuazione dei civili sarebbero stati messi in cantiere dall’ambasciata statunitense a Kabul non prima della metà di giugno 2021: quando, cioè, la situazione generale già mostrava significativi segnali di deterioramento. Un ulteriore elemento sconcertante è che, secondo il rapporto, solo il 25% degli evacuati sarebbe stato costituito da donne: un dato, questo, contestato dalla Casa Bianca, secondo cui la cifra risulterebbe del 43%. È infine emerso che i repubblicani hanno chiesto di interrogare una trentina di funzionari coinvolti nelle operazioni di evacuazione: una richiesta a cui l’amministrazione Biden si sarebbe tuttavia sottratta. Insomma, questo rapporto sembra proprio smentire l’ormai logora vulgata, secondo cui, con l’arrivo di Biden, gli «adulti» sarebbero tornati alla Casa Bianca. Il disastro dell’evacuazione afgana ha dimostrato in realtà l’esatto contrario. E attenzione: la faccenda non può essere semplicisticamente derubricata a una questione di incapacità. Si tratta, in realtà, di un problema molto più profondo e strutturale, che chiama in causa significative divisioni in seno alla stessa amministrazione. Proprio sul dossier afgano emersero dissidi tra il Pentagono e il Dipartimento di Stato tra agosto e settembre 2021. Dissidi che, pur mutatis mutandis, ritroviamo oggi nella gestione di altri fronti caldi (dalla Russia alla Cina): dissidi, amplificati dalla totale mancanza di leadership dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Ma c’è un secondo aspetto da sottolineare. Qualora fosse confermato che solo il 25% degli evacuati erano donne, ciò dimostrerebbe la totale ipocrisia dell’impegno femminista tanto professato dall’attuale amministrazione americana, a partire dalla stessa Kamala Harris. Ad agosto 2019, durante le primarie dem, costei promise che avrebbe difeso i diritti conseguiti dalle donne afgane. Peccato che, quando scoppiò la crisi l’anno scorso, la vicepresidente si inabissò in un silenzio quasi totale (interrotto ogni tanto solo da qualche tweet generico). E adesso si scopre che forse, durante l’evacuazione, ad essere soccorsi sono stati prevalentemente uomini. Eppure si sapeva benissimo a che cosa sarebbero andate incontro le donne afgane sotto un governo in mano ai talebani. La vicepresidente (e nota paladina femminista) non ha niente da dire? Infine, la storia che Biden fosse vincolato all’accordo di Donald Trump del febbraio 2020 con i «barbuti» è soltanto un alibi traballante. L’attuale presidente avrebbe potuto o stralciare o modificare quell’intesa. La realtà è che non lo ha fatto per esigenze di consenso interno, vista l’elevata impopolarità del conflitto afgano tra gli elettori americani. Peccato per lui che il risultato sia rivelato un boomerang. L’evacuazione è stata talmente disastrosa che, da allora, la popolarità interna del presidente ha iniziato progressivamente a declinare, mentre i repubblicani hanno già detto che, se riconquisteranno la Camera a novembre, avvieranno inchieste sul dossier (una strada, questa, che potrebbe portare anche a un impeachment presidenziale). Non solo: il caos afgano ha indebolito anche la deterrenza statunitense nei confronti di Cina e Russia, le quali da allora si sono fatte non a caso più arroganti e bellicose. In quel momento, le relazioni transatlantiche toccarono probabilmente il punto più basso della loro storia, visto che Biden - pressato dalle minacce dei talebani - si rifiutò di ritardare il completamento dell’evacuazione, come gli avevano invece chiesto gli alleati del G7: il che determinò uno sfilacciamento del blocco euroatlantico di cui paghiamo ancora oggi le amare conseguenze. Ci avevano detto che, con Biden, l’America avrebbe fatto il suo ritorno. E invece questo presidente ha soltanto indebolito l’Occidente. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/a-un-anno-dalla-ritirata-disastrosa-biden-puo-saltare-sullafghanistan-2657874088.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="kiev-reagisce-in-crimea-russi-in-fuga" data-post-id="2657874088" data-published-at="1660729823" data-use-pagination="False"> Kiev reagisce in Crimea, russi in fuga La tensione resta alta in Ucraina. Il ministero della Difesa russo ha affermato che un magazzino militare vicino alla città di Dzhankoi, nella parte settentrionale della Crimea, ha registrato un’esplosione a causa di un «sabotaggio»: si conterebbero almeno due feriti. Altre esplosioni si sono verificate in una base militare russa nei pressi di Sinferopoli. Il Guardian ha riferito che, secondo i media di Mosca, molti cittadini russi starebbero abbandonando la Crimea in queste ore (si parla di quasi 40.000 automobili l’altro ieri). Secondo il New York Times l’azione sarebbe stata compiuta da forze di élite ucraine, altre fonti fanno riferimento a missili a lungo raggio forniti dagli americani. Per Mosca, un ulteriore sabotaggio è stato condotto ai danni delle linee elettriche collegate alla centrale nucleare russa di Kursk. «Sono stati fatti saltare in aria sei pilastri di linee elettriche ad alta tensione [...], attraverso i quali la centrale nucleare di Kursk fornisce energia agli impianti», ha dichiarato l’Fsb. Poco dopo, il Kyiv Independent ha riferito che individui non identificati avrebbero fatto esplodere una linea ferroviaria nella regione di Kursk, usata da treni merci. Le forze di Mosca, dal canto loro, hanno condotto attacchi missilistici nella regione ucraina di Zhytomyr: attacchi che sarebbero partiti dal territorio bielorusso. Secondo le autorità ucraine, la città di Nikopol, situata nei pressi della centrale nucleare di Zaporizhzhia, è stata nuovamente colpita da missili russi: si registrano almeno un morto e dieci feriti. Nel frattempo, l’Ucraina ha ricevuto altri sei obici dalla Lettonia, mentre il governo di Mosca ha firmato contratti da otto miliardi di dollari per la produzione di missili balistici intercontinentali Sarmat e di sistemi di difesa aerea. Dal canto suo, il ministro della Difesa russo, Sergej Shoigu, ha dichiarato che Mosca «non ha bisogno» di fare ricorso ad armi nucleari. Le fibrillazioni aumentano anche sul fronte politico-diplomatico. Vladimir Putin ha accusato gli Stati Uniti di voler prolungare il conflitto in Ucraina, sostenendo polemicamente che Washington avrebbe intenzione di creare un sistema simile alla Nato nell’Indo-Pacifico. Non solo: il capo del Cremlino ha anche tacciato gli americani di «provocazione pianificata» in riferimento a Taiwan. Lo scorso 4 febbraio, Putin e Xi Jinping emisero un comunicato congiunto, in cui il leader cinese sosteneva la Russia contro la Nato e il leader russo spalleggiava le rivendicazioni di Pechino su Taipei. La Finlandia, dal canto suo, ha annunciato ieri una limitazione al numero di visti rilasciati ai russi. In tutto questo, l’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yurash, ha fatto sapere che il programma di una visita di papa Francesco in Ucraina risulterebbe ancora «oggetto di negoziato». Il diplomatico ha espresso in particolare l’auspicio che il pontefice si rechi a Kiev e a Bucha. Sempre ieri, Volodymyr Zelensky ha avuto una telefonata con l’omologo francese, Emmanuel Macron. «L’ho informato sulla situazione al fronte e sul terrorismo nucleare russo alla centrale nucleare di Zaporizhzhia», ha twittato il presidente ucraino, invocando un incremento delle sanzioni a Mosca. Macron ha detto di condividere l’ipotesi di una missione dell’Aiea per esaminare la situazione a Zaporizhazhia. Ankara ha intanto smentito di aver siglato un nuovo contratto con la Russia per l’acquisto di un altro sistema missilistico S-400: la Turchia prosegue dunque nel suo equilibrismo tra Washington e Mosca.
Ansa
L’accordo è stato siglato con Certares, fondo statunitense specializzato nel turismo e nei viaggi, nome ben noto nel settore per American express global business travel e per una rete di partecipazioni che abbraccia distribuzione, servizi e tecnologia legata alla mobilità globale. Il piano è robusto: una joint venture e investimenti complessivi per circa un miliardo di euro tra Francia e Regno Unito.
Il primo terreno di gioco è Trenitalia France, la controllata con sede a Parigi che negli ultimi anni ha dimostrato come la concorrenza sui binari francesi non sia più un tabù. Oggi opera nell’Alta velocità sulle tratte Parigi-Lione e Parigi-Marsiglia, oltre al collegamento internazionale Parigi-Milano. Dal debutto ha trasportato oltre 4,7 milioni di passeggeri, ritagliandosi il ruolo di secondo operatore nel mercato francese. A dominarlo il monopolio storico di Sncf il cui Tgv è stato il primo treno super-veloce in Europa. Intaccarne il primato richiede investimenti e impegno. Il nuovo capitale messo sul tavolo servirà a consolidare la presenza di Fs non solo in Francia, ma anche nei mercati transfrontalieri. Il progetto prevede l’ampliamento della flotta fino a 19 treni, aumento delle frequenze - sulla Parigi-Lione si arriverà a 28 corse giornaliere - e la realizzazione di un nuovo impianto di manutenzione nell’area parigina. A questo si aggiunge la creazione di centinaia di nuovi posti di lavoro e il rafforzamento degli investimenti in tecnologia, brand e marketing. Ma il vero orizzonte strategico è oltre il Canale della Manica. La partnership punta infatti all’ingresso sulla rotta Parigi-Londra entro il 2029, un corridoio simbolico e ad altissimo traffico, finora appannaggio quasi esclusivo dell’Eurostar. Portare l’Alta velocità italiana su quella linea significa non solo competere su prezzi e servizi, ma anche ridisegnare la geografia dei viaggi europei, offrendo un’alternativa all’aereo.
In questo disegno Certares gioca un ruolo chiave. Il fondo americano non si limita a investire capitale, ma mette a disposizione la rete di distribuzione e le società in portafoglio per favorire la transizione dei clienti business verso il treno ad Alta velocità. Parallelamente, l’accordo guarda anche ad altro. Trenitalia France e Certares intendono promuovere itinerari integrati che includano il treno, semplificare gli strumenti di prenotazione e spingere milioni di viaggiatori a scegliere la ferrovia come modalità di trasporto preferita, soprattutto sulle medie distanze. L’operazione si inserisce nel piano strategico 2025-2029 del gruppo Fs, che punta su una crescita internazionale accelerata attraverso alleanze con partner finanziari e industriali di primo piano. Sarà centrale Fs International, la divisione che si occupa delle attività passeggeri fuori dall’Italia. Oggi vale circa 3 miliardi di euro di fatturato e conta su 12.000 dipendenti.
L’obiettivo, come spiega un comunicato del gruppo, combinare l’eccellenza operativa di Fs e di Trenitalia France con la potenza commerciale e distributiva globale di Certares per trasformare la Francia, il corridoio Parigi-Londra e i futuri mercati della joint venture in una vetrina del trasporto europeo. Un’Europa che viaggia veloce, sempre più su rotaia, e che riscopre il treno non come nostalgia del passato, ma come infrastruttura del futuro.
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Brigitte Bardot guarda Gunter Sachs (Ansa)
Ora che è morta, la destra la vorrebbe ricordare. Ma non perché in passato aveva detto di votare il Front National. Semplicemente perché la Bardot è stata un simbolo della Francia, come ha chiesto Eric Ciotti, del Rassemblement National, a Emmanuel Macron. Una proposta scontata, alla quale però hanno risposto negativamente i socialisti. Su X, infatti, Olivier Faure ha scritto: «Gli omaggi nazionali vengono organizzati per servizi eccezionali resi alla Nazione. Brigitte Bardot è stata un'attrice emblematica della Nouvelle Vague. Solare, ha segnato il cinema francese. Ma ha anche voltato le spalle ai valori repubblicani ed è stata pluri-condannata dalla giustizia per razzismo». Un po’ come se esser stata la più importante attrice degli anni Cinquanta e Sessanta passasse in secondo piano a causa delle sue scelte politiche. Come se BB, per le sue idee, non facesse più parte di quella Francia che aveva portato al centro del mondo. Non solo nel cinema. Ma anche nel turismo. Fu grazie a lei che la spiaggia di Saint Tropez divenne di moda. Le sue immagini, nuda sulla riva, finirono sulle copertine delle riviste più importanti dell’epoca. E fecero sì che, ricchi e meno ricchi, raggiungessero quel mare limpido e selvaggio nella speranza di poterla incontrare. Tra loro anche Gigi Rizzi, che faceva parte di quel gruppo di italiani in cerca di belle donne e fortuna sulla spiaggia di Saint Tropez. Un amore estivo, che però lo rese immortale.
È vero: BB era di destra. Era una femmina che non poteva essere femminista. Avrebbe tradito sé stessa se lo avesse fatto. Del resto, disse: «Il femminismo non è il mio genere. A me piacciono gli uomini». Impossibile aggiungere altro.
Se non il dispiacere nel vedere una certa Francia voltarle le spalle. Ancora una volta. Quella stessa Francia che ha dimenticato sé stessa e che ha perso la propria identità. Quella Francia che oggi vuole dimenticare chi, Brigitte Bardot, le ricordava che cosa avrebbe potuto essere. Una Francia dei francesi. Una Francia certamente capace di accogliere, ma senza perdere la propria identità. Era questo che chiedeva BB, massacrata da morta sui giornali di sinistra, vedi Liberation, che titolano Brigitte Bardot, la discesa verso l'odio razziale.
Forse, nelle sue lettere contro l’islamizzazione, BB odiò davvero. Chi lo sa. Di certo amò la Francia, che incarnò. Nel 1956, proprio mentre la Bardot riempiva i cinema mondiali, Édith Piaf scrisse Non, je ne regrette rien (no, non mi pento di nulla). Lo fece per i legionari che combattevano la guerra d’Algeria. Una guerra che oggi i socialisti definirebbero colonialista. Quelle parole di gioia possono essere il testamento spirituale di BB. Che visse, senza rimpiangere nulla. Vivendo in un eterno presente. Mangiando la vita a morsi. Sparendo dalla scena. Ora per sempre.
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«Gigolò per caso» (Amazon Prime Video)
Un infarto, però, lo aveva costretto ad una lunga degenza e, insieme, ad uno stop professionale. Stop che non avrebbe potuto permettersi, indebitato com'era con un orologiaio affatto mite. Così, pur sapendo che avrebbe incontrato la riprova del figlio, già inviperito con suo padre, Giacomo aveva deciso di chiedergli una mano. Una sostituzione, il favore di frequentare le sue clienti abituali, consentendogli con ciò un'adeguata ripresa. La prima stagione della serie televisiva era passata, perciò, dalla rabbia allo stupore, per trovare, infine, il divertimento e una strana armonia. La seconda, intitolata La sex gurue pronta a debuttare su Amazon Prime video venerdì 2 gennaio, dovrebbe fare altrettanto, risparmiandosi però la fase della rabbia. Alfonso, cioè, è ormai a suo agio nel ruolo di gigolò. Non solo. La strana alleanza professionale, arrivata in un momento topico della sua vita, quello della crisi con la moglie Margherita, gli ha consentito di recuperare il rapporto con il padre, che credeva irrimediabilmente compromesso. Si diverte, quasi, a frequentare le sue clienti sgallettate. Peccato solo l'arrivo di Rossana Astri, il volto di Sabrina Ferilli. La donna è una fra le più celebri guru del nuovo femminismo, determinata ad indottrinare le sue simili perché si convincano sia giusto fare a meno degli uomini. Ed è questa convinzione che muove anche Margherita, moglie in crisi di Alfonso. Margherita, interpretata da Ambra Angiolini, diventa un'adepta della Astri, una sua fedele scudiera. Quasi, si scopre ad odiarli, gli uomini, dando vita ad una sorta di guerra tra sessi. Divertita, però. E capace, pure di far emergere le abissali differenze tra il maschile e il femminile, i desideri degli uni e le aspettative, quasi mai soddisfatte, delle altre.
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iStock
La nuova applicazione, in parte accessibile anche ai non clienti, introduce servizi innovativi come un assistente virtuale basato su Intelligenza artificiale, attivo 24 ore su 24, e uno screening audiometrico effettuabile direttamente dallo smartphone. L’obiettivo è duplice: migliorare la qualità del servizio clienti e promuovere una maggiore consapevolezza dell’importanza della prevenzione uditiva, riducendo le barriere all’accesso ai controlli iniziali.
Il lancio avviene in un contesto complesso per il settore. Nei primi nove mesi dell’anno Amplifon ha registrato una crescita dei ricavi dell’1,8% a cambi costanti, ma il titolo ha risentito dell’andamento negativo che ha colpito in Borsa i principali operatori del comparto. Lo sguardo di lungo periodo restituisce però un quadro diverso: negli ultimi dieci anni il titolo Amplifon ha segnato un incremento dell’80% (ieri +0,7% fra i migliori cinque del Ftse Mib), al netto dei dividendi distribuiti, che complessivamente sfiorano i 450 milioni di euro. Nello stesso arco temporale, tra il 2014 e il 2024, il gruppo ha triplicato i ricavi, arrivando a circa 2,4 miliardi di euro.
Il progetto della nuova app è stato sviluppato da Amplifon X, la divisione di ricerca e sviluppo del gruppo. Con sedi a Milano e Napoli, Amplifon X riunisce circa 50 professionisti tra sviluppatori, data analyst e designer, impegnati nella creazione di soluzioni digitali avanzate per l’audiologia. L’Intelligenza artificiale rappresenta uno dei pilastri di questa strategia, applicata non solo alla diagnosi e al supporto al paziente, ma anche alla gestione delle esigenze quotidiane legate all’uso degli apparecchi acustici.
Accanto alla tecnologia, resta centrale il ruolo degli audioprotesisti, figure chiave per Amplifon. Le competenze tecniche ed empatiche degli specialisti della salute dell’udito continuano a essere considerate un elemento insostituibile del modello di servizio, con il digitale pensato come strumento di supporto e integrazione, non come sostituzione del rapporto umano.
Fondato a Milano nel 1950, il gruppo Amplifon opera oggi in 26 Paesi con oltre 10.000 centri audiologici, impiegando più di 20.000 persone. La prevenzione e l’assistenza rappresentano i cardini della strategia industriale, e la nuova Amplifon App si inserisce in questa visione come leva per ampliare l’accesso ai servizi e rafforzare la relazione con i pazienti lungo tutto il ciclo di cura.
Il rilascio della nuova applicazione è avvenuto in modo progressivo. Dopo il debutto in Francia, Nuova Zelanda, Portogallo e Stati Uniti, la app è stata estesa ad Australia, Belgio, Germania, Italia, Olanda, Regno Unito, Spagna e Svizzera, con l’obiettivo di garantire un’esperienza digitale omogenea nei principali mercati del gruppo.
Ma l’innovazione digitale di Amplifon non si ferma all’app. Negli ultimi anni il gruppo ha sviluppato soluzioni come gli audiometri digitali OtoPad e OtoKiosk, certificati Ce e Fda, e i nuovi apparecchi Ampli-Mini Ai, miniaturizzati, ricaricabili e in grado di adattarsi in tempo reale all’ambiente sonoro. Entro la fine del 2025 è inoltre previsto il lancio in Cina di Amplifon Product Experience (Ape), la linea di prodotti a marchio Amplifon già introdotta in Argentina e Cile e oggi presente in 15 dei 26 Paesi in cui il gruppo opera.
Già per Natale il gruppo aveva lanciato la speciale campagna globale The Wish (Il regalo perfetto) Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, oggi nel mondo circa 1,5 miliardi di persone convivono con una forma di perdita uditiva (o ipoacusia) e il loro numero è destinato a salire a 2,5 miliardi nel 2050.
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