2020-10-23
A noi vegetariani la moda vegana dell’hamburger risulta indigeribile
Non mangio carne da 32 anni, ma non assillo gli altri cercando di darmi un tono con il mio «stile di vita». Per questo insisto nel chiamare le cose con il loro nome e a non pensare che (quasi) ogni cibo fa male.Scrivo da un paese che non esiste più: quello dei vegetariani. Spazzato via da una montagna di stupidaggini, isterie, sudditanze psicologiche e culturali, proselitismi inutilmente molesti. Mentre alle mie spalle cuoce un cavolfiore, acquistato al mercato da un sedicente contadino di Santena, dov'è sepolto Camillo Benso conte di Cavour, leggo la pubblicità di Assocarni contro gli hamburger veg e mi rendo conto che anche un certo modo di essere vegetariani è morto e sepolto. Da un lato, è giusto che ognuno sia almeno padrone del proprio colon, sia tenue che grasso. Dall'altro, da persona che non tocca un pezzo di carne da 32 anni, ammetto che preferisco cenare con un cannibale che avere a fianco (...) un vegano. Anzi, per dirla tutta, una vegana di età compresa tra i 29 e i 39 anni. E spiegherò il perché di questa mia precisa e colpevole discriminazione, anche sessista. Ma prima è giusto partire dalla cronaca di questi giorni e dalla disfida del famoso hamburger senza carne. Il parlamento europeo è chiamato a votare sulla possibilità di continuare a chiamare «hamburger» o «salsicce» delle robe fatte di ogni pastrocchio vegetale meno che carne suina, ovina, bovina o di pollo. La Corte di Giustizia Ue, per altro, ha già vietato l'uso del negazionismo da scaffale come le etichette «latte di soia» o «formaggio verde». E in questi giorni di lobbismo frenetico è apparso anche qua e là anche un manifesto di Assocarni, bisogna ammettere geniale, che si limita a contrapporre gli ingredienti di un hamburger vero (carne bovina, mezza riga) con quelli delle analoghe polpettine senza carne (otto righe, dall'isolato proteico di piselli alla fibra di bamboo). Lo slogan è semplice e diretto: «Nessuno chiamerebbe questo: insalata di manzo», c'è scritto sopra la foto di un hamburger crudo. E «allora perché chiamiamo questo: hamburger vegano?». Questa volta hanno ragione loro, gli spacciatori di carcasse animali e i cultori della frollatura, i responsabili dei vostri odori e sudori così diversi dai nostri. Bisogna chiamare le cose con il loro nome. Usare le parole in modo bugiardo crea problemi in ogni campo e a ogni livello. Ci sono i licenziati, non gli «esuberi». I presidenti di Regione e non i «governatori». Gli sconti e non le «offerte esclusive». Le missioni militari e non le «guerre umanitarie». I morti sul lavoro e non le «morti bianche». E i matrimoni tra persone dello stesso sesso vanno chiamati matrimoni omosessuali e non «unioni civili» (le altre sono incivili?). Poi, certo, anche a me capita di ordinare qualche hamburger veggie, quando sono fuori casa o non sono potuto andare al mercato. Anzi, dirò di più, visto che non riuscivo a ingurgitare montagne di legumi ogni santo giorno (ricordatevi voi, ogni mattina, di mettere a bagno ceci e lenticchie) e che a un certo punto avevo anche gli esami un po' sballati, una decina di anni fa ho reintrodotto il pesce un paio di volte a settimana. Così continuo impunemente a non mangiare carne. Ma certo, non posso più dirmi «vegetariano» che, vi assicuro, trent'anni fa faceva molto figo e poteva anche aiutare a rimorchiare. Ero così contento di non far più parte di nessuna categoria, quando una sera, a tradimento, una ragazza veg dura e pura, con tendenze crudiste sulle quali non mi soffermerò, mi ha etichettato a dovere: «Ma certo, sei un veg-pesc». A casa ho controllato: su Internet ed esistono centinaia di ricette per noi veg-pesc. Per uno cresciuto nella patria del bollito e del brasato, e sopravvissuto non senza qualche difficoltà alla greve cucina romana come a quella americana (grazie libanesi!), è bello sapere che potrò sempre farmi una lasagna di cardo gobbo e trota fumè. Perché diciamolo, noi «very cool veg-pesc» non ci sporchiamo le mani con l'amido di patata e l'acido succinico. Ovviamente non dirò mai perché da 32 anni non mangio carne, salvo precisare che non è un voto, ma una scelta precisa. Indosso impunemente cinture di pelle e, da vero vigliacco, quando mangio un polpo in insalata cerco di non pensare a quanto sono simpatici e intelligenti i cefalopodi, e a come li ammazzano sbatacchiandoli a morte sugli scogli. Semplicemente, non carico su di me il male del mondo, almeno a tavola.Ho imparato a non dire perché rifiuto la carne, con una disciplina ben più ferrea del mio regime alimentare, perché non trovo educato rovinare la cena agli altri, specie se stanno mangiando gli agnolotti al sugo di arrosto. Ma quanta delusione, in centinaia di brunch, cene e feste varie, quando mi limito a dire che non ho motivazioni religiose, filosofiche o ideologiche. La mia persona perde immediatamente d'interesse. Non sei più un mezzo eroe, uno colto, anzi coltivato, ma cala su di me il sospetto di essere un orrendo salutista. Almeno fino a quando arrivano i dolci. La triste condizione di veg-pesc a mia insaputa è notevolmente peggiorata con l'ingresso sulla scena dei vegani. Innanzitutto, quando vedono che non mangi carne, ti chiedono subito se sei vegano, che è come dare del comunista a un anarchico. Se invece a fare la domanda è un vegano, ansioso di scambiare esperienze di vita e segreti medico-scientifici sulla barbietola cruda con aria vagamente cospirativa, allora bisogna solo scappare. Perché il vegano medio te la conta su, ti spiega il mondo, ha uno «stile di vita» anche quando non ha alcuno stile, ti deve convincere che devi fare come lui, che vivi nell'errore e che tutto (o quasi) fa male. E come tutti gli esaltati non ha senso dell'umorismo. Specie se è donna e trentenne, almeno nelle mie personali rilevazioni semplicistiche e artigianali, delle quali ovviamente mi scuso profondamente in anticipo. Perché essere vegano fa figo, dà qualcosa di cui parlare (il cibo, complimenti!) a chi forse non ha altro di cui parlare e cose più importanti per cui combattere. Ora, sorvoliamo sui vegani che impongono le proprie scelte un po' estreme a bambini che, appena fuori di casa, si rimpinzeranno di wurstel e bistecche, e andiamo al punto fondamentale: come si atterra una vegana da party? È molto semplice. Io di solito faccio così e me la cavo sempre. Quando la panciapiattista di turno mi chiede da quanto tempo sono vegetariano, rispondo: «Trentadue anni. Sai, ormai sono un signore di una certa età», come amava dire il grande Giampaolo Pansa quando stava per metterti a posto. E poi basta chiedere, semplicemente, «tu, invece, da quanto sei vegana?». La risposta media è «da Natale scorso», fino a un massimo di due anni. Ecco, forse mi sbaglio, ma ho sempre la sensazione che il vegano che ti fa la predica sia andato da McDonald's fino a poche settimane prima e che presto ci tornerà, passata la moda. Però intanto spiega il mondo a me, che non tocco una fettina dai tempi della Thatcher e dei Righeira. Per carità, facciano come vogliono, ma perché noi che per mille motivi non mangiamo carne non dobbiamo avere l'ambizione e l'onestà di cucinare piatti originali e non contraffatti? Se non ci metti il latte, non si chiama budino. Se non ci metti la carne, non è né ragù né hamburger. Se non usi le uova, non è frittata. Ma perché dobbiamo fregare la gente, dopo avergli anche fatto anche la lezioncina?