2021-03-05
Zingaretti si vergogna del suo Pd. Si dimette e terremota il partito
Uscita di scena del segretario che sbatte la porta con un j'accuse senza precedenti e apre una crisi al buio. Leader esaurito o mossa da capo politico? Attacco agli ex renziani: «Da 20 giorni parlano solo di poltrone».Alla fine l'onda lunga di Riad si è abbattuta come uno tsunami anche sul Nazareno. E ha prodotto un risultato senza precedenti: l'addio del primo leader - nella storia del Pci-Pds-Pd - che si dimette sbattendo la porta con un j'accuse senza precedenti. Nicola Zingaretti abbandona la poltrona da segretario, e se ne va sparando una salva di cannonate ad alzo zero sul gruppo dirigente che lo ha combattuto, in primis gli ex renziani di Base riformista: «Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da venti giorni si parli solo di poltrone e primarie». Achille Occhetto e Massimo D'Alema si dimisero dopo due sconfitte elettorali. Walter Veltroni si dimise dopo la batosta in Sardegna. Pier Luigi Bersani se ne andò dopo il cosiddetto «golpe dei 101» in Parlamento, dopo il killeraggio dei suoi candidati al Quirinale. Matteo Renzi si dimise dopo la sconfitta del referendum 2016, travolto da un voto popolare. Dietro tutte queste crisi c'era sempre una battaglia politica, ma l'evento traumatico e scatenante aveva sempre oscurato la guerra intestina. Questa volta tutto si è invertito, ed è accaduto il contrario: Zingaretti (per paradosso) se ne va dopo aver vinto le sfide elettorali e dopo aver riportato il Pd al governo, ma postando una lettera pubblica su Facebook, segnata da una durezza senza precedenti contro i suoi nemici: «Mi vergogno del Pd», scrive dunque Il segretario dimissionario, «quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c'è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni». Non era mai accaduto prima, e non c'è nessuna rete di sicurezza. Per la prima volta nel Pd c'è una crisi al buio, non c'è un accordo per la gestione a breve, non esiste un successore designato immaginabile, solo un avversario politico autocandidato (lo sfidante Stefano Bonaccini) e delle correnti di opposizione. Basti pensare che da stasera il partito è in mano a una presidente, Valentina Cuppi, la giovane sindaca di Marzabotto, che si ritrova in questi giorni di transizione (a norma di Statuto) come unica plenipotenziaria designata. Non ha mai avuto esperienze di dirigenza precedenti, non viene dalla storia della Dc né da quella dei post comunisti. Nell'assemblea convocata che dovrà nominare il successore c'è - teoricamente - una maggioranza zingarettiana. Ma in mezzo per ora c'è il nulla. La grande domanda ovviamente è questa: contro chi ce l'ha Zingaretti e cosa ha scatenato la precipitazione? I nomi dei nemici del segretario, come abbiamo visto, sono facilmente identificabili nello scarno e drammatico racconto che il governatore del Lazio fa nella lettera di dimissioni: «Sono stato eletto proprio due anni fa. Abbiamo salvato il Pd e ora ce l'ho messa tutta per spingere il gruppo dirigente verso una fase nuova. Ho chiesto franchezza, collaborazione e solidarietà per fare subito un congresso politico sull'Italia, le nostre idee, la nostra visione. Dovremmo discutere di come sostenere il governo Draghi, una sfida positiva che la buona politica deve cogliere. Non è bastato». E qui arriva l'affondo più duro: «Anzi: mi ha colpito invece il rilancio di attacchi anche di chi in questi due anni ha condiviso tutte le scelte fondamentali che abbiamo compiuto. Non ci si ascolta più e si fanno le caricature delle posizioni». Zingaretti sta parlando degli ex (?) renziani di Base Riformista, attivissimi in questi giorni nel criticare la sua segreteria. Zingaretti parla di chi fino all'ultimo gli ha dato filo da torcere per la squadra di governo (dove sono diventati ministri tre leader di corrente e il segretario ha rinunciato ad avere un esponente della sua area). E infine è arrivata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il congresso e la lotta per il vertice. Non è un mistero che Zingaretti abbia difeso Andrea Orlando dagli attacchi della corrente (l'area di chi era più vicino a Renzi) e del capogruppo del partito Andrea Marcucci. Il segretario voleva una dirigente a lui vicina - la responsabile delle donne del Pd - Cecilia D'Elia. A quel punto Base riformista chiedeva invece un nome che fosse espressione della loro area, in nome di «una gestione collegiale». Impossibile fare un congresso vero (con le primarie) per via della pandemia, impossibile sposare una «gestione collegiale» con chi ha una linea diversa dalla sua, Zingaretti ha deciso di strappare tutto, con un salto senza rete: «Il Pd», ha scritto, «non può rimanere fermo, impantanato per mesi a causa in una guerriglia quotidiana. Questo, sì, ucciderebbe il partito». Infine il passaggio più duro, anche questo del tutto inedito e imprevedibile per chi conosce la lingua felpata degli addii, e le prudenze di chi pensa ad un piano B. Bene, ieri era evidente che non c'era nessun piano B: «Visto che il bersaglio sono io», scrive Zingaretti, «per amore dell'Italia e del partito, non mi resta che fare l'ennesimo atto per sbloccare la situazione. Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità». E questo è un vero e proprio guanto di sfida per le correnti: se qualcuno vuole cambiare la linea, sta dicendo Zingaretti, deve dirlo esplicitamente e cercare una maggioranza sulla base di quella proposta. Anche nelle ultime righe c'è una notizia: «Nelle prossime ore», aggiunge il segretario, «scriverò alla presidente del partito per dimettermi formalmente. L'Assemblea nazionale farà le scelte più opportune e utili». E infine: «Io ho fatto la mia parte». Queste ultime frasi, sono importanti, fanno capire che Zingaretti non vuole far una mossa tattica, non cerca un trucco per ottener una reinvestitura. E per un partito abituato a gestire sempre le crisi, l'effetto sortito è esattamente l'opposto. Nella serata di ieri il gruppo dirigente del Pd piombava nello psicodramma. Iniziava uno dei «centristi», Graziano Delrio, chiedendo a Zingaretti «di restare alla guida del partito». Proseguiva Andrea Orlando chiedendo ai dirigenti «tutti insieme» di perorare la riconferma. E persino Goffredo Bettini diceva: «Spero che ci sia lo spazio per un ripensamento». È il più grande terremoto di leadership nella storia della sinistra nella seconda repubblica, e per la prima volta non ci sono cilindri nel cappello: il partito ritornerà nella mano di Renzi. O il contraccolpo di questo strappo azzererà le correnti «saudite».
Antonella Bundu (Imagoeconomica)
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