2021-02-04
A lezione dalla Dunn signora della boxe che insegna a vivere a suon di pugni
Mike Tyson (Focus on Sport via Getty Images). Nel riquadro, Katherine Dunn
La scrittrice e cronista di incontri di pugilato manda al tappeto le femministe che straparlano di violenza e mascolinità tossica. Senza Katherine Dunn, probabilmente, non avremmo mai avuto il Fight Club. La prosa di questa scrittrice americana, in Italia, è sostanzialmente sconosciuta ai più. Anni fa l'editore Elliot pubblicò un suo bellissimo romanzo intitolandolo ma non ebbe grande fortuna e oggi quel libro è di non facile reperibilità. Più noto, forse, è il nome di questa strabiliante autrice, almeno per un motivo: viene costantemente citata da un romanziere famosissimo che si chiama Chuck Palahniuk. Quest'ultimo è un fan sfegatato della Dunn, ha appreso da lei molti trucchi del mestiere, l'ha adorata come una divinità anche perché è cresciuto nella sua stessa città, ovvero Portland, nell'Oregon. Palahniuk ha raccontato la storia di uomini che amano fare a botte in oscuri seminterrati o in parcheggi male illuminati, dando così sfogo alle loro frustrazioni generazionali. La Dunn - e non è una differenza da poco - racconta di uomini che se le danno di santa ragione mentre la luce dei riflettori si riflette sui loro corpi sudati. La nostra, infatti, oltre che strepitosa scrittrice, è stata anche straordinaria cronista di boxe, e i suoi migliori articoli formano un volume intitolato Il circo del ring (66th A2nd), appena arrivato nelle librerie italiane. Il tomo stupisce non tanto per il tema trattato: anche altre autrici si sono cimentate con il pugilato, a partire dalla grande Joyce Carol Oates. A sorprendere è piuttosto il contenuto del libro. Dalla boxe, infatti, la Dunn apprende fondamentali lezioni di vita, e le trasmette al pubblico, maschile o femminile che sia. Il suo testo è una cronaca coinvolgente, certo, ma è pure un tentativo di filosofia del combattimento. Per questo si distingue dalla gran parte delle opere in circolazione. Katherine, morta nel 2016, non si può definire semplicemente una femminista. Però ha sempre avuto a cuore l'indipendenza e la dignità delle donne. È difficile sintetizzare le sue posizioni politiche, ma di certo non si possono definire conservatrici. Eppure eccola qui, a raccontare la violenza, la brutalità, il sudore, i cazzotti. Di questi tempi è molto facile trovare scrittrici o intellettuali pronte a discettare della «mascolinità tossica», pronte a deprecare la «violenza maschile» e a indicarla come origine di ogni male del mondo. Molto più raro è trovare qualcuno che colga il senso profondo delle arti marziali, dello scontro anche fisico. «La boxe è semplice» , scrive la Dunn. «Due volontari disarmati, che si equivalgono a livello di peso ed esperienza, si affrontano su un quadrato illuminato da luci bianche. È una crisi ritualizzata, autentica ma controllata. Nella sua massima espressione un incontro diventa teatro d'improvvisazione e i pugili sono artisti guerrieri. Se la perfezione non viene raggiunta, il che capita quasi sempre, a intrigare di per sé sono le disavventure. Che siano sconvolgenti o ridicoli, passando per tutte le vie di mezzo, non esistono due incontri identici. Ciò che accade sul famigerato ring, e intorno a esso, è un potente distillato di umanità». A questo distillato Katherine si appassionò grazie all'ex marito. Una sera lui le chiese di guardare un incontro e di fargliene una sintesi quando fosse rientrato dal lavoro. Lei accese la tv, si mise a prendere appunti e in un soffio era diventata una perfetta narratrice sportiva, capace di svelare ogni segreto di Sugar Ray Leonard o Mike Tyson. «All'epoca in cui cominciai il lavoro al giornale», dice ancora la Dunn, «il pugilato era noto per essere “l'ultimo baluardo maschile", e immaginavo che per una donna scriverne fosse un'impresa azzardata, difficile quasi quanto insegnare la samba ai cobra o farsi sparare in aria da un cannone tre volte al giorno. Ben presto, però, la mia vanità venne demolita pezzo dopo pezzo dagli appassionati di boxe, ai quali, fintanto che facevo il mio lavoro, non importava niente che fossi una donna, un uomo o un babbuino dal sedere rosso». Ecco una prima lezione: la boxe è «inclusiva». Non fa distinzioni di sesso, razza, classe. Sul ring, alla fine dei conti, tutti sono uguali. E qui arriva la seconda e più grande lezione: quello che conta è la fatica, l'allenamento. È una verità antica, questa. Platone, ad esempio, discuteva di filosofia in un ginnasio, in una palestra. Prima la lotta, lo scontro fisico; poi il dialogo, una prosecuzione del combattimento con altri mezzi. Il filosofo francese Pierre Hadot insegna che la filosofia antica è, in fondo, un esercizio spirituale, un allenamento sfiancante che serve a raggiungere la perfezione della sapienza. La lotta è la controparte corporea. Per gli antichi si è «belli e buoni», nel senso che chi è sano nel pensiero lo è anche nel corpo, e viceversa.«La boxe è pericolosa, e pur avendo molti aspetti in comune con la commedia, è una cosa seria», spiega la Dunn. «Il pugilato non è un gioco, e lo si capisce anche dal verbo che si utilizza per parlarne: non si “gioca" al pugilato, non più di quanto si “giochi" alla corsa, al salto, all'arrampicata o al nuoto, tutte funzioni essenziali della nostra specie. Sono anche attività che eseguiamo per orgoglio e piacere. Sport, sostanzialmente. Che quando viene fatto con intelligenza, abilità e bellezza, diventa arte». Per salire sul ring servono fatica, disciplina. Bisogna imparare a gestire la paura. È inevitabile prendersi dei rischi. E, ovviamente, tocca fare i conti con la violenza. La nostra società da anni tenta di sopprimere tutto ciò: paura, fatica, rischio. I racconti di Katherine ci mostrano, invece, che sono proprio queste cose a renderci umani. Anzi, a renderci uomini e donne migliori, se abbiamo il fegato di affrontarle. La «scuola della boxe», come la chiama la Dunn, insegna a misurarsi con il lato in ombra dell'esistenza, a tenere la guardia alta per uscire vincitori dallo scontro. Anche se proviamo a nasconderla, la faccia oscura torna sempre fuori: dobbiamo solo scegliere se avere fegato e combattere sul ring o abbandonarci al terrore e lasciare che, fuori, domini il Fight Club.
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