Via dalla Russia, Renault lascia Togliattigrad. Mc Donald’s spegne le insegne

McDonald's e Renault lasciano la Russia
Non si arresta l’esodo dei grandi marchi occidentali da mercato russo . Sono i riflessi dell’invasione dell’Ucraina che, in un solo giorno hanno portato di imprese di primo piano come Mc Donald’s e Renault ad annunciare la cessione di tutte le loro attività a Mosca.
Dal canto suo Unicredit sta facendo lo stesso con la sua filiale e, secondo le indiscrezioni avrebbe ricevuto un'offerta da parte di Interros Capital. Si tratta della banca d’affari controllata da Vladimir Potanin, uno dei pochi oligarchi non sanzionato da Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Europea. Secondo il Financial Times, però, la banca italiana avrebbe rifiutato l'offerta. Nessun commento arriva dalle banche coinvolte mentre è stato confermato che Société Generale ha venduto la sua controllata, Rosbank Pjsc, proprio a Interros Capital.
VALORE SIMBOLICO
Tuttavia colpiscono molto di più l’immaginario, vista la notorietà dei marchi la cessione di Mc Donald s e Renault. L’uscita del colosso del fast food assume addirittura un valore simbolico visto che nel 1993 all’inaugurazione del secondo locale (il primo risale al 1975 ma aveva quasi carattere sperimentale) aveva partecipato addirittura il presidente Boris Yeltsin. Quell’inaugurazione era il sogno americano che si accendeva all’ombra del Cremlino. Il segno della svolta dopo la caduta del comunismo.
Poi a mano a mano, McDonald's crebbe fino a contare 847 punti vendita dei quali l'84% di proprietà, il restante in franchising. Trent’anni dopo l’uscita di scena di Mc Donald s segna ancora una volta la svolta. Una maniera per sottolineare la marcia indietro autoritaria in corso a Mosca.
A marzo, in seguito all'invasione ucraina, Mc Donald’s aveva deciso di chiudere temporaneamente i suoi ristoranti con un impatto di 50 milioni di dollari al mese. Erano rimasti le 100 rivendite in franchising. Ora la decisione di ritirare il marchio. La proprietà dell'attività in Russia «non è più sostenibile né coerente con i valori di McDonald's», ha dichiarato il gruppo americano che ha avviato la vendita con l’obiettivo primario di garantire l’occupazione dei 62mila lavoratori.
La società prevede un addebito da 1,2 a 1,4 miliardi di dollari per coprire i costi di trasloco. I ristoranti McDonald's in Ucraina rimangono per ora chiusi, anche se i lavoratori vengono pagati e l'azienda sostiene gli aiuti ai rifugiati in tutta Europa. Il colosso del fast food non è l'unica azienda a decidere di lasciare il mercato russo.
ISTITUTO DI RICERCA
La Renault infatti ha annunciato che venderà a un istituto di ricerca scientifica russo la sua partecipazione del 67,69% in Avtovaz. Si tratta della ex Togliattigrad che produce con il marchio Lada. Inoltre, il gruppo automobilistico francese cederà alla città di Mosca la sua quota totalitaria in Renault Russia. Non sono state rese note le cifre ma , almeno per Avtovaz dovrebbe trattarsi di un ammontare simbolico, pari a un rublo. L'accordo prevede un diritto di opzione per riacquistare la partecipazione entro sei anni, rimborsando gli eventuali investimenti fatti
LUCA DE MEO
Il ceo d del gruppo francese Luca de Meo, ha definito la decisione "difficile, ma necessaria. Stiamo facendo una scelta responsabile nei confronti dei nostri 45mila dipendenti in Russia", preservando la performance del gruppo e la sua possibilità di ritornare nel paese in presenza di un contesto geopolitico differente. Renault partecipata al 15% dal governo francese, è la casa automobilistica europea più esposta in Russia e a marzo ha annunciato che avrebbe sospeso la produzione nel paese a causa dello scoppio della guerra.
Il gruppo ha già annunciato di aver accantonato 2,2 miliardi per coprire i costi di abbandonare la Russia. Dal 24 febbraio, giorno di inizio dell'invasione russa in Ucraina, Renault a perso il 27% del suo valore. In occasione dell'annuncio, de Meo ha anche confermato le stime 2022 già espresse a marzo e aprile, con un margine operativo consolidato intorno al 3% e un flusso di cassa "positivo" dal comparto automotive, con una produzione di veicoli inferiore anno su anno di circa 300mila unità.
Ha detto, inoltre, che il gruppo è ancora avanti rispetto agli obiettivi intermedi del piano industriale "Renaulution", annunciato a gennaio 2021. Il piano prevede entro il 2023 un margine operativo del 3% e circa 3 miliardi di euro di free cash flo
Chi pensava che i due trust Providence e Providence II con base alle Bahamas fossero gli unici forzieri segreti degli Agnelli si sbagliava. Per nascondere le proprie liquidità la famiglia «reale» torinese, dal 2014, aveva scelto di diversificare, puntando in un altro oceano, questa volta quello Pacifico e precisamente a Auckland, in Nuova Zelanda. Uno stratagemma che ha permesso agli Agnelli di non vedere mai tramontare il sole sul proprio patrimonio. Infatti quando a Torino sono le 22, a Nassau sono le 16 e ad Auckland le 8 del mattino successivo. Per capire di che cosa stiamo parlando bisogna tornare a occuparsi dell’ultimo esplosivo filone dell’inchiesta per frode fiscale (poi derubricata a infedele dichiarazione) e truffa ai danni dello Stato della Procura di Torino, un’indagine che ha costretto il presidente di Stellantis, John Elkann, a scendere a patti con gli inquirenti per ottenere la so di investimento con disponibilità finanziarie per circa 250 milioni di euro e che quello Specialized investment fund (Sif) era gestito, anzi schermato, da un trust neozelandese, il Piz Nair trustee Limited con sede nel centro direzionale Mahuhu Crescent di Auckland, allo stesso indirizzo del Cone Marshall group e della Cone Marshall limited.
Su Internet sono presenti i dati essenziali della società che fungerebbe da schermo del fondo di investimento: il direttore è, dall’1 dicembre 2014, ovvero dalla fondazione, Geoffrey Peter Phillip Cone, classe 1954, avvocato originario di Timaru (Nuova Zelanda). È lui l’uomo dei misteri: avrebbe ben cinque passaporti (di Nuova Zelanda, Argentina, Svizzera, Hong Kong e Sud Africa) e anche un permesso di soggiorno italiano. Avrebbe pure un domicilio vicino a Como. L’attuale residenza ufficiale sarebbe in Argentina, a Buenos Aires, dopo essere stata per anni a Maldonado, in Uruguay. Avrebbe incarichi in oltre 200 società in giro per il mondo. In Italia Cone è intestatario del 100 per cento della Cone Marshall trustees Srl (capitale sociale 2.000 euro), di cui è presidente, mentre in passato aveva l’intero pacchetto societario della Fistoy Italia Srl, di cui resta amministratore unico. Nel nostro Paese è anche legale rappresentante della Cetinale Limited. Dal 2017 è direttore di Piz Nair anche Claire Judith Cooke, quarantacinquenne neozelandese cresciuta in Sud Africa (parla in modo fluente inglese e afrikaans). La signora ha ruoli in 230 società.
Cone è presidente e tesoriere del Cone Marshall group, la Cooke è managing director e partner della Cone Marshall Limited. Insomma il tesoro degli Agnelli è stato affidato alle menti del sistema. Sul sito del gruppo è spiegata la specialità della casa: «La nostra competenza consiste nel fornire consulenza, istituire e gestire strutture per detenere proprietà internazionali per i nostri clienti, per proteggere i loro beni e garantire una stabilità della famiglia, la governance e la successione». Per questo vengono messi a disposizione «avvocati, consulenti patrimoniali e contabili». Il gruppo ha uffici in luoghi strategici: Brasile, Singapore, Hong Kong, Dubai, Usa, Gran Bretagna (Londra), Isole Vergini britanniche, Svizzera (Zurigo, Ginevra e Lugano), Spagna, San Marino e Italia. La sede tricolore (la stessa della Marshall trustees Srl) è nell’esclusiva via della Spiga a Milano. Ma qui del trust di Elkann assicurano di non sapere nulla.
Piz Nair è controllato al 100 per cento da New Zealand trustee Limited a sua volta di proprietà del nostro Mr Cone. Sul sito del Cone Marshall group è possibile leggere una bio autorizzata di Geoffrey Cone: «È un avvocato esperto in trust e pianificazione fiscale a livello internazionale, nonché fondatore e senior principal di Cone Marshall Limited. Cone è un’autorità riconosciuta nel suo settore e, in quanto tale, ha condiviso la sua vasta conoscenza e competenza» in diverse pubblicazioni internazionali. «Cone ha iniziato a occuparsi di contenzioso commerciale e di consulenza fiscale e fiduciaria nel 1980. […] Cone ha messo a frutto la sua vasta esperienza in contenzioso e consulenza, lavorando come avvocato nelle Indie occidentali britanniche per due anni. Nel 1998, tornò in Nuova Zelanda per fondare la sua società, Cone and Co., che sarebbe poi stata trasformata in Cone Marshall Limited nel 2007. La lunga e illustre carriera di Cone lo ha reso una figura di spicco a livello internazionale nel settore della pianificazione fiduciaria e fiscale, motivo per cui alcune delle famiglie più ricche del mondo, le banche più importanti e stimati avvocati e consulenti hanno affidato al suo studio il loro lavoro e i loro beni». Tra questi sembra proprio anche Elkann. Veniamo, adesso, alla biografia non autorizzata di Cone. La sua storia, a un certo punto, si intreccia con i cosiddetti Panama papers, ovvero la clamorosa diffusione di un file composto da 11,5 milioni di documenti confidenziali creato dalla Mossack Fonseca, uno studio legale panamense, che conteneva informazioni dettagliate su oltre 200.000 società offshore costituite per consentire ai beneficiari di nascondere i patrimoni al Fisco dei rispettivi Paesi di origine. Ma il re dei paradisi fiscali, Mossack Fonseca, uno dei punti di riferimento globale per questo tipo di attività, aveva chi sognava di emularlo.
Scorrendo i documenti di un’inchiesta del 2016 del governo della Nuova Zelanda sui trust esteri si apprende che nel gennaio 2009 lo studio legale Cone Marshall chiede l’accreditamento presso Mossack Fonseca all’avvocato Ken Whitney, di Ross & Whitney. E la referenza finisce nei Panama papers. Viene indirizzata al Dipartimento compliance di Mossack Fonseca. Ecco il testo: «Scriviamo per confermare che Cone Marshall è uno studio legale affidabile che esercita ad Auckland, Nuova Zelanda, e con cui collaboriamo da molti anni», si legge su carta intestata di Ross & Whitney. «Siamo inoltre lieti di fornire una referenza verbale, se necessario», aggiunge Whitney nella lettera. Da allora, come vedremo, la Cone Marshall finisce a ragione o a torto in molti articoli di cronaca riguardanti scandali che hanno coinvolto politici (in Brasile) o grandi società che incassano appalti dai governi (in Slovacchia). Il consorzio di giornalismo investigativo che scoperchiò i Panama papers dedicò un sostanzioso capitolo alla Nuova Zelanda. Per esempio, nel 2016, svelò che «gli studi legali neozelandesi che nel 2014 fecero pressioni sul governo contro la chiusura del settore dei trust esteri in questo Paese avevano ampi legami con Mossack Fonseca». Nella notizia era specificato che «quattro dei cinque studi legali che hanno incontrato e fatto pressioni sull’allora ministro delle Entrate Todd McClay hanno fatto affari in varia misura con il controverso studio legale panamense».
Lo scoop citava anche il professionista che aveva raccomandato Cone allo studio centro-americano: «I Panama papers dimostrano anche che Ken Whitney, l’uomo che a lungo ha gestito le questioni legali personali del Primo ministro John Key, aveva legami con Mossack Fonseca attraverso due società registrate nelle Isole Vergini Britanniche, con Mossack Fonseca come agente. Whitney ha anche agito come arbitro per Karen Marshall di Cone Marshall nel 2009». Quando scoppiò lo scandalo in Slovacchia i cronisti annotarono che «le 11 società elencate come azioniste del colosso delle costruzioni Váhostav-SV sono state registrate in Nuova Zelanda dallo studio legale di Auckland Cone Marshall, di proprietà dei prolifici creatori di trust stranieri Geoffrey Cone e Karen Marshall». In Brasile, invece, Eduardo Cunha, già esponente di spicco del partito Movimento democratico brasiliano, venne accusato di aver nascosto il proprio patrimonio costruito a colpi di tangenti. La società utilizzata per occultarlo avrebbe, a un certo punto, spostato la sede legale presso lo studio Cone Marshall. L’avvocato spiegò ai giornalisti di aver liquidato il trust subito dopo avere sentito puzza di bruciato.
Cercando su Internet si possono trovare molte altre storie di questo tipo. Ma torniamo al Piz Nair, che in lingua romancia significa «Pizzo nero» (la montagna che domina Sankt Moritz). L’obiettivo dei trust è quello di segregare il patrimonio, in questo caso le quote del Sif lussemburghese. Questo istituto giuridico di origine anglosassone consente di nominare gestori delle poste finanziarie e beneficiari, che vengono così schermati. La Nuova Zelanda non è un Paese offshore e non si trova in nessuna black list, ma garantisce elevati standard di riservatezza. Per questo, come abbiamo visto, una decina di anni fa era finita al centro di polemiche.
Di fronte a un quadro tanto intricato viene da chiedersi: ma i soldi che sono finiti in pancia di Piz Nair da dove provengono? E perché dopo la morte di Marella e il trasferimento ereditario dei suoi beni i nipoti non hanno dichiarato quell’asset? Elkann, che ha accettato di pagare la tassa di successione sul fondo lussemburghese e, di fatto, ha ammesso di essere uno dei beneficiari finali dei 250 milioni di euro, perché, ancora nel 2025, teneva quel tesoretto nascosto nel Granducato? Che funzione aveva? E chi della famiglia era a conoscenza della sua esistenza? Viene anche da chiedersi perché Marella che aveva dichiarato la residenza (fittizia) in Svizzera per sfuggire al Fisco italiano abbia deciso di occultare milioni di euro in un’altra giurisdizione. È stata una sua idea? E perché i parenti hanno portato avanti questa scelta?
Purtroppo le risposte a tali quesiti, che potrebbero aprire scenari esplosivi, non potranno arrivare dalla Procura, visto che il pagamento di 183 milioni di imposte, sanzioni e interessi da parte degli Agnelli ha portato alla sospensione del fascicolo d’indagine e alla messa alla prova di John Elkann in una scuola dei Salesiani di Torino.