La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Maurizio e Alessandro Marinella (Ansa)
Il manager della storica sartoria di Napoli Alessandro Marinella: «Donald offrì a nonno e papà di aprire un negozio nel suo grattacielo a New York, dissero di no. Ora ci ha scritto per ringraziarci dei regali. Berlusconi ordinava 6.000 pezzi alla volta».
L’anno prossimo fanno 112. Era il 1914, quando Eugenio Marinella, nel cuore di Napoli, fondava quella che sarebbe diventata una delle più famose aziende tessili italiane. Rinomata per le cravatte, ma ormai specializzata in una vasta gamma di prodotti per uomo e donna. In questo periodo, persino decorazioni natalizie in seta. Il testimone di questa tradizione, oggi, è nelle mani di Maurizio e di suo figlio Alessandro, 30 anni, general manager di E. Marinella. Reduce da una grande soddisfazione professionale.
Alessandro, avete appena ricevuto una lettera dalla Casa Bianca, firmata Donald Trump. Ci racconta com’è andata?
«Entra in negozio un uomo. Non si presenta, ma ci chiede due cravatte da regalare a una persona “molto importante”».
Italiano?
«No, americano. Noi ci incuriosiamo e proviamo a fargli qualche domanda. Viene fuori che queste cravatte sarebbero finite al presidente Trump, con cui questa persona diceva di avere una “estrema vicinanza”».
Da Napoli a Washington.
«Mio padre ha voluto che fossero un omaggio. Qualche settimana dopo, ci è arrivata la lettera datata 17 novembre, con cui il presidente ci ringraziava. Anche per la nostra vicinanza negli anni».
Negli anni?
«È la terza lettera di Trump che riceviamo».
E le altre due?
«La prima volta fu negli anni Ottanta: c’era mio nonno e mio padre aveva una trentina d’anni. Offrì loro di aprire gratuitamente un negozio a New York, nella Trump Tower».
E i suoi cosa risposero?
«Fino a vent’anni fa, la nostra azienda era un negozio di 20 metri quadri. Mio nonno e mio padre si posero il problema: come gestiamo le sarte, il controllo qualità, la produzione, la vendita? Mio nonno non sapeva nemmeno parlare l’inglese. Per cui, lo ringraziarono e declinarono l’offerta».
Col senno di poi…
«Eh, vabbè. Ci sta».
E la seconda lettera?
«Verso la fine del secondo mandato presidenziale, fummo noi a mandare un presente a Trump. E lui ci ringraziò».
Prima o poi, queste cravatte gliele vedremo addosso. Ce le descrive, così magari le riconosciamo?
«Mi è sembrato che le abbia già indossate. Una è sul violetto, l’altra è azzurra-bluette».
Si parla di Trump e allora le chiedo: i dazi vi spaventano?
«No. Abbiamo una decina di negozi tra L’Italia, Londra e Tokyo, ma la nostra distribuzione in America è minima».
Gli americani devono sviluppare ancora il buon gusto?
«Siamo stati soprattutto noi a non spingere. È solo da poco che ci stiamo strutturando come vera e propria azienda».
Trump non è l’unico presidente che avete servito.
«Li abbiamo serviti tutti da Kennedy in poi. Oltre ai reali inglesi, al re di Spagna…».
E ai politici italiani.
«I presidenti della Repubblica».
È vero che Silvio Berlusconi vi piazzava degli ordini monstre?
«Ci chiedeva forniture incredibili, che noi puntualmente non riuscivamo a soddisfare».
Di che cifre parliamo?
«Partiva da 9.000 cravatte, poi iniziavamo a contrattare. Mio padre provava con 2.000, sapendo che, per produrle, le sarte avrebbero dovuto lavorare pure di notte. Alla fine, si chiudeva a 4, 5, 6.000».
Erano regali, ovviamente.
«Un migliaio di regali: cofanetti da sei cravatte».
Dei Vip che ha conosciuto, quale le è rimasto più simpatico?
«Re Carlo. Mi sono fermato a parlarci, abbiamo discusso del drink che stavamo bevendo».
È uno alla mano?
«Super».
Lei ha portato Marinella sui social e anche l’e-commerce è una sua invenzione.
«Ma tutto questo è solo la punta dell’iceberg di un lavoro più ampio. Quando ho iniziato, l’azienda era una bottega. Non avevamo nemmeno i dati delle vendite, non esisteva un organigramma. Ho cominciato a metterci mano, avviando un processo di aziendalizzazione».
Ha dovuto studiarci su?
«Università a Napoli e due master. La preparazione serve, però non occorre studiare economia per sapere che, per ordinare il quantitativo giusto di tessuto, devi prima sapere quanto ne vendi».
Fa il modesto?
«Io sono la quarta generazione della bottega, ma la seconda dell’azienda. Conosce il detto?».
Quale detto?
«La prima generazione crea, la seconda consolida, la terza distrugge. Sto cercando di consolidare».
L’e-commerce ha funzionato?
«Più 25% di fatturato; e intanto è aumentato anche quello dei negozi. Quando sono entrato in azienda, fatturavamo circa 12 milioni; adesso, chiudiamo a 20».
Come se lo spiega?
«Tanta gente, prima, mi diceva: conosco la vostra azienda, ho nell’armadio un sacco di cravatte del nonno… Ecco: intanto, abbiamo smesso di essere solo quelli della “cravatta del nonno”. Già nel 1914, d’altronde, eravamo nati come importatori di vari prodotti inglesi. La cravatta s’impose durante la Seconda guerra mondiale, quando il rapporto con il Regno Unito si interruppe e noi iniziammo a lavorare quei tessuti. Adesso abbiamo diversificato. Non vendendo solo cravatte, abbiamo un’utenza anche più giovane. E non più soltanto maschile. Poi, abbiamo introdotto nuove gamme di materiali sostenibili: abbiamo creato una serie di accessori in Lyocell, estratto dalla buccia delle arance insieme alla corteccia degli alberi».
Le cravatte si vendono ancora?
«Se ne vendono di più. La cravatta sta tornando di moda. Nelle grandi sfilate, la indossano pure le modelle».
Come mai questa rinascita?
«Un tempo, la si indossava prevalentemente per obbligo. Io, giovane, assunto in una Big four, ero costretto a mettere giacca e cravatta. Ma siccome la portavo tutti i giorni, ne acquistavo tante a poco prezzo nella grande distribuzione».
E ora?
«Dopo il Covid, tanta gente ha smesso di andare regolarmente in ufficio. Portare la cravatta, quindi, non è una costrizione: chi la compra è felice di indossarla. Ne cerca una di qualità, indossata dai presidenti americani, prodotta da chi se ne occupa da oltre un secolo».
E Marinella è un’icona.
«Nel 2017 ci fu una mostra al MoMa di New York. Esponevano i 111 oggetti più rappresentativi del secolo. C’era lo skateboard; c’era la minigonna; c’erano i tacchi a spillo di Louboutin; c’era la maglietta Supreme; c’era lo Chanel numero 5; e c’era la cravatta di Marinella».
Sui social, spopolano gli influencer di eleganza maschile. È in atto una riscoperta del classico?
«Assolutamente sì. È un po’ come nell’alimentare: quando uscirono le farine raffinatissime, la gente voleva solo quelle; oggi cerchiamo l’integrale, i grani antichi… Stesso fenomeno avviene nell’abbigliamento. È il ritorno a prodotto che abbia una storia, a un artigiano che realizzi giacca, camicia, pantalone, cravatta, personalizzando lo stile, le misure. Inserendo le iniziali...».
Ha partecipato a un video satirico della pagina Instagram «Napoli centrale», che inscenava una tenzone tra napoletani del Vomero e napoletani di Posillipo. Il vostro brand è diventato più pop?
«L’obiettivo era di sdrammatizzare un po’ la nostra nomea aziendale. Molti pensano che Marinella sia solo classicità e immaginano me e mio padre come due persone col bicchiere di vino davanti al camino, col maggiordomo e l’alano».
Non è per niente snob?
«Sono un normalissimo ragazzo di 30 anni, nato e cresciuto a contatto con tutte le persone di Napoli, di tutte le estrazioni sociali. La gente spesso si stupisce che io sia alla mano. E ci rimango male, perché sono sempre stato uno del popolo. E a questa città devo tanto».
Aveva un’attività già avviata, quindi nel suo caso, forse, il percorso è stato più facile. Però pensa che per il Sud ci sia speranza?
«C’è speranza per il Sud in generale. E vedo che Napoli, in particolare, sta crescendo. Due scudetti, aprono grandi catene alberghiere a cinque stelle - a breve arriverà Rocco Forte. Girano film internazionali. Ci sono aziende che si trasferiscono qui e qui investono. Ci sarà l’America’s cup di vela nel 2027. La vera sfida è mantenere tutto ciò che di buono sta arrivando».
Si rivolga ai suoi coetanei: qualche consiglio di stile?
«Innanzitutto, non focalizzarsi troppo sulle regole. Ciò che ha allontanato i giovani dal classico è stata la paura di sbagliare qualcosa, nel momento in cui si indossavano abiti formali. Bisogna stare molto più sereni. Io stesso infrango l’etichetta».
In cosa?
«C’è una regola secondo cui il colletto della camicia dovrebbe aderire perfettamente al bavero della giacca. A me, invece, piace portare colletti un po’ più piccoli. E me ne frego».
Come Gianni Agnelli, che metteva l’orologio sopra al polsino.
«Lo spirito è quello. Secondo consiglio: suggerirei di evitare il fast fashion. A me è successo di ingolosirmi, ad esempio, di una scarpa un po’ più estrosa del solito, per la quale non mi andava di spendere tanti soldi e di prenderla in quei negozi. Risultato: dopo una decina di volte che la indossavo, si distruggeva. Idem per la camicia: mi va stretta, faccio un movimento e si strappa, oppure scolorisce dopo vari lavaggi».
La fibra naturale non è più salutare per l’ambiente?
«Certo. Si riducono gli sprechi. Dura di più. E quando la sarta mi confeziona una camicia, mi fornisce pure i ricambi per le parti, tipo i polsini, che potrebbero consumarsi».
Ultima dritta?
«Beh, spesso mi chiedono come abbinare i colori e le fantasie delle cravatte agli abiti. È chiaro che, se si indossano una camicia a righe e una giacca pied-de-poule, o a quadri, o principe di Galles, magari si eviterà una cravatta a pois. Giusto per non creare confusione. Però non c’è una regola fissa. La vera regola è sentirsi a proprio agio, sicuri di sé. Uscire di casa e pensare: oggi sono proprio un figo».
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Il documentario Roma Sotterranea, in onda su History Channel, esplora i cantieri della Linea C tra scoperte archeologiche straordinarie e sfide ingegneristiche, mostrando come la storia millenaria di Roma influenzi la crescita infrastrutturale della città.
Non in superficie, ma sotto strade che l'arte, la storia, l'abitudine ci ha insegnato a riconoscere senza l'ombra del dubbio, con la familiarità e la sicurezza che si riserva alla propria casa. Roma Sotterranea - Una metro nella storia, in onda in esclusiva su History Channel nella prima serata di lunedì 15 dicembre, non è un viaggio alla scoperta delle bellezze della Capitale.
Piuttosto, è il tentativo di capire cosa si celi oltre quelle bellezze, sotto ciò che lo sguardo abbraccia, dentro la terra che oggi andrebbe scavata. Roma dovrebbe avere una linea metropolitana più efficiente. Più fermate, collegamenti migliori. Ma il condizionale è obbligatorio, figlio della necessità di appurare che non ci siano reperti a separare il dire dal fare. Il documentario, accompagnato dalla voce narrante di Domenico Strati e scritto con la consulenza storico-archeologica della dottoressa Claudia Devoto, non pretende di avere risposte, ma cerca di portare a galle le criticità del progetto. Chiedendo e chiedendosi che ne possa essere di Roma, se possa un giorno arrivare ad essere una metropoli contemporanea, il passato relegato al proprio posto, o se, invece, la sua storia sia destinata ad essere troppo ingombrante, impedendole la crescita infrastrutturale che vorrebbe avere.
Roma Sotterranea, disponibile per lo streaming su NowTv, racconta come ingegneri e archeologi abbiano lavorato in sinergia per realizzare un piano atto a portare all'inaugurazione delle nuove fermate della Linea C di Roma, quelle che (da progetto) dovrebbero collegare la periferia sudorientale a quella occidentale della città. E, nel raccontare questo lavoro, racconta parimenti come il gruppo di ingegneri e archeologi abbia cercato di prevedere e accogliere ogni imprevisto, così da accompagnare la città nel suo sviluppo. Questo perché i sondaggi di archeologia preventiva non sempre rivelano quanto poi potrà emergere durante lavori di scavo così imponenti. In Piazza Venezia, inaspettatamente, è tornata alla luce l’imponente struttura degli Auditoria adrianei, un complesso pubblico su due livelli costruito durante l’impero di Adriano (117-138 d.C.). Era destinato alla divulgazione culturale, alla pubblica lettura di opere letterarie e in prosa, all’insegnamento della retorica, e all’attività giudiziaria e la sua scoperta, la cui importanza storica è stata definita straordinaria, ha portato allo spostamento di uno degli accessi alla stazione presente nella piazza.
Diverso è stato il rinvenimento, inatteso, fatto scavando nei dintorni della nuova stazione di Porta Metronia: a nove metri di profondità, è stata scoperta una caserma del II d.C., 1700 metri quadri di superficie con mosaici e affreschi distribuiti in 30 alloggi per una compagnia di soldati che alloggiavano in ambienti di 4 mq e la domus del comandante, dotata di atrio e fontana. Le strutture sono state rimosse per costruire la stazione, dopo la scansione 3D di ogni singolo muro. A seguito della collocazione in magazzino, del restauro e della catalogazione dei reperti, le murature e i pavimenti sono tornati alla loro originaria collocazione, facendo della stazione uno straordinario sito archeologico.
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Secondo un’analisi della Fondazione Eni Enrico Mattei, la decarbonizzazione dell’auto europea stenta: le vendite elettriche sono ferme al 14%, le batterie e le infrastrutture sono arretrate. E mentre Germania e Italia spingono per una maggiore flessibilità, la Commissione europea valuta la revisione normativa.
La decarbonizzazione dell’automobile europea si trova a un bivio. Lo evidenzia un’analisi della Fondazione Eni Enrico Mattei, in un articolo dal titolo Revisione o avvitamento per la decarbonizzazione dell’automobile, che mette in luce le difficoltà del cosiddetto «pacchetto automotive» della Commissione europea e la possibile revisione anticipata del Regolamento Ue 2023/851, che prevede lo stop alle immatricolazioni di auto a combustione interna dal 2035.
Originariamente prevista per il 2026, la revisione del bando è stata anticipata dalle pressioni dell’industria, dal rallentamento del mercato delle auto elettriche e dai mutati equilibri politici in Europa. Germania e Italia, insieme ad altri Stati membri con una forte industria automobilistica, chiedono maggiore flessibilità per conciliare gli obiettivi ambientali con la realtà produttiva.
Il quadro che emerge è complesso. La domanda di veicoli elettrici cresce più lentamente del previsto, la produzione europea di batterie fatica a decollare, le infrastrutture di ricarica restano insufficienti e la concorrenza dei produttori extra-Ue, in particolare cinesi, si fa sempre più pressante. Nel frattempo, il parco auto europeo continua a invecchiare e la riduzione delle emissioni di CO₂ procede a ritmi inferiori alle aspettative.
I dati confermano il divario tra ambizioni e realtà. Nel 2024, meno del 14% delle nuove immatricolazioni nell’Ue a 27 è stata elettrica, mentre il mercato resta dominato dai motori tradizionali. L’utilizzo dell’energia elettrica nel settore dei trasporti stradali, pur in crescita, resta inferiore all’1%, rendendo molto sfidante l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050.
Secondo la Fondazione Eni Enrico Mattei, non è possibile ignorare l’andamento del mercato e le preferenze dei consumatori. Per ridurre le emissioni occorre che le nuove auto elettriche sostituiscano quelle endotermiche già in circolazione, cosa che al momento non sta avvenendo in Italia, seconda solo alla Germania per numero di veicoli.
«Ai 224 milioni di autovetture circolanti nel 2015 nell’Ue, negli ultimi nove anni se ne sono aggiunti oltre 29 milioni con motore a scoppio e poco più di 6 milioni elettriche. Valori che pongono interrogativi sulla strategia della sostituzione del parco circolante e sull’eventuale ruolo di biocarburanti e altre soluzioni», sottolinea Antonio Sileo, Programme Director del Programma Sustainable Mobility della Fondazione. «È necessario un confronto per valutare l’efficacia delle politiche europee e capire se l’Unione punti a una revisione pragmatica della strategia o a un ulteriore avvitamento normativo», conclude Sileo.
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Ecco #DimmiLaVerità del 15 novembre 2025. Con il senatore di Fdi Etel Sigismondi commentiamo l'edizione dei record di Atreju.







