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2021-07-02
Per il centenario del Partito comunista Xi si fa un regalo: «Schiaccerò Taiwan»
Getty Images
Pechino mostra i denti. Ieri, in occasione delle celebrazioni per i 100 anni del Partito comunista cinese, Xi Jinping ha tenuto un discorso, volto a compattare internamente la Repubblica popolare e a lanciare minacciosi avvertimenti verso l'esterno. L'evento è stato particolarmente significativo dal punto di vista simbolico. Da una parte, il presidente cinese ha indossato il classico camiciotto grigio alla Mao Zedong: non è la prima volta che Xi Jinping si rifà all'eredità politica ed ideologica del Grande timoniere. Un'eredità che, in questi anni di governo, l'attuale presidente ha spesso e volentieri ripreso ed enfatizzato. Una linea che non evoca soltanto l'autoritarismo dottrinale di Mao, ma che punta, soprattutto con il discorso di ieri, a una sorta di identificazione tra i due leader. Xi ha del resto sempre visto proprio nel lascito maoista lo strumento necessario non solo per incrementare la capillarità e la centralizzazione del proprio potere ma anche per cercare di impedire che la Repubblica popolare possa finire col seguire la sorte dell'Unione sovietica.
Dall'altra parte, va anche sottolineato che l'evento si sia tenuto davanti a una folla di 70.000 persone (o meglio dire, comparse) presenti in Piazza Tienanmen: un luogo che richiama alla memoria la sanguinosa repressione del 1989. Una repressione che sottopose la Repubblica popolare a una fortissima pressione internazionale: pressione che irritò non poco la leadership cinese di allora.
In questo quadro, Xi Jinping ha innanzitutto rivendicato la tradizione storica del Partito comunista cinese. «Negli ultimi 100 anni, il partito ha unito e guidato il popolo cinese nello scrivere il capitolo più magnifico della storia millenaria della nazione cinese, incarnando lo spirito intrepido espresso da Mao Zedong», ha dichiarato. «Dobbiamo sostenere la ferma direzione del partito. Il successo della Cina dipende dal partito. Gli oltre 180 anni di storia moderna della nazione cinese, i 100 anni di storia del partito e gli oltre 70 anni di storia della Repubblica popolare cinese forniscono tutti ampie prove che senza il Partito comunista cinese, non ci sarebbe una nuova Cina e nessun ringiovanimento nazionale. Il partito è stato scelto dalla storia e dal popolo», ha aggiunto, per poi ribadire la fedeltà ai principi del marxismo, definito come ideologia «fondamentale».
Il presidente è quindi passato ai messaggi rivolti verso l'esterno. Pur asserendo che la Cina sia favorevole alla pace, la sua retorica ha assunto tratti non poco minacciosi. «Noi cinesi», ha dichiarato, «siamo un popolo che difende la giustizia e non si lascia intimidire dalle minacce della forza. Come nazione, abbiamo un forte senso di orgoglio e fiducia. Non abbiamo mai maltrattato, oppresso o soggiogato la gente di nessun altro Paese, e mai lo faremo». «Allo stesso modo», ha proseguito, «non permetteremo mai a nessuna forza straniera di prevaricarci, opprimerci o soggiogarci. Chiunque tenti di farlo si schiaccerebbe la testa e verserebbe il suo sangue contro una muraglia d'acciaio forgiata da un miliardo e 400 milioni di cinesi». Il senso di rivalsa verso l'oppressione straniera è del resto un vecchio topos del Partito comunista cinese.
Tuttavia, è sui dossier di Taiwan e Hong Kong, che il discorso di ieri ha assunto le tinte più allarmanti. «Risolvere la questione di Taiwan e realizzare la completa riunificazione della Cina», ha detto Xi, «è una missione storica e un impegno incrollabile del Partito comunista cinese. Nessuno deve sottovalutare la determinazione, la volontà e la capacità del popolo di riunificare la Cina e di schiacciare i complotti indipendentisti di Taiwan, la questione della sovranità e integrità nazionale sarà risolta».
Parole che mettono evidentemente Pechino in rotta di collisione con Washington, che ha al contrario intenzione di salvaguardare l'autonomia dell'isola. «Rimarremo fedeli alla lettera e allo spirito del principio dell'“un Paese, due sistemi" in base al quale il popolo di Hong Kong amministra Hong Kong e il popolo di Macao amministra Macao, entrambi con un alto grado di autonomia», ha inoltre dichiarato. Un'asserzione, questa, che lascia un po' perplessi, visto quanto sta accadendo a Hong Kong, in cui è di fatto vietato manifestare, vengono chiuse le redazioni e sono condotti arresti contro i giornalisti.
Le celebrazioni del centenario stanno inoltre compattando un asse internazionale che trova proprio in Pechino il proprio baricentro. Il Cremlino ha fatto sapere di non essere preoccupato per l'ascesa della Cina: quello stesso Cremlino che, appena pochi giorni fa, aveva rinnovato il trattato di amicizia sino-russo con Pechino, originariamente siglato nel 2001. Dall'altra parte, congratulazioni per il centenario sono arrivate ieri dal leader nordcoreano Kim Jong-un, che ha biasimato la pressione di «forze ostili» contro il Partito comunista cinese. L'obiettivo di Xi è insomma chiaro: compattamento esterno, minacce ai nemici e mano tesa agli amici.
«Pechino su Taipei si gioca il proprio futuro»
Il discorso di ieri del presidente Xi Jinping trasudava spirito rivoluzionario. Basti pensare che l'ha pronunciato indossando un abito grigio sullo stile di Mao Zedong e dallo stesso podio di piazza Tiananmen dal quale il padre del Partito proclamò la nascita della Repubblica popolare cinese nel 1949. Alcuni esperti hanno messo in luce un aspetto, però: Xi non ha parlato del Grande balzo in avanti, né della Rivoluzione culturale, né di piazza Tienanmen. Ha invece citato Liu Shaoqi, che criticò Mao e lo spodestò durante la Rivoluzione culturale.
Dario Fabbri, consigliere scientifico di Limes, secondo lei Xi è il nuovo Mao?
«Vorrebbe. Si richiama alla tradizione quando gli è utile, un escamotage dialettico per mettersi tra i grandi leader del Paese. Per farlo, ieri ha utilizzato un tono molto retorico, con una tendenza a magnificare eccessiva per gli standard cinesi, più vicina alla tradizione russa».
Uno degli aspetti evidenziati dai media di Stato è l'impegno alla realizzazione della «xiaokang», la «società moderatamente prospera», promettendo ai cittadini una vita economica tranquilla e armoniosa. Sta qui la differenza rispetto a Mao?
«Xi sa di avere a che fare con una Cina diversa. Si è rivolto innanzitutto alla popolazione che vive sulla costa, quella più produttiva e ricca, promettendo di mantenerla nel benessere mentre combatte la povertà nell'entroterra. Sa che una popolazione che si abitua agli agi, che dunque invecchia, non è d'aiuto a chi vuole ascendere all'egemonia».
Perché?
«Pensiamo agli americani che si affacciavano poverissimi, reduci degli anni Trenta, alla Seconda guerra mondiale che proiettò la loro egemonia. Xi è consapevole che una Cina più vecchia e agitata chiede più tranquillità. Altro che morire per Taiwan».
Al tal proposito, Xi ha promesso di completare la «riunificazione» tra Cina e Taiwan e di «schiacciare» qualsiasi tentativo di proclamare l'indipendenza formale dell'isola. Il messaggio era rivolto agli Stati Uniti?
«È dichiarazione indiretta di guerra. Taiwan esiste perché esistono gli Stati Uniti, altrimenti la Cina avrebbe già provato a riprenderla. Va detto, però, che riuscirci non è facile. Xi sa che per la Cina la partita cruciale per la sopravvivenza della visione imperiale si gioca su Taiwan».
Il che sembra suggerire che invece Hong Kong è ormai nelle braccia di Pechino.
«Il rischio che sia così è molto alto. Ormai il principio “Un Paese, due sistemi" che Xi ha detto di difendere non esiste più, basti pensare alla Legge sulla sicurezza nazionale imposta un anno fa. A Hong Kong la Cina fa leva sulla situazione in cui versa la popolazione, ormai assimilabile a quella nei Paesi occidentali: è benestante e piuttosto anziana, di morire per Hong Kong ha poca voglia. Così, mostrando pugno di ferro, Pechino è riuscita laddove con popolazione più giovane o più disposto a battersi (per esempio gli uiguri), avrebbe avuto più problemi».
Ma il discorso è stato propaganda a uso interno o la potenza economica che Xi rivendica ha basi solide per eguagliare e magari superare gli Stati Uniti?
«Evidentemente il suo obiettivo è quello. Ma è difficile che il sorpasso avvenga in questa generazione, probabilmente non avverrà neppure nella prossima. In questo senso, il suo impegno a che “la Cina non sia mai più bullizzata" è fondamentale: il Paese è vittima di contenimento marittimo e lui avverte che il secolo delle umiliazioni non deve tornare».
Sempre ieri, un rapporto americano ha rivelato che in un deserto a 2.000 chilometri da Pechino fervono i lavori per la costruzione di un centinaio di silos utilizzabili per celare missili intercontinentali. Forse è soltanto un depistaggio strategico. Ma dobbiamo prepararci a un nuovo «equilibrio del terrore» come quello che segnò la Guerra fredda tra Stati Uniti e Unione sovietica?
«Certo non si può escludere. C'è da dire, però, che l'equilibrio del terrore non ha mai generato uno scontro. In questo senso, non sarebbe uno scenario negativo».
Il primo incontro tra il presidente statunitense Joe Biden e l'omologo cinese Xi Jinping potrebbe avvenire a Roma, a margine del G20 di ottobre. Per l'Italia sarebbe un riconoscimento del ruolo internazionale o il G20 di Roma rappresenta soltanto l'occasione più comoda?
«Probabilmente la seconda, non penso che a Biden e Xi interessi molto il luogo dell'incontro. Ma perché non sfruttare l'occasione presentandola non come un accidente bensì come un fatto che segnala il nostro ritorno al centro della scena? Credo che il governo Draghi non perderà questa chance».
«Scavano 100 silos per i missili» Per Washington nulla da festeggiare»
Sta salendo la tensione tra Washington e Pechino in coincidenza delle celebrazioni del centenario della nascita del Partito comunista cinese. Ieri, più o meno nelle stesse ore in cui Xi Jinping minacciava chi si oppone alla riunificazione «pacifica» con Taipei, il Financial Times ha rivelato che Stati Uniti e Giappone hanno condotto delle esercitazioni militari in vista di un eventuale confronto militare con Pechino per la questione di Taiwan. Secondo la testata britannica, che ha citato sei fonti rimaste anonime, il piano - che prevedrebbe tra le altre cose «esercitazioni congiunte nei mari della Cina meridionale e della Cina orientale» - sarebbe stato avviato l'anno scorso dall'amministrazione di Donald Trump. Va tenuto del resto presente che, negli ultimi mesi, un numero crescente di velivoli da combattimento cinesi sia penetrato nello spazio aereo di Taiwan. Ricordiamo tra l'altro che sia Washington sia Tokyo facciano parte del Quadrilateral security dialogue: un quartetto di Stati, comprendente anche India e Australia, che si propone di arginare l'influenza geopolitica cinese nell'Indo-Pacifico.
Come che sia, la notizia delle esercitazioni statunitensi e giapponesi assume rilevanza non soltanto alla luce delle parole pronunciate ieri dal presidente cinese, ma anche dalle valutazioni espresse a marzo scorso dall'allora comandante dello United States Indo-Pacific Command, l'ammiraglio Philip Davidson, in audizione al Senato americano. Costui aveva infatti ipotizzato che un'invasione dell'isola da parte di Pechino potesse avvenire nell'arco dei prossimi sei anni.
Taipei ha comunque respinto al mittente la linea di Xi Jinping: in base a un comunicato riportato da Reuters, Taiwan ha definito infatti la Repubblica popolare come «una dittatura che ha calpestato le libertà delle persone e [che] dovrebbe invece abbracciare la democrazia». «I suoi storici errori decisionali e le persistenti azioni dannose hanno causato gravi minacce alla sicurezza regionale», ha aggiunto la nota. Non è tra l'altro escluso che di Taiwan si sia parlato anche nel recente incontro, svoltosi in Vaticano, tra papa Francesco e il segretario di Stato americano, Tony Blinken: ricordiamo infatti che la Santa Sede riconosca ancora oggi formalmente Taipei.
Ma i motivi di attrito tra Washington e Pechino non si fermano qui. Sempre ieri, il James Martin Center for Nonproliferation Studies di Monterey (in California) ha dichiarato che la Cina starebbe costruendo oltre 100 silos per missili balistici intercontinentali in un deserto vicino alla città di Yumen. A dimostrarlo, secondo i ricercatori del centro, vi sarebbero delle immagini satellitari.
La rivelazione sta generando non poco allarme: come sottolineato ieri dal Washington Post, si teme infatti che Pechino stia compiendo «rapidi progressi» in termini di capacità nucleare. «Riteniamo che la Cina stia espandendo le sue forze nucleari in parte per mantenere un deterrente in grado di sopravvivere a un primo attacco degli Stati Uniti, in numero sufficiente per sconfiggere le difese missilistiche statunitensi», ha dichiarato Jeffrey Lewis, ricercatore del Center for Nonproliferation Studies. Il numero totale dei silos realizzati o in fase di costruzione in Cina sarebbe adesso di 145. Non è comunque detto che a un dato numero di silos corrisponda un eguale numero di missili: anzi solitamente non è così, in ossequio al principio - risalente alla Guerra Fredda - del «gioco delle tre carte». Tutto questo, mentre - secondo lo Stockholm International Peace Research Institute - Pechino disporrebbe al momento di 350 testate nucleari.
Insomma, la tensione tra Stati Uniti e Cina resta alta. Il presidente americano Joe Biden, nel suo recente tour europeo, aveva d'altronde cercato di compattare gli alleati occidentali in funzione anticinese: è stato infatti questo il senso principale delle sue mosse durante l'ultimo G7. Tutto questo, senza poi trascurare che, durante il vertice tenutosi il mese scorso a Bruxelles, la Nato abbia per la prima volta ufficialmente messo nel mirino le ambizioni militari della Repubblica popolare. In tutto questo, arrivano cattive notizie per Xi Jinping dal lato sondaggistico. Secondo una rilevazione del Pew research center pubblicata l'altro ieri, l'opinione internazionale sulla Cina risulterebbe fortemente negativa rispetto a quella sugli Stati Uniti. Il che può costituire un serio rischio in termini di soft power per la leadership della Repubblica popolare.
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Il leader, vestito come Mao, punta a riunificare il Paese: «Il partito ha eliminato la povertà». E sfida l'attivismo Usa.L'analista esperto di geopolitica: «La Cina sa che l'isola rappresenta una tappa cruciale per la sua volontà imperiale. Però sa altrettanto bene che sulla propria strada ha gli Stati Uniti. Dal Tienanmen è partita una dichiarazione di guerra indiretta».I satelliti svelano la possibile minaccia nucleare. Nuove esercitazioni militari con Tokyo.Lo speciale contiene tre articoli.Pechino mostra i denti. Ieri, in occasione delle celebrazioni per i 100 anni del Partito comunista cinese, Xi Jinping ha tenuto un discorso, volto a compattare internamente la Repubblica popolare e a lanciare minacciosi avvertimenti verso l'esterno. L'evento è stato particolarmente significativo dal punto di vista simbolico. Da una parte, il presidente cinese ha indossato il classico camiciotto grigio alla Mao Zedong: non è la prima volta che Xi Jinping si rifà all'eredità politica ed ideologica del Grande timoniere. Un'eredità che, in questi anni di governo, l'attuale presidente ha spesso e volentieri ripreso ed enfatizzato. Una linea che non evoca soltanto l'autoritarismo dottrinale di Mao, ma che punta, soprattutto con il discorso di ieri, a una sorta di identificazione tra i due leader. Xi ha del resto sempre visto proprio nel lascito maoista lo strumento necessario non solo per incrementare la capillarità e la centralizzazione del proprio potere ma anche per cercare di impedire che la Repubblica popolare possa finire col seguire la sorte dell'Unione sovietica. Dall'altra parte, va anche sottolineato che l'evento si sia tenuto davanti a una folla di 70.000 persone (o meglio dire, comparse) presenti in Piazza Tienanmen: un luogo che richiama alla memoria la sanguinosa repressione del 1989. Una repressione che sottopose la Repubblica popolare a una fortissima pressione internazionale: pressione che irritò non poco la leadership cinese di allora. In questo quadro, Xi Jinping ha innanzitutto rivendicato la tradizione storica del Partito comunista cinese. «Negli ultimi 100 anni, il partito ha unito e guidato il popolo cinese nello scrivere il capitolo più magnifico della storia millenaria della nazione cinese, incarnando lo spirito intrepido espresso da Mao Zedong», ha dichiarato. «Dobbiamo sostenere la ferma direzione del partito. Il successo della Cina dipende dal partito. Gli oltre 180 anni di storia moderna della nazione cinese, i 100 anni di storia del partito e gli oltre 70 anni di storia della Repubblica popolare cinese forniscono tutti ampie prove che senza il Partito comunista cinese, non ci sarebbe una nuova Cina e nessun ringiovanimento nazionale. Il partito è stato scelto dalla storia e dal popolo», ha aggiunto, per poi ribadire la fedeltà ai principi del marxismo, definito come ideologia «fondamentale». Il presidente è quindi passato ai messaggi rivolti verso l'esterno. Pur asserendo che la Cina sia favorevole alla pace, la sua retorica ha assunto tratti non poco minacciosi. «Noi cinesi», ha dichiarato, «siamo un popolo che difende la giustizia e non si lascia intimidire dalle minacce della forza. Come nazione, abbiamo un forte senso di orgoglio e fiducia. Non abbiamo mai maltrattato, oppresso o soggiogato la gente di nessun altro Paese, e mai lo faremo». «Allo stesso modo», ha proseguito, «non permetteremo mai a nessuna forza straniera di prevaricarci, opprimerci o soggiogarci. Chiunque tenti di farlo si schiaccerebbe la testa e verserebbe il suo sangue contro una muraglia d'acciaio forgiata da un miliardo e 400 milioni di cinesi». Il senso di rivalsa verso l'oppressione straniera è del resto un vecchio topos del Partito comunista cinese. Tuttavia, è sui dossier di Taiwan e Hong Kong, che il discorso di ieri ha assunto le tinte più allarmanti. «Risolvere la questione di Taiwan e realizzare la completa riunificazione della Cina», ha detto Xi, «è una missione storica e un impegno incrollabile del Partito comunista cinese. Nessuno deve sottovalutare la determinazione, la volontà e la capacità del popolo di riunificare la Cina e di schiacciare i complotti indipendentisti di Taiwan, la questione della sovranità e integrità nazionale sarà risolta». Parole che mettono evidentemente Pechino in rotta di collisione con Washington, che ha al contrario intenzione di salvaguardare l'autonomia dell'isola. «Rimarremo fedeli alla lettera e allo spirito del principio dell'“un Paese, due sistemi" in base al quale il popolo di Hong Kong amministra Hong Kong e il popolo di Macao amministra Macao, entrambi con un alto grado di autonomia», ha inoltre dichiarato. Un'asserzione, questa, che lascia un po' perplessi, visto quanto sta accadendo a Hong Kong, in cui è di fatto vietato manifestare, vengono chiuse le redazioni e sono condotti arresti contro i giornalisti. Le celebrazioni del centenario stanno inoltre compattando un asse internazionale che trova proprio in Pechino il proprio baricentro. Il Cremlino ha fatto sapere di non essere preoccupato per l'ascesa della Cina: quello stesso Cremlino che, appena pochi giorni fa, aveva rinnovato il trattato di amicizia sino-russo con Pechino, originariamente siglato nel 2001. Dall'altra parte, congratulazioni per il centenario sono arrivate ieri dal leader nordcoreano Kim Jong-un, che ha biasimato la pressione di «forze ostili» contro il Partito comunista cinese. L'obiettivo di Xi è insomma chiaro: compattamento esterno, minacce ai nemici e mano tesa agli amici. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/100-anni-comunisti-cinesi-2653629263.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="pechino-su-taipei-si-gioca-il-proprio-futuro" data-post-id="2653629263" data-published-at="1625226746" data-use-pagination="False"> «Pechino su Taipei si gioca il proprio futuro» Il discorso di ieri del presidente Xi Jinping trasudava spirito rivoluzionario. Basti pensare che l'ha pronunciato indossando un abito grigio sullo stile di Mao Zedong e dallo stesso podio di piazza Tiananmen dal quale il padre del Partito proclamò la nascita della Repubblica popolare cinese nel 1949. Alcuni esperti hanno messo in luce un aspetto, però: Xi non ha parlato del Grande balzo in avanti, né della Rivoluzione culturale, né di piazza Tienanmen. Ha invece citato Liu Shaoqi, che criticò Mao e lo spodestò durante la Rivoluzione culturale. Dario Fabbri, consigliere scientifico di Limes, secondo lei Xi è il nuovo Mao? «Vorrebbe. Si richiama alla tradizione quando gli è utile, un escamotage dialettico per mettersi tra i grandi leader del Paese. Per farlo, ieri ha utilizzato un tono molto retorico, con una tendenza a magnificare eccessiva per gli standard cinesi, più vicina alla tradizione russa». Uno degli aspetti evidenziati dai media di Stato è l'impegno alla realizzazione della «xiaokang», la «società moderatamente prospera», promettendo ai cittadini una vita economica tranquilla e armoniosa. Sta qui la differenza rispetto a Mao? «Xi sa di avere a che fare con una Cina diversa. Si è rivolto innanzitutto alla popolazione che vive sulla costa, quella più produttiva e ricca, promettendo di mantenerla nel benessere mentre combatte la povertà nell'entroterra. Sa che una popolazione che si abitua agli agi, che dunque invecchia, non è d'aiuto a chi vuole ascendere all'egemonia». Perché? «Pensiamo agli americani che si affacciavano poverissimi, reduci degli anni Trenta, alla Seconda guerra mondiale che proiettò la loro egemonia. Xi è consapevole che una Cina più vecchia e agitata chiede più tranquillità. Altro che morire per Taiwan». Al tal proposito, Xi ha promesso di completare la «riunificazione» tra Cina e Taiwan e di «schiacciare» qualsiasi tentativo di proclamare l'indipendenza formale dell'isola. Il messaggio era rivolto agli Stati Uniti? «È dichiarazione indiretta di guerra. Taiwan esiste perché esistono gli Stati Uniti, altrimenti la Cina avrebbe già provato a riprenderla. Va detto, però, che riuscirci non è facile. Xi sa che per la Cina la partita cruciale per la sopravvivenza della visione imperiale si gioca su Taiwan». Il che sembra suggerire che invece Hong Kong è ormai nelle braccia di Pechino. «Il rischio che sia così è molto alto. Ormai il principio “Un Paese, due sistemi" che Xi ha detto di difendere non esiste più, basti pensare alla Legge sulla sicurezza nazionale imposta un anno fa. A Hong Kong la Cina fa leva sulla situazione in cui versa la popolazione, ormai assimilabile a quella nei Paesi occidentali: è benestante e piuttosto anziana, di morire per Hong Kong ha poca voglia. Così, mostrando pugno di ferro, Pechino è riuscita laddove con popolazione più giovane o più disposto a battersi (per esempio gli uiguri), avrebbe avuto più problemi». Ma il discorso è stato propaganda a uso interno o la potenza economica che Xi rivendica ha basi solide per eguagliare e magari superare gli Stati Uniti? «Evidentemente il suo obiettivo è quello. Ma è difficile che il sorpasso avvenga in questa generazione, probabilmente non avverrà neppure nella prossima. In questo senso, il suo impegno a che “la Cina non sia mai più bullizzata" è fondamentale: il Paese è vittima di contenimento marittimo e lui avverte che il secolo delle umiliazioni non deve tornare». Sempre ieri, un rapporto americano ha rivelato che in un deserto a 2.000 chilometri da Pechino fervono i lavori per la costruzione di un centinaio di silos utilizzabili per celare missili intercontinentali. Forse è soltanto un depistaggio strategico. Ma dobbiamo prepararci a un nuovo «equilibrio del terrore» come quello che segnò la Guerra fredda tra Stati Uniti e Unione sovietica? «Certo non si può escludere. C'è da dire, però, che l'equilibrio del terrore non ha mai generato uno scontro. In questo senso, non sarebbe uno scenario negativo». Il primo incontro tra il presidente statunitense Joe Biden e l'omologo cinese Xi Jinping potrebbe avvenire a Roma, a margine del G20 di ottobre. Per l'Italia sarebbe un riconoscimento del ruolo internazionale o il G20 di Roma rappresenta soltanto l'occasione più comoda? «Probabilmente la seconda, non penso che a Biden e Xi interessi molto il luogo dell'incontro. Ma perché non sfruttare l'occasione presentandola non come un accidente bensì come un fatto che segnala il nostro ritorno al centro della scena? Credo che il governo Draghi non perderà questa chance». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/100-anni-comunisti-cinesi-2653629263.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="scavano-100-silos-per-i-missili-per-washington-nulla-da-festeggiare" data-post-id="2653629263" data-published-at="1625226746" data-use-pagination="False"> «Scavano 100 silos per i missili» Per Washington nulla da festeggiare» Sta salendo la tensione tra Washington e Pechino in coincidenza delle celebrazioni del centenario della nascita del Partito comunista cinese. Ieri, più o meno nelle stesse ore in cui Xi Jinping minacciava chi si oppone alla riunificazione «pacifica» con Taipei, il Financial Times ha rivelato che Stati Uniti e Giappone hanno condotto delle esercitazioni militari in vista di un eventuale confronto militare con Pechino per la questione di Taiwan. Secondo la testata britannica, che ha citato sei fonti rimaste anonime, il piano - che prevedrebbe tra le altre cose «esercitazioni congiunte nei mari della Cina meridionale e della Cina orientale» - sarebbe stato avviato l'anno scorso dall'amministrazione di Donald Trump. Va tenuto del resto presente che, negli ultimi mesi, un numero crescente di velivoli da combattimento cinesi sia penetrato nello spazio aereo di Taiwan. Ricordiamo tra l'altro che sia Washington sia Tokyo facciano parte del Quadrilateral security dialogue: un quartetto di Stati, comprendente anche India e Australia, che si propone di arginare l'influenza geopolitica cinese nell'Indo-Pacifico. Come che sia, la notizia delle esercitazioni statunitensi e giapponesi assume rilevanza non soltanto alla luce delle parole pronunciate ieri dal presidente cinese, ma anche dalle valutazioni espresse a marzo scorso dall'allora comandante dello United States Indo-Pacific Command, l'ammiraglio Philip Davidson, in audizione al Senato americano. Costui aveva infatti ipotizzato che un'invasione dell'isola da parte di Pechino potesse avvenire nell'arco dei prossimi sei anni. Taipei ha comunque respinto al mittente la linea di Xi Jinping: in base a un comunicato riportato da Reuters, Taiwan ha definito infatti la Repubblica popolare come «una dittatura che ha calpestato le libertà delle persone e [che] dovrebbe invece abbracciare la democrazia». «I suoi storici errori decisionali e le persistenti azioni dannose hanno causato gravi minacce alla sicurezza regionale», ha aggiunto la nota. Non è tra l'altro escluso che di Taiwan si sia parlato anche nel recente incontro, svoltosi in Vaticano, tra papa Francesco e il segretario di Stato americano, Tony Blinken: ricordiamo infatti che la Santa Sede riconosca ancora oggi formalmente Taipei. Ma i motivi di attrito tra Washington e Pechino non si fermano qui. Sempre ieri, il James Martin Center for Nonproliferation Studies di Monterey (in California) ha dichiarato che la Cina starebbe costruendo oltre 100 silos per missili balistici intercontinentali in un deserto vicino alla città di Yumen. A dimostrarlo, secondo i ricercatori del centro, vi sarebbero delle immagini satellitari. La rivelazione sta generando non poco allarme: come sottolineato ieri dal Washington Post, si teme infatti che Pechino stia compiendo «rapidi progressi» in termini di capacità nucleare. «Riteniamo che la Cina stia espandendo le sue forze nucleari in parte per mantenere un deterrente in grado di sopravvivere a un primo attacco degli Stati Uniti, in numero sufficiente per sconfiggere le difese missilistiche statunitensi», ha dichiarato Jeffrey Lewis, ricercatore del Center for Nonproliferation Studies. Il numero totale dei silos realizzati o in fase di costruzione in Cina sarebbe adesso di 145. Non è comunque detto che a un dato numero di silos corrisponda un eguale numero di missili: anzi solitamente non è così, in ossequio al principio - risalente alla Guerra Fredda - del «gioco delle tre carte». Tutto questo, mentre - secondo lo Stockholm International Peace Research Institute - Pechino disporrebbe al momento di 350 testate nucleari. Insomma, la tensione tra Stati Uniti e Cina resta alta. Il presidente americano Joe Biden, nel suo recente tour europeo, aveva d'altronde cercato di compattare gli alleati occidentali in funzione anticinese: è stato infatti questo il senso principale delle sue mosse durante l'ultimo G7. Tutto questo, senza poi trascurare che, durante il vertice tenutosi il mese scorso a Bruxelles, la Nato abbia per la prima volta ufficialmente messo nel mirino le ambizioni militari della Repubblica popolare. In tutto questo, arrivano cattive notizie per Xi Jinping dal lato sondaggistico. Secondo una rilevazione del Pew research center pubblicata l'altro ieri, l'opinione internazionale sulla Cina risulterebbe fortemente negativa rispetto a quella sugli Stati Uniti. Il che può costituire un serio rischio in termini di soft power per la leadership della Repubblica popolare.
Giorgia Meloni (Imagoeconomica)
L’attuale governo sta mostrando la consapevolezza di dover sostenere, con una politica estera molto attiva sul piano globale, il modello economico italiano basato sull’export che è messo a rischio - gestibile, ma comunque problematico per parecchi settori sul piano dei margini finanziari - dai dazi statunitensi, dalla crisi autoinflitta per irrealismo ambientalista ed eccessi burocratici dell’Ue, dai costi eccessivi dell’energia e, in generale, dal cambio di mondo in atto senza dimenticare la crisi demografica. Vedremo dopo le soluzioni interne, ma qui va sottolineato che l’Italia non può trasformare il proprio modello economico dipendente dall’export senza perdere ricchezza. La consapevolezza di questo punto è provata dalla riforma del ministero degli Esteri: accanto alla Direzione politica, verrà creata nel prossimo gennaio una Direzione economica con la missione di sostenere l’internazionalizzazione e l’export delle imprese italiane in tutto il mondo. Non è una novità totale, ma mostra una concentrazione di risorse e capacità geoeconomiche e geopolitiche finalmente adeguate alla missione di un’Italia globale, per inciso titolo del mio libro pubblicato nell’autunno 2023 (Rubbettino editore). Con quale meccanismo di moltiplicazione del potere negoziale italiano? Tradizionalmente, via la duplice convergenza con Ue e Stati Uniti pur sempre più complicata, ma con più autonomia per siglare partenariati bilaterali strategici di cooperazione economica-industriale (i trattati doganali sono competenza dell’Ue, condizione necessaria per un mercato unico europeo essenziale per l’Italia) a livello mondiale.
E con un metodo al momento solo italiano: partenariati bilaterali con reciproco vantaggio, cioè non asimmetrici. Con priorità l’Africa (al momento, 14 nazioni) ed il progetto di «Via del cotone» (Imec) tra Indo-Pacifico, Mediterraneo ed Atlantico settentrionale via penisola arabica. La nuova (in realtà vecchia perché elaborata dal Partito repubblicano nel 2000) dottrina di sicurezza nazionale statunitense è di ostacolo ad un Italia globale? No, perché, pur essendo divergente con l’Ue, non lo è con le singole nazioni europee, con qualche eccezione. Soprattutto, le chiama a un maggiore attivismo per la loro sicurezza, lasciando di fatto in cambio spazio geopolitico. Come potrà Roma usarlo? Aumentando i suoi bilaterali strategici e approfondendoli con Giappone, India, nazioni arabe sunnite, Asia centrale (rilevante l’accordo con la Mongolia se riuscisse) ecc. Quale nuovo sforzo? Necessariamente integrare una politica mercantilista con i requisiti di schieramento geopolitico. E con un riarmo non solo concentrato contro la minaccia russa, ma mirato a novità tecnologiche utili per scambiare strumenti di sicurezza con partner compatibili. Ovviamente è oggetto di studio, ma l’Italia ha il potenziale per farlo via progetti condivisi con America, europei e giapponesi nonché capacità proprie. Considerazione che ci porta a valutare la modernizzazione interna dell’Italia perché c’è una relazione stretta tra potenziale esterno e interno.
Obiettivi interni
La priorità è ridurre il costo del debito pubblico per aumentare lo spazio di bilancio utile per investimenti e detassazione stimolativi. Ciò implica la sostituzione del Pnrr, che finirà nel 2026, con un programma nazionale stimolativo (non condizionato dall’esterno) di dedebitazione: valorizzare e cedere dai 250 a 150 miliardi di patrimonio statale disponibile, forse di più (sui 600-700 teorici) in 15 anni. Se ben strutturata, tale operazione «patrimonio pubblico contro debito» potrà dare benefici anticipativi via aumento del voto di affidabilità del debito italiano riducendone il costo di servizio che oggi è di 80-90 miliardi anno. Già tale costo è stato un po’ ridotto dal giusto rigore della politica di bilancio per il 2026. Con il nuovo programma qui ipotizzato, da avviare nel 2027 per sua complessità, lo sarà molto di più dando all’Italia più risorse per spesa sociale, di investimenti competitivi e minori tasse.
Stimo dai 10 ai 18 miliardi anno di risparmio sul costo del debito e un aumento di investimenti esteri in Italia perché con voto di affidabilità (rating) crescente. Senza tale programma, l’Italia sarebbe condizionabile dalla concorrenza intraeuropea e senza i soldi sufficienti per la politica globale detta sopra. Ci sono tante altre priorità tecniche sia per invertire più decisamente il lento declino economico dell’Italia, causato da governi di sinistra e/o dissipativi, sia per rendere più globalmente competitiva l’economia italiana. Ma sono fattibili via un nuovo clima di cultura politica che crei fiducia ed ottimismo sul potenziale globale dell’Italia. Come? Più ordine interno, investimenti sulla qualificazione cognitiva di massa, sulla rivoluzione tecnologica, in sintesi su un’Italia futurizzante. L’obiettivo è attrarre più capitale e competenze dall’estero, comunicando credibilmente al mondo che l’Italia è terra di libertà, sicurezza, opportunità e progresso. Non può farlo solo la politica, ma ci vuole il contributo dei privati entro un concetto di «nazione attiva», aperta al mondo e non chiusa. Ritroviamo il vento, gli oceani.
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Lando Norris (Getty Images)
Nell’ultimo GP stagionale di Abu Dhabi, Lando Norris si laurea campione del mondo per la prima volta grazie al terzo posto sul circuito di Yas Marina. Nonostante la vittoria in gara, Max Verstappen non riesce a difendere il titolo, interrompendo il suo ciclo di quattro mondiali consecutivi.
Lando Norris è campione del mondo. Dopo quattro anni di dominio incontrastato di Max Verstappen, il pilota britannico centra il titolo iridato al termine di una stagione in cui ha saputo coniugare costanza, precisione e lucidità nei momenti decisivi. La vittoria ad Abu Dhabi, conquistata con una gara solida e senza errori, suggella un percorso iniziato con un Mondiale che sembrava già scritto a favore dell’olandese.
La stagione ha visto Norris prendere il comando delle operazioni già nelle prime gare, approfittando di alcuni passaggi a vuoto di Verstappen e di una gestione impeccabile del suo team. Il britannico ha messo in mostra una costanza rara, evitando rischi inutili e capitalizzando ogni occasione: punti preziosi accumulati gara dopo gara che hanno costruito un vantaggio psicologico e tecnico difficile da colmare per chiunque, ma non per Verstappen, che nelle ultime gare ha tentato il tutto per tutto per costruirsi una chance di rimonta. Una rimonta sfumata per appena due punti, visto che il pilota della McLaren ha chiuso il Mondiale a quota 423 punti, davanti ai 421 del rivale della RedBull e che se avessero chiuso a pari punti il titolo sarebbe andato a Verstappen in virtù del numero di gran premi vinti in stagione: otto contro i sette di Norris. Inevitabile per l'olandese non pensare alla gara della scorsa settimana in Qatar, dove Norris ha recuperato proprio due punti sfruttando un errore di Kimi Antonelli all'inizio dell'ultimo giro.
La gara di Abu Dhabi ha rappresentato la sintesi perfetta della stagione di Norris: partenza accorta, gestione dei pit stop e mantenimento della concentrazione fino alla bandiera a scacchi. L’olandese, pur vincendo la corsa, non è riuscito a recuperare il distacco, confermando che i quattro anni di dominio sono stati interrotti da un talento giovane e capace di gestire la pressione del momento clou.
Alle spalle dei due contendenti, la stagione è stata amara per Ferrari e altri protagonisti attesi al vertice. Charles Leclerc e Lewis Hamilton non hanno mai realmente impensierito i leader della classifica, incapaci di inserirsi nella lotta per il titolo o di ottenere risultati significativi in gran parte del campionato. Una conferma, se ce ne fosse bisogno, delle difficoltà del Cavallino Rosso nel trovare una combinazione di macchina e strategia competitiva.
Il Mondiale 2025 si chiude quindi con un volto nuovo sul gradino più alto del podio e con alcune conferme sullo stato della Formula 1: Norris dimostra che la gestione mentale, l’attenzione ai dettagli e la capacità di evitare errori critici contano quanto la velocità pura. Verstappen, pur da vincitore di tante gare, dovrà riflettere sulle occasioni perdute, mentre la Ferrari è chiamata a ripensare, ancora una volta, strategie e sviluppo per la stagione successiva.
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