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2023-11-11
Sventato il blitz al Csm per salvare la toga del «fisico spettacolare»
Il luogo del delitto di Rovereto. Nel Riquadro, la pm Viviana Del Tedesco (Ansa)
Il Consiglio superiore della magistratura ha tentato di salvare la pm che lo scorso agosto definì il nigeriano che a Rovereto uccise con una gragnola di pugni un’inerme sessantenne, Iris Setti, uno con il fisico «spettacolare». L’apprezzamento per i muscoli mortiferi del trentasettenne Chukwuka Nweke, un vagabondo che si allenava nei giardini tra una birra e un’altra e che aveva anche precedenti per droga, finirono al centro di un’intervista raccolta dalla Verità che fece sobbalzare perfino l’Associazione nazionale magistrati trentina. Il parlamentino delle toghe prese in modo netto le distanze dalla collega, definendo le parole usate nell’intervista come «inopportune». E le due consigliere laiche del parlamentino dei giudici Claudia Eccher (Lega) e Isabella Bertolini (Fratelli d’Italia) qualche giorno dopo formalizzarono al Comitato di presidenza del Csm una richiesta per avviare una pratica nei confronti della toga, Viviana Del Tedesco, che in quel momento era anche facente funzioni di procuratore. La pratica, però, si apprende ora, è finita in un blocco con altre quattro, tutte su femminicidi. E tutte dirette verso una richiesta di archiviazione con un’unica votazione, prima della discussione dell’ordine del giorno. Una istanza del pentastellato Michele Papa e lo sbarramento della leghista Claudia Eccher, però, hanno smosso le acque, riportando il caso indietro alla Prima commissione. Era stata infatti quest’ultima, che si occupa delle incompatibilità dei magistrati e che è presieduta dal laico di Forza Italia Enrico Aimi, a decidere all’unanimità di chiudere l’intero blocco, ritenendo che non ci fossero (anche perché erano stati trasmessi gli atti al vice presidente per l’inoltro ai titolari dell’azione disciplinare) provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare. Le valutazioni quindi non si sono basate su una vera e propria istruttoria, che proprio Eccher ha chiesto invece a gran voce.
«È necessario un ulteriore approfondimento da parte della Commissione. Per rispetto delle vittime ritengo che queste pratiche necessitino di un supplemento istruttorio e di una motivazione specifica», ha precisato Eccher durante il Plenum di mercoledì scorso. «Ricordo a tutti», ha affermato la consigliera leghista durante il suo intervento, «che la Del Tedesco nel caso riguardante l’omicidio di Mara Fait (altro caso avvenuto poco tempo prima a Rovereto), aveva negato il «codice rosso» archiviando la sua richiesta in sette giorni e motivando la sua scelta con la frase: «Che le persone non vadano d’accordo è un discorso, che poi si arrivi a un omicidio è un altro». Fait, infermiera in pensione, è stata uccisa dal suo vicino di casa, un albanese, con il quale da tempo c’erano forti attriti. E in questo caso c’è anche una richiesta di opposizione all’archiviazione avanzata dagli avvocati della vittima che non è stata acquisita né esaminata.
«Una morte annunciata», l’avevano definita gli avvocati Rosa Rizzi e Flavio Dalbosco che da tempo seguivano l’infermiera e che solo poco tempo prima avevano depositato l’ultima denuncia, chiedendo una misura di allontanamento che, però, fu archiviata. Poi Eccher è passata al caso del nigeriano dal fisico bestiale: «Non si può archiviare senza avere nemmeno esaminato i profili problematici della vicenda e motivato su di essi», ha affermato la Eccher, aggiungendo: «Non ci dimentichiamo che vi sono delle dichiarazioni della Del Tedesco che hanno avuto una importante eco mediatica a livello nazionale, tra l’altro quantomeno lesive della memoria di Iris Setti. Vorrei citare testualmente le sue parole: “È un uomo che fisicamente è spettacolare, aveva una puntualità nel firmare in caserma che se gli studenti fossero così puntuali saremmo a cavallo”». Secondo Eccher, «la questione necessita di un approfondimento ulteriore e di una motivazione adeguata sul profilo dell’incompatibilità ambientale». Inoltre, ha sottolineato la consigliera laica, «vi sono dichiarazioni successive della Del Tedesco che anticipa l’esito di tale pratica, già percependo l’archiviazione da parte del Csm». Eccher quindi ha denunciato sia una istruttoria superficiale da parte della Commissione (si potevano, per esempio, chiamare in audizione i dirigenti o la stessa Del Tedesco, il direttivo dell’Anm del Trentino, oppure acquisire altri documenti a disposizione della cancelleria) sia la mancanza di una motivazione sull’archiviazione delle pratiche».
La richiesta al Plenum, avanzata anche dal pentastellato Papa, era quindi di far tornare le cinque pratiche alla Commissione disciplinare che si occupa delle incompatibilità per una nuova e approfondita valutazione. All’unanimità, e senza alcun intervento da parte di nessun consigliere, il Plenum ha votato per il ritorno in Commissione. La palla è tornata quindi al forzista Aimi, che ora dovrà riesaminare tutti e cinque i casi che erano stati bocciati, compresi quelli che riguardano la pm del fisico bestiale.
Killer torna in libertà perché obeso
Obeso e fumatore incallito, pertanto può andare agli arresti domiciliari. Nonostante una condanna a 30 anni di carcere per l’omicidio della fidanzata da scontare. La motivazione dei giudici del Tribunale di sorveglianza di Torino è che bisogna assicurargli l’assistenza necessaria. Dimitri Fricano, 36 anni, di Biella, l’uomo che nell’estate del 2017 a Sassari assassinò con 57 coltellate Erika Preti durante una vacanza a San Teodoro (Sassari), martedì scorso, dopo sei anni di detenzione, ha lasciato il penitenziario torinese delle Vallette per stabilirsi in una piccola frazione di un comune del Biellese, dalla quale, hanno prescritto i giudici di Sorveglianza, non si potrà allontanare se non per andare dai medici e, in ogni caso, senza mai lasciare la provincia. Quando fu arrestato Fricano era un omone di 120 chili. Oggi il suo peso ha raggiunto i 200 chilogrammi e, stando alle relazioni mediche, non riesce a muoversi se non con l’aiuto delle stampelle o di una sedia a rotelle. I giudici di Sorveglianza nella loro ordinanza hanno elencato tutti i problemi di salute del detenuto. Non solo quelli fisici. A cominciare dalla meningite che lo colpì nel 1989 per passare alla sindrome ansioso depressiva da bulimia, al disturbo di personalità, alla depressione e alle apnee notturne. Inoltre Fricano sarebbe un soggetto a «forte rischio cardiovascolare» sia per la sua condizione di «grande obeso» sia perché è un fumatore incallito. Sarebbero quindi particolarmente elevati i rischi di complicanze cardiache.
Nella documentazione presentata dai suoi difensori, gli avvocati Alessandra Guarini e Roberto Onida, è spiegato che arriva a fumare anche cento sigarette al giorno. Valutazioni che hanno convinto le toghe, che hanno valutato le sue condizioni non compatibili con la permanenza in un istituto di pena. «Non è in grado», è scritto nell’ordinanza, «di assolvere autonomamente le proprie necessità quotidiane e ha bisogno di un’assistenza che non è possibile dispensare nell’istituto». Inoltre, «non può uscire dalla sua cella perché in carrozzina non riesce a spostarsi. Glielo impedirebbero anche le barriere architettoniche interne». L’obesità, poi, appare come irrisolvibile in carcere, perché, valutano i giudici, Fricano sarebbe impossibilitato a seguire una dieta.
«Nel corso della restrizione», annotano i giudici,« si è riscontrato un ulteriore aumento ponderale, in quanto il paziente non può disporre di un pasto ipocalorico (non dispensato dalla cucina dell’istituto) e non segue le indicazioni dietetiche». La depressione e la detenzione, insomma, lo spingerebbero «a consumare in maniera compulsiva alimenti contro indicati». A queste valutazioni si sommano quelle psichiche. Nel corso delle indagini si appurò che Fricano avrebbe scatenato la sua furia omicida su Erika dopo un banale litigio. Lui prima si proclamò innocente, ma confessò un mese dopo. Solo quando ormai tutti gli indizi stavano convergendo su di lui. Nel 2020 la Corte d’appello di Cagliari lo ha condannato a 30 anni. Una pena che lui stesso, scrivono i giudici di Sorveglianza, ora riconosce come «equa», nonostante affermi di non ricordare assolutamente nulla del delitto. Quella con Erika, a suo dire, era una relazione «appagante». E ancora oggi non riesce a spiegare perché l’abbia uccisa.
«Con il tempo», è il parere degli psicologi, «si è abituato ad attribuire la causa ai problemi mentali di cui soffre». L’ennesimo boccone amaro per i genitori di Erika. Mentre il procuratore generale Alberto Benso ha dato il suo parere favorevole, anche perché la detenzione non sarebbe «funzionale alla rieducazione» se Fricano è costretto a restare in una cella «nella passiva sopportazione di una condizione di inferiorità rispetto agli altri detenuti».
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Lo sbarramento di due consiglieri, grillino e leghista, ha impedito l’archiviazione della pratica aperta dopo la nostra intervista alla pm Viviana Del Tedesco sul boia nigeriano. Il dossier rispedito in commissione.Dimitri Fricano uccise con 57 coltellate la fidanzata dopo un litigio in vacanza: condannato a 30 anni, è stato scarcerato con l’ok della Procura. «In cella mangia troppo e male».Lo speciale contiene due articoli.Il Consiglio superiore della magistratura ha tentato di salvare la pm che lo scorso agosto definì il nigeriano che a Rovereto uccise con una gragnola di pugni un’inerme sessantenne, Iris Setti, uno con il fisico «spettacolare». L’apprezzamento per i muscoli mortiferi del trentasettenne Chukwuka Nweke, un vagabondo che si allenava nei giardini tra una birra e un’altra e che aveva anche precedenti per droga, finirono al centro di un’intervista raccolta dalla Verità che fece sobbalzare perfino l’Associazione nazionale magistrati trentina. Il parlamentino delle toghe prese in modo netto le distanze dalla collega, definendo le parole usate nell’intervista come «inopportune». E le due consigliere laiche del parlamentino dei giudici Claudia Eccher (Lega) e Isabella Bertolini (Fratelli d’Italia) qualche giorno dopo formalizzarono al Comitato di presidenza del Csm una richiesta per avviare una pratica nei confronti della toga, Viviana Del Tedesco, che in quel momento era anche facente funzioni di procuratore. La pratica, però, si apprende ora, è finita in un blocco con altre quattro, tutte su femminicidi. E tutte dirette verso una richiesta di archiviazione con un’unica votazione, prima della discussione dell’ordine del giorno. Una istanza del pentastellato Michele Papa e lo sbarramento della leghista Claudia Eccher, però, hanno smosso le acque, riportando il caso indietro alla Prima commissione. Era stata infatti quest’ultima, che si occupa delle incompatibilità dei magistrati e che è presieduta dal laico di Forza Italia Enrico Aimi, a decidere all’unanimità di chiudere l’intero blocco, ritenendo che non ci fossero (anche perché erano stati trasmessi gli atti al vice presidente per l’inoltro ai titolari dell’azione disciplinare) provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare. Le valutazioni quindi non si sono basate su una vera e propria istruttoria, che proprio Eccher ha chiesto invece a gran voce. «È necessario un ulteriore approfondimento da parte della Commissione. Per rispetto delle vittime ritengo che queste pratiche necessitino di un supplemento istruttorio e di una motivazione specifica», ha precisato Eccher durante il Plenum di mercoledì scorso. «Ricordo a tutti», ha affermato la consigliera leghista durante il suo intervento, «che la Del Tedesco nel caso riguardante l’omicidio di Mara Fait (altro caso avvenuto poco tempo prima a Rovereto), aveva negato il «codice rosso» archiviando la sua richiesta in sette giorni e motivando la sua scelta con la frase: «Che le persone non vadano d’accordo è un discorso, che poi si arrivi a un omicidio è un altro». Fait, infermiera in pensione, è stata uccisa dal suo vicino di casa, un albanese, con il quale da tempo c’erano forti attriti. E in questo caso c’è anche una richiesta di opposizione all’archiviazione avanzata dagli avvocati della vittima che non è stata acquisita né esaminata. «Una morte annunciata», l’avevano definita gli avvocati Rosa Rizzi e Flavio Dalbosco che da tempo seguivano l’infermiera e che solo poco tempo prima avevano depositato l’ultima denuncia, chiedendo una misura di allontanamento che, però, fu archiviata. Poi Eccher è passata al caso del nigeriano dal fisico bestiale: «Non si può archiviare senza avere nemmeno esaminato i profili problematici della vicenda e motivato su di essi», ha affermato la Eccher, aggiungendo: «Non ci dimentichiamo che vi sono delle dichiarazioni della Del Tedesco che hanno avuto una importante eco mediatica a livello nazionale, tra l’altro quantomeno lesive della memoria di Iris Setti. Vorrei citare testualmente le sue parole: “È un uomo che fisicamente è spettacolare, aveva una puntualità nel firmare in caserma che se gli studenti fossero così puntuali saremmo a cavallo”». Secondo Eccher, «la questione necessita di un approfondimento ulteriore e di una motivazione adeguata sul profilo dell’incompatibilità ambientale». Inoltre, ha sottolineato la consigliera laica, «vi sono dichiarazioni successive della Del Tedesco che anticipa l’esito di tale pratica, già percependo l’archiviazione da parte del Csm». Eccher quindi ha denunciato sia una istruttoria superficiale da parte della Commissione (si potevano, per esempio, chiamare in audizione i dirigenti o la stessa Del Tedesco, il direttivo dell’Anm del Trentino, oppure acquisire altri documenti a disposizione della cancelleria) sia la mancanza di una motivazione sull’archiviazione delle pratiche». La richiesta al Plenum, avanzata anche dal pentastellato Papa, era quindi di far tornare le cinque pratiche alla Commissione disciplinare che si occupa delle incompatibilità per una nuova e approfondita valutazione. All’unanimità, e senza alcun intervento da parte di nessun consigliere, il Plenum ha votato per il ritorno in Commissione. La palla è tornata quindi al forzista Aimi, che ora dovrà riesaminare tutti e cinque i casi che erano stati bocciati, compresi quelli che riguardano la pm del fisico bestiale.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/viviana-del-tedesco-csm-2666233283.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="killer-torna-in-liberta-perche-obeso" data-post-id="2666233283" data-published-at="1699695140" data-use-pagination="False"> Killer torna in libertà perché obeso Obeso e fumatore incallito, pertanto può andare agli arresti domiciliari. Nonostante una condanna a 30 anni di carcere per l’omicidio della fidanzata da scontare. La motivazione dei giudici del Tribunale di sorveglianza di Torino è che bisogna assicurargli l’assistenza necessaria. Dimitri Fricano, 36 anni, di Biella, l’uomo che nell’estate del 2017 a Sassari assassinò con 57 coltellate Erika Preti durante una vacanza a San Teodoro (Sassari), martedì scorso, dopo sei anni di detenzione, ha lasciato il penitenziario torinese delle Vallette per stabilirsi in una piccola frazione di un comune del Biellese, dalla quale, hanno prescritto i giudici di Sorveglianza, non si potrà allontanare se non per andare dai medici e, in ogni caso, senza mai lasciare la provincia. Quando fu arrestato Fricano era un omone di 120 chili. Oggi il suo peso ha raggiunto i 200 chilogrammi e, stando alle relazioni mediche, non riesce a muoversi se non con l’aiuto delle stampelle o di una sedia a rotelle. I giudici di Sorveglianza nella loro ordinanza hanno elencato tutti i problemi di salute del detenuto. Non solo quelli fisici. A cominciare dalla meningite che lo colpì nel 1989 per passare alla sindrome ansioso depressiva da bulimia, al disturbo di personalità, alla depressione e alle apnee notturne. Inoltre Fricano sarebbe un soggetto a «forte rischio cardiovascolare» sia per la sua condizione di «grande obeso» sia perché è un fumatore incallito. Sarebbero quindi particolarmente elevati i rischi di complicanze cardiache. Nella documentazione presentata dai suoi difensori, gli avvocati Alessandra Guarini e Roberto Onida, è spiegato che arriva a fumare anche cento sigarette al giorno. Valutazioni che hanno convinto le toghe, che hanno valutato le sue condizioni non compatibili con la permanenza in un istituto di pena. «Non è in grado», è scritto nell’ordinanza, «di assolvere autonomamente le proprie necessità quotidiane e ha bisogno di un’assistenza che non è possibile dispensare nell’istituto». Inoltre, «non può uscire dalla sua cella perché in carrozzina non riesce a spostarsi. Glielo impedirebbero anche le barriere architettoniche interne». L’obesità, poi, appare come irrisolvibile in carcere, perché, valutano i giudici, Fricano sarebbe impossibilitato a seguire una dieta. «Nel corso della restrizione», annotano i giudici,« si è riscontrato un ulteriore aumento ponderale, in quanto il paziente non può disporre di un pasto ipocalorico (non dispensato dalla cucina dell’istituto) e non segue le indicazioni dietetiche». La depressione e la detenzione, insomma, lo spingerebbero «a consumare in maniera compulsiva alimenti contro indicati». A queste valutazioni si sommano quelle psichiche. Nel corso delle indagini si appurò che Fricano avrebbe scatenato la sua furia omicida su Erika dopo un banale litigio. Lui prima si proclamò innocente, ma confessò un mese dopo. Solo quando ormai tutti gli indizi stavano convergendo su di lui. Nel 2020 la Corte d’appello di Cagliari lo ha condannato a 30 anni. Una pena che lui stesso, scrivono i giudici di Sorveglianza, ora riconosce come «equa», nonostante affermi di non ricordare assolutamente nulla del delitto. Quella con Erika, a suo dire, era una relazione «appagante». E ancora oggi non riesce a spiegare perché l’abbia uccisa. «Con il tempo», è il parere degli psicologi, «si è abituato ad attribuire la causa ai problemi mentali di cui soffre». L’ennesimo boccone amaro per i genitori di Erika. Mentre il procuratore generale Alberto Benso ha dato il suo parere favorevole, anche perché la detenzione non sarebbe «funzionale alla rieducazione» se Fricano è costretto a restare in una cella «nella passiva sopportazione di una condizione di inferiorità rispetto agli altri detenuti».
Nel riquadro Nathan Trevallion, il papà della cosiddetta famiglia nel bosco, firma il contratto della nuova casa (Ansa)
I documenti sono stati depositati nell’udienza di ieri pomeriggio, dove avrebbero dovuto essere ascoltati Catherine Birmingham e Nathan Trevallion. Si tratta della coppia anglo-australiana che viveva con i tre figli minori, nella casa nel bosco, ma la coppia non era presente in aula. I genitori stanno combattendo per riottenere i bambini, lontani dalla casa nel bosco ormai da 14 giorni. Le importanti relazioni esaminate in aula sono una della casa-famiglia in cui i minorenni sono ospitati dal 20 novembre e l’altra dei servizi sociali. I ragazzi, dall’inizio della loro permanenza nella casa-famiglia in cui sono ospitati, sarebbero tranquilli e non avrebbero subito traumi, incontrano spesso la madre che viene considerata punto di riferimento dei piccoli e che sarebbe anche molto empatica. E anche il padre, pur vivendo ancora nella casa nel bosco, si prende cura dei figli.
Secondo la relazione, i bambini Trevallion hanno mostrato sorpresa davanti ai comfort moderni che trovano nella casa famiglia come l’acqua corrente sempre disponibile, il riscaldamento, gli elettrodomestici. Tutte cose che per i coetanei sono la normalità, ma per loro rappresentano una scoperta. All’udienza di comparizione, iniziata ieri verso le 15.30, erano presenti i due avvocati della famiglia, Marco Femminella e Danila Solinas. Sono loro che hanno chiesto un ricongiungimento urgente al tribunale minorile per la famiglia, presentando delle nuove argomentazioni alla luce di nuovi elementi che non erano conosciuti al tempo dell’ordinanza che ha separato genitori e figli. Anche i minori hanno un loro avvocato, Marica Bolognese. Maria Luisa Palladino è la tutrice provvisoria dei tre bambini.
I genitori hanno anche presentato ricorso, sulla decisione di allontanare i figli minori, alla Corte d’appello che dovrà decidere il 16 dicembre. Intanto, ieri si è iniziato a valutare l’impegno della coppia per garantire quanto disposto dal magistrato in termini di adeguatezza dell’ambiente domestico. La coppia ha deciso di cambiare abitazione per tre mesi, gli è stata messa a disposizione una casa colonica, sempre a Palmoli, immersa nel verde, dove resterà il tempo necessario per sistemare il casolare in cui abitava. A quanto sembra, però, si attende ancora un progetto di ristrutturazione della vecchia abitazione e in Comune a Palmoli non è stata ancora avviata alcuna procedura in merito. «Abbiamo fiducia nella magistratura, speriamo nel ricongiungimento, forniremo altri elementi utili, ma per ora non possiamo dire nulla», ha spiegato l’avvocato Solinas, assediata dai cronisti, all’ingresso del Tribunale per i minorenni dell’Aquila. «Stiamo lavorando bene», ha detto rispondendo alle domande dei giornalisti riferite alla strategia difensiva da attuare in udienza.
E anche all’uscita, i toni della Solinas e di Femminella erano distesi: «È stato un momento di colloquio, di confronto, di chiarimento e quindi di condivisione di un percorso. La decisione spetta al tribunale. L’udienza è il luogo deputato all’interlocuzione, al confronto è stata un’udienza assolutamente proficua, lunga. Si prospetta una proficua collaborazione». «Tra gli elementi che sono valutati in maniera positiva dal tribunale c’è sicuramente la disponibilità dei genitori in questi giorni», hanno aggiunto i due legali, che però non hanno potuto nemmeno ipotizzare quando i giudici scioglieranno la riserva. «Le tempistiche non le posso prevedere», ha risposto la Solinas ai cronisti. Non è chiaro, quindi, se la decisione del Tribunale dei minori arriverà prima o dopo quella della Corte d’appello.
Nelle due ore di udienza sono stati valutati su richiesta degli avvocati dei Trevallion i nuovi aspetti non conosciuti al momento dell’ordinanza di allontanamento del 20 novembre, questo per ottenere l’accoglimento della richiesta di ricongiungimento urgente per la famiglia, che sarà decisa nei prossimi giorni.
Intanto ieri il portavoce di Pro vita & famiglia, Jacopo Coghe, ha consegnato oltre 50.000 firme al ministero della Giustizia, raccolte dalla onlus con una petizione popolare rivolta al ministro Carlo Nordio per chiedere l’immediato ricongiungimento della famiglia Trevallion. «Il caso è diventato il simbolo di una deriva pericolosa, ovvero quando lo Stato, invece di sostenere i genitori, si sostituisce a loro. Così facendo calpesta il diritto dei minori a crescere con il proprio padre e la propria madre e lede il primato educativo che spetta alla famiglia», ha spiegato Coghe.
«In attesa di novità, speriamo positive, dall’udienza al Tribunale dei minori dell’Aquila di oggi pomeriggio (ieri, ndr)», aggiunge Coghe, «chiediamo al ministro Nordio di fare tutto quanto in suo potere affinché questa famiglia venga riunita e simili casi non si ripetano più. Non esiste tutela dei bambini senza rispetto dei loro genitori».
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La famiglia Trevallion-Birmingham
Il ragionamento non fa una grinza: i bambini sottratti ai propri genitori non erano maltrattati ed erano in regola con il programma scolastico nonostante non frequentassero una scuola (proprio come gli Amish). Il loro unico «difetto» è che vivevano nel bosco, senza i servizi igienici dei loro coetanei a disposizione. Lasciamo perdere il fatto che molti italiani fino agli anni Sessanta, e alcuni anche dopo, sono cresciuti nelle stesse condizioni, ma se vale il principio che i bambini devono vivere in un’abitazione adeguata, che facciamo con i figli dei rom? Crescere in una baracca o in una roulotte senza servizi igienici è meglio che vivere in una casupola nel bosco? Se il problema è la qualità dell’alloggio, perché ai rom non tolgono i bimbi ma, anzi, servizi sociali e giudici li lasciano crescere in condizioni a dir poco precarie, senza tutele né istruzione? Tra le accuse che pare siano state mosse ai genitori dei piccoli c’è la mancata socializzazione. Ne deduco che, se i minori rom non vengono tolti ai rispettivi papà e mamma, ci sono assistenti sociali e giudici secondo cui vivere a fianco di chi ruba il portafogli o la catenina è un modo di socializzare.
Ho letto la relazione degli educatori della casa-famiglia di Vasto in cui, dal 20 novembre, vivono i bambini della famiglia Trevallion. A quanto ho capito, i minori sottratti per ordine del giudice ai legittimi genitori non mostrano affatto i segni di un degrado educativo o affettivo. Sono bambini normali, cresciuti con mamma e papà in mezzo al bosco. Sono stupiti dall’acqua corrente o dalla luce elettrica. E allora? Con la madre hanno un approccio sereno e con il padre pure. Quando lui li va a visitare porta con sé frutta, oggetti utili, piccoli pensieri per moglie e figli. E quando i bimbi rivedono il papà, «sono momenti di gioia autentica». «I figli lo accolgono con grande calore» e, dopo i saluti, tornano a giocare con naturalezza. «Una dinamica che suggerisce autonomia e assenza di quell’ansia da separazione tipica dei contesti traumatici». E allora, perché portarli via ai genitori? Perché vivono in una comunità neo rurale a cui l’opinione pubblica (o, forse, qualche assistente sociale e magistrato) non è abituata?
Ma chi decide quale progetto domestico sia giusto applicare? Chi, soprattutto, stabilisce se uno stile di vita debba essere distrutto perché non rientra nella norma? I quesiti non sono cosa da poco, perché aprono lo spazio a diverse riflessioni. Alle bambine che crescono in alcune comunità islamiche è consentita la socializzazione? E nel caso fossero costrette a vivere in un ambiente chiuso, che non si relaziona con bambine di altre culture, sarebbe giusto sottrarle ai genitori prima che si ripeta un caso Saman Abbas? Aggiungo anche questa ulteriore considerazione: dato che ci sono figli che crescono in ambienti malsani, non per via dei servizi igienici ma per la contiguità criminale, perché assistenti sociali e giudici non se ne occupano prima che qualche minorenne educato alla violenza accoltelli un coetaneo?
Le mie potrebbero sembrare provocazioni, ma non lo sono. Sono semplici osservazioni: se deleghiamo allo Stato la scelta di come e dove crescere i figli, la logica conseguenza è che i bimbi non saranno più nostri, ma dello Stato. Come in ogni regime.
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Carlo Melato dialoga con il critico musicale Alberto Mattioli sulle attese suscitate dal titolo scelto dal Piermarini per il 7 dicembre: Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk. Un capolavoro che ha sofferto la censura staliniana e che dev’essere portato al grande pubblico, anche televisivo, scommettendo sulla sua potenza e non sul boom di ascolti.
Marina Terragni (Imagoeconomica)
Tira il fiato per un attimo, poi è nuovamente un fiume in piena di rabbia, sconcerto, preoccupazione. «Qualcuno mi può spiegare come si fa a vedere in questo modo un bimbo che, da referto medico, non cammina, non parla e, uscito dall’ospedale, è tornato dal padre secondo quanto ha stabilito il tribunale? Padre che nemmeno mi informa su come stanno i figli?». La signora è stata esclusa dalla vita dei suoi bambini e di Marco ha unicamente un Pec datata 17 novembre, inoltrata senza intestazione, dalla quale apprende che il piccolo, con tumore al IV stadio, dovrà sottoporsi a radioterapia e chemioterapia. Il piccolo sarebbe stato trascurato per mesi, malgrado segnalasse continui mal di testa, vomito, disturbi alla vista.
La mamma, che già vive l’assurdità di essere passata dalla parte dei «cattivi» per aver portato via nel 2019 i figli dalla casa dell’ex compagno a Venezia, sospettando abusi sulle creature («La causa penale e quella civile sono state archiviate») e che solo quest’anno ha potuto avere un riscontro ai suoi timori («I bambini sono stati visti da due psicologi e psicoterapeuti che dichiarano che hanno probabilmente subito abusi sessuali e sono in uno stato di rischio pericolo», documento della deuropsichiatria della Aulss3 di Venezia mai segnalato né alla Procura né alla Corte d’appello territoriale), dovrebbe adesso rassegnarsi a stare lontana.
«Mentre il padre dei miei figli non si è preoccupato della loro salute. Il più grande è diventato apatico, mostra sintomi di depressione. Marco è stato più volte male e solo a ottobre il genitore l’ha portato al pronto soccorso, dove si è capito che aveva un tumore», spiega affranta la mamma, tornata a vivere nella sua città natale, Brescia. Il complesso iter giudiziario di separazione dall’ex compagno ha segnato duramente i bambini. Strappati due volte dalla madre, la prima nel novembre del 2022 con modalità vergognose riprese dalle telecamere di Fuori dal Coro, la trasmissione di Mario Giordano su Rete 4. Mamma ammanettata, nonni impotenti, una trentina tra assistenti sociali, poliziotti e vigili del fuoco impegnati a buttare giù la porta di casa per portare via bambini non in pericolo di vita, ma terrorizzati dal prelievo violento. Finirono in una comunità, poi nuovamente vennero restituiti alla madre.
Il secondo allontanamento un anno fa, quando li andarono a prendere a scuola per portarli a 200 chilometri di distanza da nonni e mamma, separandoli pure tra di loro in due diverse case famiglia. Disposizioni dettate dalla Sezione quarta della Corte di appello di Venezia presieduta dal giudice Guido Marzella, che il 9 ottobre 2024 dichiarava la signora «decaduta dalla potestà genitoriale». Inoltre, disponeva il «temporaneo affidamento» dei bambini «ai servizi sociali del Comune di Venezia per la durata di nove mesi, con la previsione che le decisioni di maggiore importanza siano assunte dai servizi affidatari, previa interlocuzione con il padre, senza la preventiva autorizzazione di questa Corte».
Senza entrare nel merito del decreto, sul quale sta intervenendo il legale di Giovanna e che sembra stravolgere i ruoli di accusato e di accusatore (non dimentichiamo che la signora è uno dei 36 casi esemplari di vittimizzazione secondaria denunciati nel 2022 dalla Commissione parlamentare di inchiesta del Senato sul femminicidio), di fatto il Tribunale del riesame lasciava carta bianca al padre dei piccoli e ai servizi sociali. Perché, allora, non si sono accorti che il più piccolo stava molto male e necessitava di controlli?
Marina Terragni, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, ha chiesto «che si accerti se vi siano effettivamente stati ritardi e negligenze nell’intervento medico, se i servizi sociali e la struttura in cui il bambino era collocato abbiano efficacemente tutelato la sua salute - e così il padre, presso il quale i minori risiedono da luglio 2025 - e se l’iter giudiziario presenti eventuali irregolarità». Di più, l’Autorità garante non può fare malgrado l’enormità della situazione. «Posso esprimere solo auspici», spiega. «Ricevo decine di segnalazioni di bambini i cui diritti non sono rispettati ma non ho il potere di chiedere nemmeno gli atti di un procedimento. Ho chiesto di avere almeno poteri ispettivi, spero che me li diano».
Occorrono decisioni rapide, non è tollerabile che un bimbo malato non possa stare con la sua mamma, mai sfiorata dall’accusa di maltrattamenti nei confronti dei figli. Ministro della Giustizia Carlo Nordio: disponga indagini per accertare se due minori e la loro mamma sono stati davvero tutelati. Nel frattempo, non si perda tempo a interrogarsi che cosa è bene per una creatura che lotta contro il cancro.
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