2021-09-15
Zaki non è un «martire» Lgbt, ma cristiano
Alla prima udienza del processo contro lo studente egiziano si scopre che è accusato di aver scritto un articolo in difesa dei copti. Chissà se ora i nostri media, dopo mesi di campagne arcobaleno in suo nome, daranno battaglia su un caso di libertà religiosa?Patrick Zaki è accusato di aver scritto un articolo a difesa dei cristiani copti dalla persecuzione a cui sarebbero sottoposti in Egitto. Alla fine, come si è scoperto lunedì, è questo il capo di imputazione che è stato poi presentato ieri nella prima udienza del processo che vede appunto alla sbarra lo studente egiziano dell'Università di Bologna, in carcere da 19 mesi nel suo Paese. Sono state fatte cadere tutte le accuse più pesanti, quelle di terrorismo e istigazione al rovesciamento dello Stato, così come non c'è traccia di quelle a cui si ispiravano con solerzia i titolisti italiani, riferendosi al fatto che Zaki restava in carcere «perché è gay».Capelli più lunghi raccolti in un codino, più magro, ma in buone condizioni, così è apparso ieri Zaki nella breve presenza che ha fatto nell'aula del tribunale di Al-Mansoura per rispondere appunto di un «reato minore», quello per la «diffusione di notizie, informazioni o voci volutamente false o tendenziose sulla situazione interna del Paese» (art. 80 codice penale egiziano). In aula anche i rappresentanti delle ambasciate di Italia, Canada e Germania; la decisione ora è nelle mani del giudice Mahmoud Hatta che ha fissato la prossima udienza al 28 settembre, mentre Zaki resta ancora in carcere. Trattandosi di una corte della Sicurezza dello Stato per reati minori non è previsto appello, ma in caso di condanna, pena prevista dai 6 mesi fino a un massimo di 5 anni, resterà solo la possibilità di richiesta di grazia al presidente al-Sisi. «Temiamo il peggio», dice a Sky Tg24 Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, «perché c'è un precedente, ed è una storia gemella a quella di Patrick: quella di Ahmed Samir Santawy, studente dell'Università europea centrale di Vienna che, arrestato tornando al Cairo nel febbraio di quest'anno, quindi dodici mesi dopo Patrick, è stato già condannato per reati simili».Il fatto penale è proprio quell'articolo scritto nel 2019 per il sito egiziano Darraj in cui Zaki, che è di famiglia copta, scrive, come riportato dalla traduzione pubblicata da Repubblica, che «non passa un mese senza che vi siano episodi contro i copti egiziani, da tentativi di spostarli in Alto Egitto a rapimenti, chiusure di chiese o attentati dinamitardi». Se le battaglie condotte per la liberazione di Zaki sono tutte sacrosante, perché le detenzioni per opinioni politiche sono ovviamente contrarie al diritto della manifestazione del pensiero, l'articolo per cui risulta accusato Zaki ha una sostanza ben diversa rispetto alle decine di prese di posizione italiane per la libertà di Patrick, spesso fondate sui temi cari alla galassia arcobaleno del mondo Lgbt e pro ddl Zan. Chissà se ora quegli stessi difensori di Patrick si unirebbero alle parole del capo della Chiesa copta del Regno Unito, l'arcivescovo copto ortodosso Anba Angaelos, che ieri ha dichiarato: «Preghiamo per le autorità affinché prendano la decisione giusta». Auspicando che «sia il momento in cui la verità verrà a galla e per tutti quelli coinvolti di essere in pace», mostrando un atteggiamento religioso e comunque di equidistanza, senza sollevare bandiere per difendere il giovane attivista, ma facendo riferimento ai «diritti umani» da tutelare. Peraltro, nel caso dell'accusa imputata a Zaki, qui i diritti riguardano proprio la sfera della libertà religiosa, quella che anche i vescovi italiani in una loro nota ritenevano potenzialmente minacciata dal ddl Zan. O come aveva puntualizzato il Vaticano, nella famosa «nota verbale» consegnata allo Stato italiano da monsignor Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati, alcuni contenuti del ddl Zan minacciavano la libertà della Chiesa in ordine a quanto stabilito dal Concordato anche rispetto alla «libertà di pensiero». Inoltre, se Zaki è in carcere per un'accusa che riguarda un tema di libertà religiosa il problema diventa di natura diversa e giustamente solleva le parole del vescovo copto, come forse dovrebbe sollevare quelle della Santa Sede che in questa materia nei rapporti con l'islam sta tentando di costruire un dialogo assai impervio e non privo di controversie.Un cortocircuito che finisce per mostrare come tanti possono aver utilizzato la vicenda della liberazione dell'attivista egiziano più per condurre battaglie di bandiera, che non per una difesa dei diritti umani, di cui appunto la libertà religiosa è fondamento. Secondo le cronache di ieri, lo stesso Zaki in aula avrebbe detto di non aver «commesso alcun reato», e di aver esercitato proprio il suo diritto «alla libertà di parola». Quello stesso che molti cattolici in Italia vedevano messo a rischio dal ddl Zan. Nell'articolo scritto nel 2019 Zaki diceva, tra l'altro, che nelle vicende che accadono nelle persecuzioni dei copti in Egitto alla fine un cristiano «viene sempre definito una persona “mentalmente disturbata"». Ci sono forse alcuni promotori della libertà per Zaki che pensano una cosa simile, o forse, parafrasando un celebre cartello sfoggiato dalla senatrice Monica Cirinnà nel 2019, ritengono che i cristiani che seguono Dio, amano la patria e la famiglia, facciano semplicemente «una vita di merda». Se anche questo è un esercizio non brillantissimo di libertà di pensiero, dovrebbe far riflettere tutti coloro che giustamente vogliono libero Patrick Zaki. Perché sono tanti i cristiani in giro per il mondo che sono ingiustamente detenuti e perseguitati, magari perché qualcuno pensa che siano «mentalmente disturbati».
Charlie Kirk (Getty Images)