2021-08-05
A Pennacchi devo l’amore e questo romanzo
Un giorno mi chiamò senza preavviso e mi fu subito simpatico perché mi disse: «Sei proprio bravo». Ma c’era un «però». Voleva che tornassi con la donna di cui parlavo nei miei libri. E che scrivessi «qualcosa di ambizioso». Pensai: «È fulminato». Invece...Il ruolo di Antonio Pennacchi nella storia della mia famigliaUn pomeriggio di una decina di anni fa ero nella mia cucina di Casalecchio di Reno, che è la stanza più grande di casa mia, quella dove lavoro, e mi è suonato il telefono, ho preso su, mi ha risposto una voce che ha detto: «Buongiorno, sono Antonio Pennacchi». «Oh, buongiorno» gli ho detto io. Avevo letto alcuni dei suoi romanzi e avevo visto la presentazione di un numero di Limes in una libreria di Bologna, presentazione nel corso della quale Pennacchi aveva litigato con uno scrittore bolognese e mi era rimasto molto simpatico, ma non ci eravamo mai conosciuti, e mi sembrava stranissimo, che mi telefonasse. Io, poi, un po’ sono io, che non sono tanto pratico, con il telefono, forse perché, quand’ero un ragazzo, non ce l’avevamo; eravamo una delle poche famiglie che non avevano il telefono, e poi, quando l’abbiamo preso, che io avevo ventidue anni, sono andato in Algeria a lavorare, e ho lavorato un anno e mezzo in Algeria, poi sono andato in Iraq, a lavorare, e ho lavorato un anno e mezzo in Iraq, e poi, quando sono tornato in Italia, mi sono iscritto all’università e la gente ha cominciato a telefonarmi e io, mi ricordo una mia amica che mi aveva telefonato, la prima volta che mi telefonava, e io le ho chiesto, «Cosa vuoi?», e lei, subito non mi ha detto niente, ma poi ha detto a un’altra nostra amica che io ero proprio maleducato, al telefono, e secondo me aveva ragione, e non c’entra il fatto che non abbiamo avuto il telefono per tanto tempo. Perché la Battaglia, la figlia mia e di Togliatti, delle volte quando le telefono mi chiede «Cosa vuoi?», e lei il telefono in casa ce l’ha avuto fin da quando era piccola, non c’entra avere o non avere il telefono, è un fatto di razza, anche se le razze, come sappiamo, non esistono. Ma non divaghiamo. Non divaghiamoAllora ero lì, una decina di anni fa, nel mio appartamento, suona il telefono, prendo su, è una voce che dice: «Buongiorno, sono Antonio Pennacchi». Io mi alzo, «Oh, buongiorno», gli dico, e mi metto a camminare (io, quando telefono, mi piace camminare). E lui mi dice che, insomma, ha letto dei romanzi che ho scritto e che son proprio bravo, secondo lui. E io penso che mai nessuno, degli scrittori che non conoscevo, mi aveva mai telefonato per dirmi che ero proprio bravo, e che avevo ragione, a pensare che Pennacchi era simpatico, anzi, ho pensato, è simpaticissimo.Che un po’ è vero un po’ è una mia debolezza: tutti quelli a cui piacciono i miei libri e che pensano che io son proprio bravo son della gente che mi sembrano simpaticissimi (anche voi che leggete questo libro, se doveste trovare che il libro non vi dispiace e che io, dopotutto, son proprio bravo, se mai avremo l’occasione di incontrarci, anche per caso, nel vasto mondo, se mi fermaste e mi diceste, come mi ha detto Pennacchi, «Nori, vorrei dirti una cosa, che sei proprio bravo», be’, io penserei che siete simpaticissimi, o simpaticissime, a seconda del caso).Poi Pennacchi è andato avanti e mi ha detto «Però» e io ho pensato «Lo sapevo che c’era un però», «Però», ha detto Pennacchi, «devo dirti una cosa». «Dimmi» gli ho detto io. «Tu adesso vai da Togliatti, ti metti in ginocchio le dici: Togliatti, perdonami è tutta colpa mia torniamo insieme, per cortesia.»Che lì, quel periodo lì in cui mi ha telefonato Pennacchi, io erano tipo sei anni che con Togliatti ci eravam separati, ma avendo Pennacchi letto i libri nei quali io parlavo di Togliatti, sia i libri in cui di Togliatti mi innamoravo, che i libri in cui con Togliatti ci vivevo, che il libro in cui poi da Togliatti mi separavo, allora Pennacchi, che conosce il mondo e gli uomini, ha tratto una sua conclusione che io dovevo andar da Togliatti mettermi in ginocchio dirle «È tutta colpa mia torniamo insieme, per cortesia». Che quello era un periodo che io vedevo un’altra persona, ma da degli anni, che stavo anche abbastanza bene, che Pennacchi non lo sapeva e io, quando mi aveva detto di andare da Togliatti mettermi in ginocchio eccetera eccetera io ho pensato «Ah, ma pensa, mi sembra un po’ difficile, ma ci penso», e intanto tra me e me mi dicevo «Va be’, Pennacchi, ha anche una certa età, è proprio fulminato». Dopo Pennacchi mi ha detto che io, secondo lui, dovevo fare anche dei libri un po’ più impegnativi, con degli editori un po’ più impegnativi, e io gli ho detto «Ah, ma pensa, ci penso», e intanto pensavo «Sì sì, certo certo». Dopo, qualche anno dopo, nel 2013, mi è successa una cosa strana che, dire che me la ricordo, non me la ricordo. Ero a Bologna, su via Porrettana, verso sera, mi son svegliato poi qualche giorno dopo in un letto dell’Ospedale maggiore dove mi han raccontato che ero stato investito da un motorino e mi avevano ricoverato con un trauma cranico e mi avevano tenuto in coma farmacologico per qualche giorno e non sembravano esserci conseguenze serissime ma il trauma cranico, comunque, era una cosa da non prendere alla leggera, mi tenevano lì ancora qualche giorno poi mi lasciavano andare. Tre settimane, in tutto, in camera con un signore che gli era entrato un palo in testa e che non capiva più niente, ma aveva gli occhi aperti, e c’erano dei suoi amici che lo andavano a trovare e gli portavano dei regali, un uovo di Pasqua, e gli parlavano, e lui non sentiva, e non faceva neanche una piega, e quell’uovo di Pasqua, sul davanzale, a prender la polvere, io quell’uovo di Pasqua non me lo dimentico più finché scampo, ma questo non c’entra. Quello che c’entra è che prima, mentre dormivo, tre giorni dopo il mio incidente, non so come, un’agenzia di stampa ha dato notizia del fatto che io, praticamente, ero morto, e lì, quello lì, è stato il momento, nella mia vita, che ho raggiunto il picco di popolarità, la notizia della mia morte è stata la notizia che mi riguardava più diffusa dagli organi di stampa italiani, e io devo dire che è stato interessantissimo, essere morto, quando, in ospedale, ho saputo di esserlo (o, perlomeno, di esserlo stato). Una volta uscito, poi, dall’ospedale, un giorno Togliatti mi ha telefonato, mi ha detto che doveva vedermi. Allora io ho detto che andava bene e ci siamo visti, ci penso adesso per la prima volta, nel punto esatto dove avevo fatto l’incidente. Non è stata una cosa premeditata, è andata così. E niente. In ospedale, quando dormivo, c’era quasi sempre qualcuno, con me, lei, Togliatti, la ragazza che vedevo allora o mia mamma, e la prima volta che mi sono svegliato, in ospedale, la persona che c’era con me era lei, Togliatti, e io l’ho guardata, e le ho detto che le volevo bene e che fare la Battaglia, che è nostra figlia, è stata la cosa più bella che ho fatto nella mia vita. «E io» mi ha detto lei, «che in questi anni che siamo stati separati ti ho sempre considerato come una funzione, il babbo della Battaglia, non come una persona, adesso io, da quella frase lì, ho ricominciato a vederti come una persona» mi ha detto lei, e poi mi ha detto anche delle altre cose sue togliattesche un po’ spiacevoli, ma perché lei è fatta così, per bilanciare la piacevolezza delle cose che le era toccato di dirmi. E niente.Dopo, è stato un processo lento, però due anni dopo, io e Togliatti, non so come dire, siam tornati insieme. Faccio fatica a dire che siamo tornati insieme perché abitiamo ancora in due case diverse, però, non so come dire, siam tornati insieme. E io ho pensato «Ma Pennacchi. Chi l’avrebbe mai detto». E con Pennacchi ci siamo poi visti, qualche volta, e ci siam parlati, e lo sono andato a trovare a Latina, e lui, tutte le volte, mi diceva «Tu però dovresti fare qualcosa di più ambizioso», e io, devo dire, questo romanzo su Dostoevskij, che io lo chiamo romanzo senza essere sicuro che sia un romanzo, se non ci fosse stato Pennacchi forse non l’avrei mai scritto.
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
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