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Ci sono due guerre civili ma la retorica del 25 aprile dimentica quella rossa

Ci sono due guerre civili ma la retorica del 25 aprile dimentica quella rossa
ANSA

Il mio primo 25 aprile l'ho festeggiato quando avevo quasi dieci anni. Stavo seduto sul gradino della modisteria di mia madre Gioanna e vidi passare tra due ali di folla una jeep americana. Era un piccolo veicolo agile, tutto verde, e trasportava una sola persona: un tizio che si faceva notare per due cose. Portava un basco nero e aveva un paio di baffi orgogliosi che anche negli anni Quaranta non tutti possedevano.

Quella sera Ernesto mi spiegò chi era il passeggero della jeep: un famoso comandante partigiano che nella valle del Po aveva fondato e guidato una divisione delle Garibaldi. Si chiamava Pompeo Colajanni, era siciliano, nato nel 1906. Chiamato alle armi dal regio esercito, aveva combattuto nel Nizza Cavalleria, lo diceva il basco nero. Da partigiano aveva scelto come nome di battaglia quello di Barbato. In onore del medico Nicola Barbato, un protagonista del movimento dei fasci siciliani.

Con il trascorrere degli anni, Barbato e io diventammo amici. Quando andavo a Palermo, per decisione di uno dei tanti direttori che mi avevano voluto come inviato speciale, passavo sempre a trovarlo, di solito nella reggia dell'Assemblea regionale siciliana dove aveva il suo ufficio di vicepresidente. Mi ordinava: «Pansa, lascia perdere questo palazzo e tutte le porcherie che contiene. Ma parlami di quando mi hai visto da ragazzino e credevi che fossi Porthos, uno dei moschettieri…».

La prima volta che lo incontrai a Palermo gli chiesi come mai era venuto nella nostra città. Lui mi spiegò: «Nella mia banda avevo anche qualche ragazzo di Casale. Sono loro che mi hanno imposto quella parata. Si erano procurati una jeep e decisero che avrei attraversato il centro a passo d'uomo. Potevo dirgli di no? Nella guerra partigiana avevo messo a rischio la loro vita. Quanto mi domandavano era il minimo che potessi fare per loro!».

Alla fine della guerra partigiana, Barbato aveva 39 anni e campò sino a farne 81. Aveva uno studio da avvocato e per una legislatura fu anche eletto deputato del Pci nel collegio di Torino. Ma per me rimase sempre il Porthos del mio primo 25 aprile. A proposito di quelli successivi ho scritto molto, anche quando non mi piacevano per l'asprezza e spesso la violenza che sprigionavano. Ne citerò un solo episodio: quello che nel 2006 vide gli antenati dei centri sociali di oggi comportarsi in modo brutale con l'allora candidata sindaca di Milano, Letizia Moratti, ministro dell'Istruzione.

Quale peccato aveva commesso la signora Moratti? Voleva soltanto avvicinare al palco della cerimonia antifascista il proprio padre seduto su una carrozzella. E quale colpa aveva commesso quel signore? Aveva combattuto nella Resistenza in una organizzazione non comunista, quella guidata da Edgardo Sogno, un altro meraviglioso irregolare nel mare tempestoso delle bande rosse. Catturato dai tedeschi, era stato deportato in un campo di sterminio in Germania e ne era uscito per miracolo.

Il mio disinteresse per il 25 aprile è cresciuto anno dopo anno, mentre riflettevo da revisionista sulla nostra guerra civile. Arrivando a una conclusione che a qualche lettore del Bestiario non piacerà. Quella che l'Italia non ha visto un solo conflitto interno, bensì due. La prima guerra è stata quella che viene celebrata ogni anno. I vincitori sono i partigiani. I vinti sono i fascisti della Repubblica sociale e i militari tedeschi che combattevano per Hitler.

Ma una volta chiusi questi conti, è emersa un'altra guerra civile anch'essa cattiva. Tutta interna al campo antifascista. Bande di partigiani comunisti hanno cominciato a uccidere chi si opponeva alla nascita di una dittatura non più nera, ma rossa. Un regime che aveva un obiettivo: fare dell'Italia una nazione soggetta a un partito unico e autoritario, da mettere agli ordini dell'Unione sovietica.

Non è un'invenzione del Bestiario. È una verità storica, piena di sangue, di crudeltà, di morti ammazzati, di falsità spacciate per verità. Nei miei tanti lavori revisionisti ho raccontato molte di queste storie. Meritandomi una sfilza di ingiurie, di attacchi personali, di minacce. Le ricordo con allegria e con fierezza. Se tu hai il coraggio di dare del cornuto al bue, devi andarne fiero. Perché anche nel racconto storico i punti di vista possono essere diversi, ma alla fine della fiera la verità che si impone è una sola.

Con la saggezza un po' scriteriata dell'ottantenne che ha avuto già tanto dalla vita, oggi sento il dovere di ringraziare un leader politico per il quale non ho mai votato: Alcide De Gasperi. Il 18 aprile 1948, trionfando in una battaglia elettorale decisiva per la democrazia italiana, ha tagliato le gambe alla seconda guerra civile. Se avesse vinto il Fronte popolare dei comunisti e dei socialisti, oggi non starei di certo a scrivere questo Bestiario per un giornale che si chiama La Verità.

Anche la narrazione della nostra guerra civile ha bisogno di un po' di verità. Non è certo quella che verrà sbandierata in questi giorni. A cominciare dall'Anpi, l'associazione nazionale dei partigiani, un sodalizio di estrema sinistra che ritiene il revisionismo un demonio impossibile da esorcizzare. State bene attenti alle tante parole che in questi giorni verranno ripetute dai giornaloni, dai telegiornali ipocriti, da politici di ogni risma che tenteranno di nascondere la loro pericolosa debolezza dietro una nebbia che sa di stantio, di viltà, di bugie ripetute sino alla nausea.

Ma esiste un modo per difendersi da tutto questo pattume. È di ricordare un vecchio signore scomparso, il grande De Gasperi. Ho la fortuna di averlo visto davvero poco prima del 18 aprile 1948. Arrivò nella mia città dopo aver incontrato il ministro degli Esteri francese: George Bidault. Veniva dal santuario di Crea, quello della Madonna nera, che il fumo delle tante candele votive aveva trasformato in una migrante scagliata in casa nostra da un paese sub sahariano e condotta sino a quella collina benedetta.

Bidault aveva garantito a De Gasperi che se il Fronte popolare avesse vinto il 18 aprile, la Francia avrebbe dato asilo politico a tutti i democristiani che non potevano più vivere in una Italia diventata rossa. Il vecchio Alcide si era messo tranquillo. E il suo discorso in piazza del Cavallo fu telegrafico: «Non andare a votare è un delitto. Votare male è una viltà».

Eccovi serviti, lettori del Bestiario. Qualcuno di voi mi replicherà: caro Pansa, lei il 4 marzo 2018 non è andato a votare, come la mettiamo con l'appello di De Gasperi? Nel modo più semplice: non sono andato alla mia sezione elettorale perché sapevo che avrei comunque votato male. Contenti?

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«Ho provato anch’io un “Truman Show”»
Giovanna Rei (Getty Images)
L’attrice napoletana Giovanna Rei: «Ne “Il Protagonista” facevo credere a un ragazzo di amarlo, ho vissuto una vita fittizia per un mese Fu uno scherzo terribile. Carlo Vanzina ha cambiato la mia esistenza, al suo funerale ho pianto come a quello di mio nonno»

Giovanna Rei è un’attrice che ha conosciuto la grande notorietà, senza inseguirla, spesso quasi per caso, ma non hai mai avuto paura di fare un passo indietro pur di difendere se stessa e la sua vita. È appena apparsa nella serie tv Noi del Rione Sanità di Luca Miniero, trasmessa da Rai 1 con ottimi riscontri di pubblico. Una buona occasione per fare il punto sulla sua carriera.

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Il Gourmet Bus porta in giro le eccellenze della nostra tradizione culinaria. A bordo nella sosta romana il ministro Santanchè: «Noi meglio dei francesi, ma siamo disuniti».

Se pochi giorni fa qualcuno avesse sottovalutato lo storico riconoscimento che l’Unesco ha accordato alla cucina italiana, da quest’anno patrimonio culturale immateriale globale, è il ministro del Turismo Daniela Santanchè, a bordo del Gourmet Bus, a spiegare cosa significhi: «Non è soltanto una questione di immagine, che pur è importante, ma di numeri, perché aiuta e fa crescere il valore delle nostre aziende, dei nostri ristoratori e si traduce in posti di lavoro stabili. Nel settore del turismo abbiamo ancora molti lavoratori stagionali che vorremmo stabilizzati. Grazie a riconoscimenti come questo potranno lavorare di più, anche 12 mesi l’anno». Non solo: secondo le associazioni di settore il titolo riconosciuto dall’Unesco potrà determinare nell’arco di due anni un incremento dei flussi turistici fino all’8%, pari a circa 18 milioni di pernottamenti aggiuntivi.

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Bottiglie di spumante a rischio col regolamento Ue sugli imballaggi
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Per il consorzio del riciclo, le norme in discussione penalizzano i contenitori di vetro scuro e spesso, tipici ad esempio del Prosecco e fondamentali per il metodo classico. Un regalo agli Stati del Nord, senza vino.

Messaggio in bottiglia da Bruxelles: per boicottare il vino ci occupiamo del vetro, così come suggerito dai tedeschi. Cancellare le bottiglie scure in vetro pesante vuol dire impedire che in Europa si producano spumanti, a cominciare dallo Champagne, e olio extravergine di oliva. Vuol dire sottrarre all’Ue un ammontare di esportazioni che vale circa 11 miliardi (8 dagli spumanti, 3 dall’extravergine). Tutto perché nella nuova direttiva sugli imballaggi, figlia del Green deal (che è durissimo a morire), c’è scritto: «Entro il 2030 un imballaggio o una bottiglia costituiti per più del 30% del proprio peso da materiale non riciclabile non può più essere messo in commercio». È il seguito del regolamento sugli imballaggi che si pensava fosse stato accantonato: prevede che il vuoto a perdere sia riciclato al 90%, però si continua a discutere se debba invece essere del tutto abolito (si fa fatica a pensare che uno vada - tanto per restare nel vino - a Beaune a farsi rabboccare La Tâche o da Antinori a chiedere di fare il pieno di Solaia), e ancora se debbano andare fuori commercio le bottiglie che pesano più di 700 grammi.

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«Porterò in Senato il caso di Andrea, ferito dai rapinatori e mai risarcito»
Maurizio Gasparri (Ansa)
Maurizio Gasparri: «Sono gravemente indignato. Lui e i suoi genitori meritano la tutela negata dalle lungaggini della burocrazia».

Fuori è già Natale. Ma dentro la casa della famiglia Furlan, a Padova, non ci sono addobbi. L’ultima volta che mamma Cristina e papà Fabiano hanno fatto l’albero era il 2013. Pochi giorni dopo, la sera del 14 dicembre, un bandito entra in un supermercato e spara a suo figlio Andrea, allora ventitreenne, assunto al Prix Quality Spa di Albignasego da appena due mesi.

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